Pubblicazioni

Negligenza dell’avvocato: spetta al cliente provare oltre all’inadempimento anche il nesso di causalità

L’avvocato, come qualunque altro soggetto che adempie il proprio dovere, è tenuto, ai sensi dell’art. 1176 c. c., ad adempiere la propria obbligazione utilizzando la diligenza del buon padre di famiglia. A ciò va aggiunto che il richiamato art. 1176 c.c. specifica altresì che nell’esercizio delle attività professionali la suddetta diligenza debba essere valutata con riguardo alla natura dell’attività esercita.
Bisogna integrare quanto sin qui detto tenendo presente che l’attività dell’avvocato va valutata anche alla luce dell’art. 2236 c.c. regolante la responsabilità del prestatore d’opera. Tale articolo, infatti, ci dice, in modo inequivocabile, che se la prestazione d’opera implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, lo stesso prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.
Innanzitutto va detto che il rapporto giuridico che si instaura tra l’avvocato ed il proprio cliente viene di solito definito come contratto di clientela. Tale contratto deve essere inteso come un mandato professionale conferito sia da un soggetto privato che da uno pubblico, ad avvocati o altri procuratori liberi professionisti.
Si può vedere, quindi, come nello svolgere la propria attività l’avvocato non debba avvalersi della semplice diligenza del buon padre di famiglia ma di una diligenza media che va ben oltre a quella del padre di famiglia appena richiamata.
Essa infatti si riferisce ad una cura e a degli interessi specifici e qualificati che sono propri di un professionista altrettanto qualificato.
La perizia del professionista consiste nello svolgere la propria attività alla luce delle conoscenze tecniche maturate tramite lo studio e l’esperienza pratica.
Il che ci porta ad osservare come il professionista nel momento in cui è chiamato ad adempiere l’attività concordata con il cliente è tenuto ad informare i propri atti anche alla prudenza la cui inosservanza può essere costituita dall’operare senza un’adeguata riflessione. Non è difficile quindi far rientrare in tale concetto quelli di superficialità e leggerezza di comportamento.
In tal senso l’art. 1176 c.c. rappresenta un po’ una cartina al tornasole attraverso la quale valutare se la condotta materialmente tenuta dal professionista corrisponda o meno a quella idonea a raggiungere l’obiettivo sperato dal cliente.
Ora, nel momento in cui il cliente investe l’avvocato dell’instaurazione di un giudizio, viene richiamata la disciplina del contratto di prestazione d’opera e nel caso dell’avvocato quella della prestazione d’opera intellettuale.
Accertato, dunque, che la responsabilità dell’avvocato è al contempo una responsabilità da esecuzione di mandato ed una responsabilità professionale, si è soliti definire l’obbligazione dell’avvocato come obbligazione di mezzi e non di risultato.
L’avvocato, quindi, non è tenuto a rispondere nel caso in cui il suo cliente non raggiunge e non ottiene il risultato da quest’ultimo sperato, ed in ogni caso, mantiene inalterato il proprio diritto ad essere ricompensato del lavoro svolto.
Rimane comunque l’obbligo per il professionista, e quindi anche per l’avvocato di svolgere ogni attività necessaria e utile alla fattispecie concreta. Per questo motivo si può dire superata la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato muovendo dall’idea che il raggiungimento è subordinato alla predisposizione di mezzi utili per conseguirlo.
Il professionista, quindi, è chiamato a perseguire ed a raggiungere lo scopo voluto dal cliente svolgendo tutta una serie di prestazioni e comportamenti conformi alle norme di correttezza con la conseguenza che il risultato non può essere identificato con la piena soddisfazione del cliente, ma nell’attuazione e nell’utilizzo di tutte le attività che sono necessarie per poter dire realizzata l’opera.
Interessante, in proposito, osservare come giurisprudenza e dottrina siano d’accordo nell’osservare che di regola le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale rappresentano obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista presta la propria opera al fine di raggiungere il risultato desiderato, non necessariamente per conseguirlo.
Tuttavia, con riguardo all’attività professionale dell’avvocato, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un’obbligazione di mezzi, dato che egli si impegna ad offrire i suggerimenti necessari ed opportuni in modo tale che il cliente sia in grado di prendere una decisione consapevole, dopo aver valutato attentamente i rischi ed i vantaggi insiti nella proposizione dell’azione. Pertanto alla luce del parametro della diligenza professionale, sussiste la responsabilità dell’avvocato nel momento in cui nell’adempiere tale obbligazione, lo stesso non abbia prospettato al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto necessarie all’utile realizzazione dell’azione.
A complicare poi questo quadro, di per sé già di non semplice trattazione, sta il fatto che in alcune situazioni risulta davvero arduo riuscire a determinare se l’azione o l’omissione dell’avvocato siano causa di responsabilità. Si tratta delle ipotesi in cui l’insuccesso della causa sia dovuta a leggi o risoluzioni di questioni opinabili da parte del professionista.
Non costituisce, infatti, negligenza il cattivo esito della causa conseguente ad una interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili da parte dell’avvocato, a meno che il professionista abbia agito con dolo o colpa grave. Per potersi avere responsabilità dell’avvocato è necessario che l’errore da egli compiuto concerna un aspetto fondamentale dell’attività da lui svolta ovvero che l’errore abbia impedito al giudice di entrare nel merito della fattispecie.
Dunque vediamo che non solo la responsabilità dell’avvocato non è così semplice da individuare ma per di più sussistono casi in cui la stessa non può essere rilevata in quanto non tutte le omissioni o le negligenze dell’avvocato devono necessariamente essere inquadrate come fonti di responsabilità.
Ma esistono ipotesi come possono essere quelle di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili nei confronti delle quali l’avvocato mantiene una certa liberta di raffronto.
Non sempre, infatti, quella che ad un primo approccio può apparire come una dimenticanza, una negligenza o anche un semplice sbaglio dell’avvocato sia poi in effetti tale.
Nulla vieta, infatti, che un avvocato possa trovarsi di fronte a questioni che per loro natura siano facilmente opinabili, e decida di comportarsi in un determinato modo dettato dalla propria etica professionale portandolo probabilmente ad un risultato diverso da quello sperato dal cliente, ma non per questo da condannare come sbagliato in re ipsa.
L’avvocato, dal canto suo, è responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi dei predetti artt. 2236 e 1176 c. c., nei casi di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio.
Non rientrano, invece, nel dettato di tali articoli le ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili nelle quali deve ritenersi esclusa la responsabilità dell’avvocato a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave.
La responsabilità professionale è comunque una responsabilità basata su una condotta che si collega sia al dolo che alla colpa. Infatti il professionista risponde nei confronti del proprio cliente oltre che per dolo, per colpa anche lieve.
Sono diversi gli elementi che caratterizzano la responsabilità del professionista e quindi dell’avvocato. Innanzitutto la diligenza, la perizia e la prudenza. Ma a ciò va aggiunta la colpa professionale senza dimenticare l’errore professionale quando questo non costituisca una causa esimente.
Sempre in tema di responsabilità dell’avvocato è opportuno sottolineare come sia in ogni caso onere del cliente, il quale lamenta di aver subito un danno, provare la difettosa o inadeguata prestazione professionale, l’esistenza del danno ed il rapporto di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale ed il danno stesso. Per quanto riguarda l’inadeguatezza della prestazione professionale, il cliente ha dunque l’onere provare sulla base di dati obiettivi che l’attività svolta dal professionista non possa essere giudicata sufficiente.
Nella sentenza n. 978 del 17 aprile 2008 (pubblicata nell’arretrato del 9 giugno 2008) il tribunale di Bari non ha fatto altro che confermare l’orientamento che la Corte di Cassazione ha assunto nel corso del tempo sul tema, concentrando l’attenzione, in particolare, sul problema della prova del nesso causale tra condotta del professionista e danno riportato dal cliente.
Il passaggio più significativo della sentenza va individuato nella parte in cui il Tribunale individua l’oggetto della prova del nesso causale: il cliente deve dimostrare la fondatezza dell’azione che avrebbe dovuto proporre o perseguire l’avvocato, ovvero dimostrare che un’attività del professionista, ovviamente diversa da quella erroneamente e concretamente posta in essere, avrebbe comportato effetti più vantaggiosi per il cliente.
Una volta dimostrata l’omissione processuale, in altre parole, non è dovere del procuratore dimostrare di non aver ricevuto dal cliente gli elementi di prova rilevanti e decisivi, ma ricade sempre sul cliente l’onere di fornire la prova di aver preventivamente fornito all’avvocato elementi sufficienti a far ritenere che il giudizio avrebbe avuto un esito diverso e più favorevole per il cliente.
Nell’ambito della responsabilità dell’avvocato sta pian piano assumendo sempre più importanza il ruolo degli obblighi di informazione. L’avvocato è, infatti, tenuto ad informare il proprio assistito sulle possibilità di successo della causa, in modo di metterlo in condizione di decidere se valga la pena o meno di intraprendere l’azione giudiziaria.
Solo infatti nel caso in cui l’informazione fornita dal legale sia stata corretta ed esaustiva si può ritenere raggiunto il consenso del cliente al conferimento dell’incarico, e all’inizio o alla prosecuzione della causa. In proposito non bisogna sottovalutare il fatto che nel dovere di diligenza a carico dell’avvocato rientrano anche i doveri d’informazione, di sollecitazione e di dissuasione, ai quali il professionista deve adempiere.
Facile dedurre quindi che la responsabilità dell’avvocato ruota non tanto intorno all’ottenimento della pretesa del cliente quanto piuttosto all’attuazione e allo svolgimento, da parte del professionista, di tutti gli accorgimenti e di tutte le attività che gli sono demandate.
La difficoltà semmai sta nel riuscire a dimostrare l’esistenza di un nesso causale intercorrente tra l’attività positiva od omissiva del professionista ed il danno patito dal cliente.
Il danno del cliente, infatti, non può essere identificato sic et simpliciter con l’esito favorevole della lite dato che per potersi parlare di responsabilità del professionista è necessario che il fallimento della pretesa del cliente sia conseguenza diretta dell’azione od omissione dell’avvocato.
Facile e forse anche riduttivo sarebbe ridurre la questione ad una relazione mancato ottenimento dello scopo del cliente-responsabilità dell’avvocato. In realtà la questione è molto più complessa ed implica tutta una serie di ragionamenti che vanno al di là della materiale soddisfazione della pretesa del cliente.
Il problema è serio e non di facile soluzione. Se bastasse l’infausto esito della causa a generare la responsabilità del professionista ci troveremmo di fronte ad una situazione utopica caratterizzata da perdenti senza vincitori. Chiunque infatti potrebbe vantare diritti al risarcimento dei danni nei confronti dei propri legali in caso di disattesa del risultato sperato. Per fortuna le cose stanno in modo molto diverso.
La responsabilità di cui si parla infatti, deve essere accertata valutando se il professionista in questione abbia o meno compiuto tutti quegli atti e quei comportamenti che risultino poi essenziali e strumentali al buon esito della causa. In altri termini, solo nel caso in cui l’avvocato non abbia adempiuto a tutte le formalità richieste per quella specifica attività o per quel dato atto, e la richiesta del cliente non sia stata conseguentemente accolta, è possibile parlare di responsabilità dell’avvocato.
Il problema al riguardo è verificare se effettivamente dalla condotta positiva o omissiva dell’avvocato derivi poi l’insuccesso della causa. Bisogna, cioè, controllare se compiendo quell’azione o quell’omissione le sorti della causa in discorso sarebbero effettivamente risultate diverse.
La materia della responsabilità dell’avvocato si è poi ulteriormente sviluppata sulla falsa riga di quanto disposto in materia di responsabilità medica per la perdita di chance di guarigione e di sopravvivenza in base al quale il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata probabilmente salvata.
La certezza del danno patito dal cliente non deve essere intesa in senso assoluto ma deve essere studiata e colta alla luce del criterio della ragionevole certezza se non addirittura in termini di semplice probabilità.
L’avvocato, infatti, nell’espletamento della attività professionale, deve tendere a conseguire il buon esito della lite per il cliente e pertanto sussiste la sua responsabilità se, probabilmente, esso non è stato raggiunto per sua negligenza.
Anzi perché possa affermarsi l’esistenza di un valido nesso causale tra l’inadempimento ascritto all’avvocato, ed il danno patito dal cliente, è necessario accertare che, se l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, l’esito della lite sarebbe stato diverso da quello effettivamente avveratosi.
Si può quindi osservare come nel caso in cui il cliente richieda al proprio difensore il risarcimento dei danni che egli ritiene subiti a seguito del mancato compimento di un atto da parte dello stesso difensore, non potrà limitarsi a dedurre in astratto che il compimento dell’atto mancante avrebbe determinato un esito diverso della causa, ma dovrà dimostrare, anche con l’introduzione di nuovi documenti o altri mezzi di prova, la ragionevole certezza che l’atto, se compiuto avrebbe determinato il conseguimento del risultato sperato.
Facile intuire, quindi, che ciò che si richiede è la necessità di una dimostrazione del danno subito pena il rigetto dell’azione risarcitoria.
Non può ci può essere infatti condanna del professionista semplicemente adducendo quale causa la negligenza del professionista nello svolgimento dell’attività professionale se si chiede una generica declaratoria di responsabilità. Ma sarà onere dell’attore (il cliente) fornire la prova, oltre che della negligenza o errore professionale del convenuto (l’avvocato), anche dell’esistenza di un concreto danno patrimoniale e del necessario nesso di causalità.
L’orientamento seguito dalla giurisprudenza e dalla dottrina di voler ricondurre la problematica relativa alla responsabilità dell’avvocato a quella del danno da perdita di chance, non ha comunque risolto il problema relativo all’ammontare del risarcimento. Resta pertanto irrisolto il quesito relativo alla individuazione di criteri certi attraverso i quali operare il risarcimento.
Volendo riassumere possiamo dire che il cliente che lamenta il cattivo operato del proprio legale (ovviamente non più di fiducia) dovrà provare oltre l’inadempimento del professionista così come rinvenibile dal combinato disposto degli artt. 1176 e 2236 c.c. anche il nesso di causalità convincendo il giudice che doveva adottarsi una diversa strategia processuale o che esiste una negligenza o omissione del professionista, senza dimenticare poi che sempre al cliente è fatto obbligo di fornire la prova del sicuro fondamento dell’azione: ovvero dovrà dimostrare che le sue ragioni potenzialmente sussistevano, ma l’operato maldestro dell’avvocato le ha fatte sfumare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *