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Il concetto di interessi extra legali e la necessaria consapevolezza del debitore

La sentenza 26010/07 (qui leggibile come documento correlato) offre lo spunto per approfondire la tematica delle obbligazioni pecuniarie con particolare attenzione agli interessi extralegali.
La vicenda che ha dato origine alla pronuncia in commento può essere così brevemente sintetizzata.
Con sentenza 24 ottobre 2001 il Tribunale di Venezia respingeva il ricorso proposto dai ricorrenti con il quale si opponevano al pagamento della somma di Euro 25.000 oltre agli interessi pari a tre punti e al tasso ufficiale di sconto dalla notifica al saldo e agli ulteriori accessori.
Avverso questa sentenza, gli opponenti proponevano appello notificandolo alla Cardine Banca s.p.a. essendosi la Cassa di risparmio di Venezia (parte convenuta in primo grado) estinta per incorporazione nella Cardine Banca a seguito di atto di fusione in data 1 febbraio 2001. Peraltro contestavano il difetto di convenzione scritta attinente la determinazione del tasso passivo degli interessi, e la nullità delle clausole relative agli interessi medesimi. L’appellata controdeduceva che la pattuizione scritta degli interessi era già contenuta nel documento allegato al ricorso per decreto. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza del 12 giugno 2003 in relazione all’eccezione proposta dagli appellanti sulla mancanza della sottoscrizione della banca per accettazione, osservava nondimeno che la banca appellata aveva manifestato validamente il suo consenso producendo in giudizio l’atto e dunque in alcun modo ricorreva la circostanza ostativa paventata dalla giurisprudenza di legittimità che nel periodo intermedio una delle parti abbia revocato il suo consenso.
Oltretutto parte appellante non aveva prodotto in giudizio i propri conteggi a dimostrazione dell’inesattezza di quelli avversari e dunque la doglianza circa il tentativo di considerare capitale la somma ingiunta, frutto di interessi ultralegali, appariva generica. A ciò si aggiunga che le modificazioni del tasso erano state praticate solo in riduzione e dunque l’eventuale nullità parziale della convenzione, nella parte in cui per l’appunto consentiva un aumento, non avrebbe comportato conseguenze concrete.
Del tutto sfornite di prova erano pertanto rimaste le contestazioni mosse dall’appellante rispetto sia alla capitalizzazione degli interessi trimestrali, sia alla doglianza circa l’applicazione di un tasso d’interesse extralegale perché superiore di tre punti al tasso ufficiale di sconto.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso parte appellante per l’integrale cassazione della sentenza resa in secondo grado.

LA LETTURA DELL’ART. 330 C.P.C IN COMBINATO DISPOSTO CON L’ART. 328 C.P.C.
L’art. 300 c.p.c. subordina l’effetto interruttivo del processo, alla coesistenza di due elementi essenziali, costituiti rispettivamente dall’evento previsto come causa d’interruzione e dalla relativa dichiarazione formale ad opera del procuratore della parte che ne è colpita.
Qualora uno degli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo si verifichi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione, e tale evento non venga dichiarato né notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce ai sensi dell’art. 300 c.p.c. il giudizio d’impugnazione dev’essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati.
Ed invero, in proposito è noto che la morte di una parte nel corso del giudizio comporta la trasmissione della sua legittimazione processuale agli eredi.
Orbene, quando si verifica tra una fase processuale e l’altra la morte o la perdita della capacità di agire della parte persona fisica, il problema della notificazione dell’atto di impugnazione va risolto alla luce delle disposizioni contenute nell’art. 328 c.p.c. Ne deriva che l’impugnazione deve essere proposta contro il soggetto attualmente legittimato. A tal proposito si osservi che la fusione di una società per incorporazione in un’altra determina automaticamente l’estinzione della società assoggettata a fusione e il subingresso nei rapporti ad essa relativi per successione a titolo universale della società incorporante. Inoltre qualora tale evento si verifichi nella fase della quiescenza ex art. 328 c.p.c. di un rapporto processuale in cui sia parte la società incorporata, soltanto il nuovo ente, in quanto successore universale è legittimato ai sensi dell’art. 110 c.p.c. a proseguire il giudizio senza che possa trovare applicazione il principio di ultrattività della procura, in caso di mancata denuncia dell’evento interruttivo, poiché tale principio riguarda la diversa ipotesi della verificazione di detto evento nel corso di un grado del giudizio.
È in questa prospettiva che la Corte si è pronunciata ribadendo nella sentenza in rassegna che correttamente gli appellanti notificarono il gravame alla Cardine Banca s.p.a. società che avendo incorporato la Cassa di risparmio di Venezia della medesima era successore a titolo universale, questo, alla luce dell’art. 328 c.p.c che rappresenta la chiara volontà del Legislatore di adeguare il processo d’impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, ai fini della notifica sia della sentenza, sia dell’impugnazione, con piena parificazione tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato né notificato.

LA PATTUIZIONE D’INTERESSE ULTRALEGALE EX ART. 1284 C.C. E LA FORMULAZIONE LETTERALE DELLA CLAUSOLA CONTRATTUALE
Le obbligazioni pecuniarie ex artt 1277 c.c. si classificano in quelle avente ad oggetto una somma già determinata in virtù del titolo giudiziale o convenzionale ove la misura o la scadenza sia già stabilita, nonché, in quelle in cui la somma oggetto dell’obbligazione sia determinabile ricorrendo a criteri di computo precostituiti già dalla nascita dell’obbligazione stessa.
In entrambi i casi, il debito pecuniario si estingue con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale
L’art. 1277 comma 1 c.c. fa salvo, quindi, il cosiddetto principio nominalistico per cui proprio la somma inizialmente trasferita verrà restituita. È così garantita l’immutabilità del credito, appunto, dal punto di vista nominale a fronte della svalutazione monetaria.
Il debito soggetto al principio nominalistico si configura quale debito di valuta. Diversamente, i cosiddetti debiti di valore non risentono del suddetto principio, ma scaturendo da una qualsiasi forma di risarcimento o indennizzo, in essi la moneta non è altro che la misura economica della lesione subita.
Le prestazioni pecuniarie e periodiche corrisposte da chi utilizzi un capitale altrui o ne ritarda il pagamento costituiscono gli interessi. La pecuniarietà, la percentualità, la periodicità e l’accessorietà sono le caratteristiche fondamentali degli stessi.
Per inciso, distinguiamo vari tipi di interessi, quelli legali aventi la loro fonte nella legge o in altro atto avente efficacia normativa generale e gli extra legale disciplinati nelle convenzioni tra le parti. .Le parti possono, peraltro, stabilire un più alto tasso d’interesse, rispetto a quello imposto per legge, purché tale patto rivesta la forma scritta ad substantiam.(1284 co. 3 c.c.). In questa direzione, il patto risulterà nullo quindi solo nella parte in cui la determinazione di un tasso superiore a quello legale non sia stato trascritto. In tal caso, gli interessi verranno corrisposti nella misura legale.
Così operando la norma in parola dispone che gli interessi siano fissati per iscritto. In questo senso va osservato però che una parte della dottrina aveva ritenuto, sufficiente solo il documento del creditore e non la sottoscrizione del debitore.
Tuttavia,una tesi maggiormente coerente con il fondamento della disposizione, peraltro, considera che la clausola contenente la misura extra legale degli interessi debba rivestire la forma per iscritto, ma debba essere sottoscritta dal debitore.
Ancora, anche in caso di nullità del patto non è prevista la ripetizione degli interessi ultra legali corrisposti, trattandosi di un’obbligazione naturale.
La giurisprudenza ritiene, ciononostante, che la misura degli interessi possa fissarsi anche per relationem, ricorrendo, così, ad elementi esterni.
Così ragionando, rapportandoci agli istituti di credito, si ritiene che la misura sarebbe quella praticata usualmente dagli stessi. Tuttavia, un’interpretazione minoritaria della giurisprudenza osserva che il rinvio al tasso usuale si riferisce comunque agli usi subordinati alla legge. A tal proposito, si rammenta che il T.U. bancario del 1993 stabilisce la nullità delle clausole contrattuali di rinvio agli usi ai fini della determinazione dei tassi d’interesse.
Un altro limite all’autonomia negoziale dei privati in ordine agli interessi è stabilito altresì dal divieto degli interessi usurari, ovvero, quelli che esorbitano dai valori di mercato.
Orbene, per la configurazione del reato di usura non viene richiesto più l’approfittamento dello stato di bisogno, ma vengono stabiliti criteri oggettivi di qualificazione usuraria degli interessi o di altri vantaggi in corrispondenza di obbligazioni pecuniarie.
L’art 1283 c.c. sulla scadenza degli interessi anatocistici contempla gli usi contrari, riferendosi, pertanto, agli usi normativi.
Del resto nei contratti bancari, che assumono in questa sede importanza fondamentale, le condizioni economiche degli stessi ex art 116 del D.lgs 1 settembre 1993, n. 385 devono rispettare una serie di regole relative alla pubblicità delle stesse. Orbene, i tassi di interesse, incidendo sul contenuto economico dei rapporti tra banca e cliente devono essere resi noti in tutti i locali ove il pubblico abbia accesso: locali adibiti a ricevimento, trattativa e conclusione dei contratti. Ancora, ex art 117 TU al IV comma è previsto che il tasso di interesse dev’essere indicato nel contratto, nonché, al VI comma statuisce la nullità delle clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione del tasso d’interesse e al VI comma la nullità delle clausole che fissano tassi più sfavorevoli rispetto a quelli pubblicizzati.
Poste tali premesse, la sentenza oggetto del presente commento si allinea alla consolidata giurisprudenza in merito e agli orientamenti presenti in dottrina, confermando quindi il principio ex art 1284 c.c. secondo cui le clausole contrattuali che disciplinano interessi superiori a quelli legali necessitano della forma scritta ad substantiam e della sottoscrizione del debitore.
Infatti, riferendoci al caso di specie, la produzione dell’atto in corso di giudizio era relativo ad un accordo già intervenuto tra le parti e non da perfezionarsi (circostanza peraltro documentalmente provata).
Correttamente quindi, la Suprema Corte riportandosi alla clausola in esso contenuta rileva l’avvenuta sottoscrizione di entrambe le parti e rigetta la censura proposta, sottolineando che, essendo un fatto pacifico non doveva neppure proporsi. Per quanto attiene inoltre la II censura contenuta nel I motivo d’impugnazione relativa alla sottoscrizione del patto di interessi ultralegali, il Supremo Collegio si sofferma e analizza la clausola contrattuale de quo, riportandola interamente.
Dalla formulazione suddetta, i giudici della I sez Civile rilevano che il documento prodotto dalla banca nei giudizi precedenti contiene non una proposta, bensì, una vera e propria accettazione da parte del correntista. Ciò si evince soprattutto della clausola e, dal verbo “confermare” che prevede un già intervenuto accordo tra le parti in merito. Tale proposta risulta, di fatto ricevuta e accettata dal correntista e sottoscritta dalla banca.
Quindi, il problema della sottoscrizione del patto de quo secondo la Corte non avrebbe dovuto essere posto, trattandosi di un punto pacifico data la chiarezza e la linearità della clausola stessa. In quest’ottica i ricorrenti ricollegandosi alla presunta nullità della clausola de quo, lamentano la violazione degli artt 2697 e 1832 c.c.

LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2697 E 1832
Le norme poste dagli artt. 2697 e segg. c.c. relative all’onere della prova e l’ammissibilità e l’efficacia dei vari mezzi probatori concernono il diritto sostanziale, di conseguenza, la loro violazione determina i cosiddetti errores in iudicando e non in procedendo.
È evidente, quindi che nel giudizio di cassazione il giudice potrà solo constatare che lo svolgimento del giudizio sia conforme al rito. In tale sede, quindi, il ricorrente per ottenere una pronuncia che attesti l’avvenuta violazione delle suddette norme, dovrà indicare dettagliatamente gli elementi necessari ai fini della doglianza mossa al riguardo.
Inoltre, attraverso il principio di acquisizione attualmente vigente nel nostro ordinamento processuale, al fine di dimostrare i fatti costitutivi del preteso diritto, è possibile ricavare prove non solo da chi è gravato dell’onere stesso ma anche dagli elementi probatori acquisiti al processo.
Il succitato principio, quindi, prevede che le risultanze istruttorie ottenute, qualsiasi essa sia la loro provenienza e quale che sia la parte ad iniziativa o istanza della quale sono formate, contribuiscono tutte alla formazione del convincimento del giudice senza che la diversa provenienza possa condizionarla. È possibile, ordunque, utilizzare una prova fornita da una parte per trarne elementi favorevoli alla controparte.
Secondo una recente giurisprudenza, l’operatività delle regole sull’onere della prova trova il suo unico limite laddove i fatti da provare risultino dagli elementi già acquisiti al processo, ma non nella difficoltà di provare i fatti stessi.
In relazione, invece, alle scritturazioni contenute nel conto corrente ex art 1832 c.c. e nel documento di saldaconto, qualora la parte cui sono stati trasmessi omette una tempestiva contestazione, si ritengono assistiti da una presunzione di veridicità, nonché, approvati con relativa preclusione di eventuali contestazioni sulla legittimità sostanziale dell’inclusione di partite nel conto stesso. Consolidata giurisprudenza si esprime in tal senso, precisando peraltro che poiché le scritturazioni sono assistite da una presunzione di veridicità, il giudice procederà ad un accertamento contabile dei suddetti documenti solo laddove il ricorrente abbia effettuato una contestazione puntuale delle voci.
Ed invero, nel caso affrontato dagli ermellini con la pronuncia che qui si esamina, i ricorrenti ricollegandosi alla nullità della pattuizione, denunziano la violazione dell’art 2697 c.c., lamentando la mancata dimostrazione da parte della banca del suo esatto credito in conto capitale, e dell’art 1832 c.c. per la mancata contestazione da parte del cliente degli estratti conto periodicamente inviati.
Tuttavia le doglianze così mosse per la loro stessa formulazione vengono assorbite dalla censura precedente e, pertanto, la Corte le rigetta.
D’altro canto il Supremo Collegio, coerentemente chiarisce un’altra problematica oggetto di contrastanti interpretazioni ovvero la variabilità del tasso debitore da parte della banca.

LA VARIABILITÀ DEL TASSO DEBITORE AD INIZIATIVA DELLA BANCA PUÒ DAR LUOGO A NULLITÀ?
Il principio della variabilità dei tassi è stato recepito a livello normativo nell’art 117 del TU bancario e nella legge 17/2/1992.
La clausola della variabilità in peius del tasso d’interesse costituisce una clausola vessatoria e, pertanto, richiede la puntuale e specifica approvazione scritta del cliente e la sua operatività prevede l’esercizio dello ius variandi da parte della banca stessa secondo le modalità ex art 118 t.u. bancario.
Tale norma, riprendendo e specificando i contenuti dell’analoga disposizione ex art 6 L n. 154/92, stabilisce la sanzione di inefficacia per le variazioni contrattuali in relazione alle quali non siano state rispettate le regole per la comunicazione alla clientela.
Il contenuto negoziale può essere variato attraverso la tacita accettazione del cliente per la variazione contrattuale disposta dalla banca. Infatti, il comma III dell’art 118 statuisce che entro 15 gg dalla ricezione della comunicazione scritta o dall’effettuazione di altre forme di comunicazioni prescritte dal CICR, il cliente può esercitare il diritto di recesso e in tale eventualità ha diritto di ottenere in sede di liquidazione del rapporto, l’applicazione delle condizioni vigenti ante variazione.
Il diritto di recesso del cliente, nell’ipotesi di conto passivo, determinando la liquidazione del rapporto, comporta l’immediata esigibilità del credito della banca.
Altro aspetto oggetto di numerose controversie è la genericità dello ius variandi ex art 118 Considerando ora la L 154/93 si evince che quest’ultima, così come il t.u. bancario, ha trascurato il tema dell’anatocismo, sebbene, all’art 8 della suddetta legge viene inserito tra i dati che obbligatoriamente la banca deve farne comunicazione al cliente “la capitalizzazione degli interessi”, riconoscendone, dunque, la legittimità.
Le stesse norme bancarie uniformi per i conti correnti di corrispondenza, nella formulazione trasmessa all’Abi il 3 febbraio 1995, disponendo all’art. 7 II co. la contabilizzazione degli interessi sui saldi passivi, omettono ogni riferimento in ordine ai criteri di capitalizzazione degli interessi, adeguandosi, peraltro, all’indicazione della Banca d’Italia, quale Autorità garante della concorrenza e del mercato, secondo cui le norme uniformi non devono prevedere indicazioni aventi contenuto economico, rinviate alla convenzione tra le parti espressa nel modulo allegato.
Va, inoltre, sottolineato che la raccolta degli usi e delle consuetudini del settore del credito accertati su base nazionale stabilisce che nelle operazioni bancarie l’interesse è quantificato portando in conto; ovvero per i conti e depositi non vincolati l’interesse semplice maturato annualmente; per i conti e i depositi vincolati, l’interesse semplice maturato alle corrispondenti scadenze o annualmente; per i conti correnti anche talvolta debitori, l’interesse semplice maturato alla fine di ogni trimestre, ovvero a fine marzo, giugno, settembre, dicembre.
Alla stregua di questa situazione nei rapporti di conto corrente bancario la giurisprudenza di legittimità ha a lungo ritenuto che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista integra un uso normativo che deroga in maniera legittima il divieto di anatocismo ex art 1283 c.c., che disciplina la materia in mancanza di usi contrari.
La Giurisprudenza di legittimità ha altresì stabilito che l’uso normativo non richiede di essere recepito nelle forme contrattuali, anche se necessarie e speciali ed opera obbiettivamente, salvo la clausola contenuta nel negozio, con effetto integrativo della volontà delle parti, secondo il disposto dell’art 1374 c.c.
Accanto all’anatocismo convenzionale e quello giudiziale la legge ammette l’anatocismo basato sugli usi, per il quale non sono previste le condizioni operanti per i primi due tipi e, dunque, neanche il limite della semestralità della capitalizzazione.
La giurisprudenza di merito, invece, ha ritenuto che gli usi cui si riferisce l’art 1283 c.c. abbiano natura normativa e che, pertanto, si pongono sullo stesso piano della statuizione normativa, come manifesta eccezione al principio generale sancito in essa.
Ne deriva peraltro che nonostante l’art 1825 c.c. non venga espressamente richiamato dall’art 1857 c.c. è illogico credere che, tenuto conto della rilevanza che il nostro ordinamento assegna all’esercizio del credito, la capitalizzazione degli interessi che costituisce regola generale nei rapporti regolati in conto corrente e connessa alla loro apposizione nel conto, non trovi applicazione in materia bancaria, ovvero che le parti, esercitano la loro autonomia contrattuale, non possano prevedere esplicitamente la capitalizzazione degli interessi, prevista per legge dalla disciplina del conto corrente ordinario. Il suddetto meccanismo della capitalizzazione degli interessi, viene difatti applicato dalle banche nell’ipotesi e di saldi attivi e passivi del correntista.
A tale proposito numerose sono state in dottrina le critiche in ordine al diverso trattamento per le posizioni attive e passive, considerato “un ingiustificato privilegio per gli istituti di credito, che contribuisce a rendere meno trasparente la cosiddetta forbice fra costo del credito bancario e remunerazione bancaria del risparmio”.
Ancora, risulta aperto il dibattito sulla legittimità della prassi bancaria della capitalizzazione trimestrale sulla reale esistenza nel 1942 di un uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori ed è stato, così, escluso che la ripetuta applicazione di regole attraverso condizioni generali di contratto possa creare un uso normativo. Tale ipotesi è stata, chiaramente, rigettata da una pronuncia giurisprudenziale secondo la quale “il senso del rinvio operato dall’art. 1283 c.c. sarebbe quello di fare salvi gli usi contrari vigenti al momento dell’entrata in vigore del codice, la norma, per un verso, sarebbe destinata ad esplicare la sua efficacia regolatrice per l’avvenire, per altro verso, invece, andrebbe a disciplinare retroattivamente l’individuazione della propria fonte derogatrice”.
Ad ogni modo, si rileva che le indicazioni che si ricavano dalle disposizioni di attuazione e transitorie sembrano escludere l’intenzione del legislatore di far salve soltanto le consuetudini contrarie preesistenti.
La legittimità delle consuetudini in materia di interessi era già prevista dal codice del 1865, ecco quindi spiegato il motivo che ha portato la giurisprudenza di merito ad affermare che “la previsione di cui all’art. 1283 c.c. si rivolge ai rapporti futuri e riconosce e sanziona l’operatività della consuetudine, nella forma tipica e normale prevista dall’art. 8 delle disposizioni sulla legge in generale. L’art. 162 disp. att. disciplina, invece, i rapporti preesistenti, estendendo retroattivamente il divieto dell’anatocismo, ma riconoscendo l’efficacia derogatrice degli usi contrari precedenti”.
Ora nella sentenza che si annota i ricorrenti denunziano la violazione degli artt 1346, 1418,1419 c.c. in quanto, la variabilità del tasso debitore ad iniziativa della banca rende indeterminato l’oggetto e, pertanto, la clausola è da considerarsi nulla, ma la Suprema Corte dichiara il suddetto motivo d’impugnazione inammissibile in quanto, la nullità denunziata era relativa al titolo negoziale e non il rapporto. Pertanto, il comportamento della banca risultava essere irrilevante non avendo essa concretamente applicato i tassi maggiori di quello convenuto.

CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI TRIMESTRALI
Anche per quanto attiene la capitalizzazione trimestrale degli interessi la Cassazione con la sentenza 26010 interviene per definire l’applicazione di questa clausola nel corso di un rapporto di conto corrente. All’uopo giova ricordare che la giurisprudenza ha dichiarato la nullità della previsione contrattuale relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi. Tuttavia per circa vent’anni, la Cassazione ha affermato la legittimità delle clausole che prevedevano la capitalizzazione trimestrale degli interessi, per lungo tempo praticata dalle banche, precisando che tale meccanismo non era contrario ai limiti ex art 1283 c.c.
Secondo tale precedente orientamento, gli usi contrari indicati nel codice dovevano considerarsi usi normativi, perché operanti sullo stesso piano della norma de quo, costituendo un’eccezione al principio ivi accennato, idonea a derogare al divieto di anatocismo.
Diversamente, le sentenze della Suprema Corte del 1999 hanno invertito l’orientamento consolidato affermando – discostandosi così dal precedente orientamento – la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, sulla base dell’inesistenza di un uso normativo teso a derogare l’art 1283 c.c.
Ne discende che la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria, è nulla perché anteriore alla scadenza degli interessi.
Questa nuova interpretazione avrebbe imposto quindi alle banche di far fronte a notevoli esborsi nei confronti dei propri clienti, sottoposti alla capitalizzazione trimestrale. In ragione di ciò, il legislatore ha emanato il D.lgs 342/1999 che, all’art 25, stabilisce le modalità di calcolo degli interessi.
In particolare, al III comma del suddetto articolo si garantisce una sorta di “sanatoria” per il pregresso, operando, pertanto, il salvataggio delle clausole di capitalizzazione trimestrale previste nei contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina. Ancora, la Corte Costituzionale con la sentenza n 445/2000 ha confermato, seppur implicitamente, l’orientamento della Suprema Corte del 1999, dichiarando l’illegittimità dell’art 25 co. 3 D.lgs 342/99. Ha, altresì, escluso che la predetta legge delega potesse permettere l’emanazione di una disciplina speciale di sanatoria delle clausole anatocistiche dei contratti bancari e che ne potesse predisporre per la loro validità. Ed ancora di recente, le SS.UU. sono tornate sul punto con la nota sentenza n 21095/2004 con la quale non solo hanno confermato la nullità delle clausole de quo, ma anche puntualizzato che esse erano da ritenersi invalide già prima del mutamento del 1999. Sino alla fondamentale sentenza 21095/04 gli utenti delle banche raramente agivano contro queste ultime per ottenere la ripetizione degli interessi indebitamente richiesti o trattenuti dall’istituto; ciò sia allorquando gli utenti avessero già restituito alla banca il deposito scoperto e avessero già chiuso il conto; sia quando la posizione debitoria verso la banca fosse ancora in essere.
Nel caso di specie, quindi la denuncia dei ricorrenti circa il vizio di motivazione della decisione emessa dalla Corte veneziana in punto di capitalizzazione degli interessi, merita a ragion veduta ad avviso della Corte censura di inammissibilità dal momento che attiene al vizio di motivazione e, pertanto, si ritiene necessario il riesame dei documenti di causa non esperibile in tale sede.

L’APPLICAZIONE DEL TASSO UFFICIALE DI SCONTO
Infine un ultimo ma decisivo punto su cui la Corte si pronuncia con la sentenza n 26010 attiene alle peculiarità circa l’applicazione del tasso ufficiale di sconto.
Com’è noto il tasso con cui la banca centrale concede prestiti alle alte banche è detto tasso ufficiale di sconto. Sulla base di quest’ultimo è determinato il tasso d’interesse che le banche applicheranno ai propri clienti, ed il tasso interbancario quale tasso applicato ai prestiti fra le banche. Quando la banca centrale aumenta il tasso, siamo dinanzi ad una stretta creditizia, ovvero una tendenza finalizzata alla riduzione dei crediti, dovuta all’aumento del costo del denaro.
Diversamente, quando la banca centrale riduce il tasso ufficiale di sconto, conseguentemente assisteremo ad un aumento di consumi e investimenti con relativo minor costo del denaro.
È bene ricordare che dal 1999 il tus (tasso ufficiale di sconto) ha cambiato denominazione in TUR (tasso ufficiale di riferimento) fissato dalla banca d’Italia e poi applicato nelle sue operazioni di rifinanziamento nei confronti del sistema bancario.
L’ex tus è stato peraltro sostituito dal tasso di riferimento della politica monetaria, adoperato dalla BCE per la politica monetaria. Questo tasso sostituisce definitivamente il vecchio tus che è stato gestito dalla banca d’Italia fino al 1/12/1998.
Ciò premesso, anche il quinto motivo proposto dai ricorrenti in relazione alla doglianza circa l’applicazione del tasso ufficiale di sconto viene respinta dalla Corte. Ed invero si legge in sentenza che il tasso dalla domanda al saldo costituiva l’applicazione della previsione contrattuale, di un tasso superiore del 3% a quello del tasso ufficiale di riferimento, che secondo il giudice di merito le parti intendevano richiamare con il riferimento al tasso ufficiale di sconto con la clausola in questione. Tuttavia i ricorrenti non chiariscono dove sarebbe ravvisabile la denunciata illogicità.

CONCLUSIONI
Alla luce delle suesposte considerazioni si osserva conclusivamente che la Suprema Corte nella sentenza oggetto della nostra disamina, ribadisce e chiarisce il concetto di interessi extra legali. Statuisce, infatti che la clausola contrattuale che li prevede dev’essere posta per iscritto e sottoscritta dal debitore.
Orbene, è chiaro quindi che, non basta ai fini della validità ad substantiam la forma scritta, ma è necessaria la piena consapevolezza del debitore qualora ci sano state delle modifiche ai tassi disciplinati dalla legge.

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