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IL RUOLO DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI NELLA CORPORATE GOVERNANCE

Introduzione

Gli investitori istituzionali sono legati al concetto di istituzioni finanziarie specializzate in quanto hanno la gestione collettiva dei risparmi dei piccoli risparmiatori.

La tendenza all’istituzionalizzazione dei risparmi è cresciuta negli ultimi decenni in quanto si è verificato un aumento dei risparmi dati in gestione a investitori specializzati dalle famiglie. Questa tendenza ha comportato da un lato la diminuzione del capitale direttamente investito e di quello conservato in depositi bancari, e dall’altro la conseguente crescita degli investitori istituzionali, ovvero dei fondi comuni, delle compagnie assicurative e dei fondi pensione.

Questo trend viene facilmente spiegato della crisi della dinamica inflativa che, stazionata su livelli fisiologici, ha interessato profondamente i titoli obbligazionari e ha indirizzato i piccoli investitori verso la ricerca di investimenti alternativi che potessero essere in grado di garantire rendimenti che prima erano raggiunti tramite strumenti a reddito fisso. In tale contesto, le azioni erano l’unico investimento alternativo che si presentava allettante agli occhi di un soggetto risparmiatore. Pertanto, era chiaro che questa soluzione anche se rischiosa e complessa, data la necessità di competenze altamente specializzate che sicuramente il singolo risparmiatore non possedeva, indirizzava quest’ultimo nella ricerca di professionalità e preparazione degli tipica  investitori istituzionali. Così, il trasferimento dei risparmi, già destinati a linee di investimento più prudenti, a gestioni più aggressive conferiva ai fondi nuovi flussi di risparmi  in precedenza destinati a investimenti a basso rischio.

Quanto sopra esposto non è la sola causa scatenante l’inversione di tendenza. Infatti, essa può essere individuata anche nell’aumento del risparmio previdenziale dovuto alla grande ritirata dei sistemi pensionistici pubblici degli Stati continentali che erano diventati troppo onerosi. Un riscontro della correlazione tra la crescita degli investitori istituzionali (fondi pensione e assicurazione vita) e il sistema di previdenza è rintracciabile nell’esperienza Britannica.

Un ulteriore spiegazione del fenomeno è dovuta alla massimizzazione del rendimento e alla riduzione del rischio e dei costi, in quanto, prima dell’avvento degli investitori professionali, solo determinate categorie di investitori potevano permettersi di impiegare cospicue risorse economiche volte ad investimenti in valori mobiliari pagando alti costi di diversificazione, mentre le categorie di risparmiatori medio-basse potevano salvare i propri risparmi dall’inflazione soltanto tramite i depositi bancari con relative rendite particolarmente ridotte. Successivamente, si è accentuata la propensione degli investitori sia medio-piccoli che grandi ad abbandonare i propri investimenti per far gestire i rispettivi risparmi da soggetti specializzati.

In tale ambito si inseriscono gli intermediari finanziari che mettendo insieme i risparmi delle famiglie riescono a garantire un maggior trade-off tra rischio e rendimento rispetto all’investimento diretto, dato dalla gestione professionale dei portafogli tramite un’intensa attività di compravendita le cui scelte sono fondate sugli andamenti azionari e sulla  politica di diversificazione degli investimenti. L’adozione di questo modus operandi crea le condizioni affinchè gli investimenti siano soggetti a costi inferiori rispetto a quelli applicati ai singoli.

Una caratteristica importante che è preclusa ai singoli investitori è che gli investitori istituzionali possono effettuare investimenti in attività grandi ed indivisibili beneficiando delle economie di scala, applicando minori costi medi per investitore grazie all’abilità di operare con grandi quantità che consentono di ottenere una sensibile riduzione delle commissioni.

Il ricorso a questi soggetti negli investimenti è una conseguenza sia della scarsa protezione dei piccoli risparmiatori da parte in alcuni ordinamenti sia della difficoltà che questi incontrano nel reperire informazioni e nel controllo delle compagnie in cui investono che sono conseguenze delle scarse conoscenze e della “apatia razionale”. Gli investitori istituzionali, al contrario, avendo la possibilità di ottenere e di esaminare le informazioni che riguardano l’impresa partecipata, sono in grado di esercitare sulle partecipanti pressioni sia grazie all’exit che alla voice. Questa pressione sarà maggiore quanto maggiore è il peso dell’investitore istituzionale.

Un tema di grande importanza nell’ambito degli studi di teoria economica che ha preso piede negli ultimi decenni riguarda la corporate governance.

Per corporate governance si intendono le modalità con le quali gli interessi delle imprese sono diretti e controllati. Questo sistema specifica le relazioni e i modelli di comportamento tra i partecipanti nell’impresa: il consiglio, i manager, gli azionisti, i creditori. Nello stesso tempo sottolinea le regole con cui questi soggetti interagiscono tra di loro per la formazione delle relative strategie di impresa.

Per avere un buon sistema di corporate governance i modelli suddetti devono fornire gli incentivi al consiglio e al management per il raggiungimento degli obiettivi che sono a vantaggio dell’impresa e degli azionisti. Di conseguenza si genera un sistema di diffusione delle informazioni sull’utilizzo più efficiente delle risorse che contribuisce a migliorare le performance dell’impresa.

In questo ambito si collocano due categorie di soggetti: gli insider e gli outsider che con il loro operato e grazie alle relazioni fra essi esistenti influenzano la corporate governance.

Più precisamente gli insider sono formati dalla schiera dei manager, degli azionisti di controllo e gli outsider, invece, dai creditori, dagli investitori e dagli azionisti di minoranza.

La corporate governance ha lo scopo di prevenire i conflitti che possono presentarsi tra queste due categorie di interessi assicurando la trasparenza dell’attività di impresa tramite una corretta informazione. Partendo dal presupposto che la prosperità dell’impresa è strettamente correlata alla correttezza e alla reciproca soddisfazione dei rapporti intrattenuti dall’impresa stessa con tutti i suoi interlocutori, è facile capire che per avere un buon sistema di corporate governance si dovranno prevedere al suo interno regole per conciliare e tutelare tutte le categorie di interessi in gioco garantendogli una adeguata informazione.

Un singolo modello di corporate governance fondamentalmente non esiste in quanto sia il ruolo di ciascun partecipante alla vita di impresa, sia la loro interazione varia notevolmente da paese a paese.

Una netta distinzione può essere fatta prendendo come gruppi rappresentativi le corporate governance, quelle basate sulle banche tedesche e giapponesi e quelle incentrate sul mercato come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.

Più nello specifico, il sistema statunitense è caratterizzato dalla presenza di un mercato dei capitali molto forte, in cui il mercato premia o sanziona i soggetti in base ai loro meriti; pertanto il compito è quello di assicurare che siano verificate le condizioni per cui tutte le forze del mercato siano in grado di svolgere il proprio ruolo senza subire alterazioni di alcun genere.

Facendo la differenza fra i due gruppi possiamo osservare che Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dispongono di un sistema in cui il potere delle istituzioni finanziarie è molto limitato diversamente dalla Germania e dal Giappone in cui, invece, un differente clima politico permette alle istituzioni finanziarie di intervenire con partecipazioni nella struttura del proprio sistema di corporate governance.

Come anticipato, nel sistema tedesco risulta predominante il potere del sistema bancario e di conseguenza la corporate governance sarà caratterizzata dalla presenza di poche, grandi e potenti banche che , proprio grazie alle economie derivanti dalle loro dimensioni, possono assumere un ruolo propulsivo nel favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese.

Per avere un buon modello di corporate governance esso deve essere strutturato in modo tale da garantire una adeguata soddisfazione a tutte le categorie di interessi diversi da quelli proprietari. L’attività di governo può essere descritta come la capacità di conciliare gli obiettivi generali dell’organizzazione con gli obiettivi particolari dei suoi componenti e degli altri interlocutori esterni.

Uno degli obiettivi che i sistemi di corporate governance cerca di raggiungere è rappresentato dall’incremento della protezione dei diritti degli investitori esterni (inclusi azionisti e creditori) raggiungibile tramite l’introduzione di riforme volte  ad uniformare le varie strutture di corporate governance esistenti in tutto il mondo.

A tal proposito si parla di convergenza legale e di convergenza funzionale. La prima si riferisce ai cambiamenti nelle regole e nei meccanismi di applicazione tramite standards di successo per sfociare in una protezione effettiva degli azionisti e dei creditori.

La convergenza funzionale, invece, fa riferimento ai cambiamenti attuati sul mercato che non richiedono riforme legali e che consentono alle imprese e ai diritti dei soggetti coinvolti di essere protetti.

Questo tipo di convergenza riveste un ruolo fondamentale per il miglioramento della protezione degli azionisti e dei creditori. La liberalizzazione dei mercati dei capitali, infatti, in molti paesi ha aumentato non solo il flusso degli investimenti esteri ma è andata ad incidere anche sulla pressione politica ed economica per realizzare strumenti finanziari che possono essere accettati dagli investitori stranieri. Nel giugno 1999, al fine di promuovere un’armonizzazione e il miglioramento dei sistemi di corporate governance mondiali, alcuni paesi aderenti all’OECD (Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica) hanno adottato alcuni principi volti ad aumentare la consapevolezza sui problemi inerenti la corporate governance e la diffusione di informazioni sulle migliori pratiche che vengono adottate nei vari paesi mondiali.

Questi principi sono il risultato di un attento lavoro portato a termine da 29 paesi membri OECD, dalla Commissione Europea, dal settore privato, dalla Banca Mondiale e da altre organizzazioni internazionali e rappresentano una base comune che i paesi membri OECD ritengono fondamentali per lo sviluppo di un buon sistema di corporate governance. Fondamentalmente questi principi devono soddisfare i seguenti requisiti: essere concisi, comprensibili e facilmente accessibili alla comunità internazionale. Di conseguenza essi serviranno come punto di riferimento e saranno in continua evoluzione. Questo però non significa che i principi dettati dall’OECD debbano essere obbligatoriamente sinonimo di uniformità delle norme e delle regole tra i diversi paesi aderenti. Infatti, è compito dei governi nazionali decidere come e quando applicarli alle singole realtà locali e come sviluppare i propri modelli di governo societario.

I principi scritti dai paesi OECD, che ha identificato alcuni elementi comuni che descrivono un buon sistema di corporate governance, coprono cinque aree:

  • I diritti degli azionisti: questi diritti non riguardano tanto gli azionisti stessi ma piuttosto la possibilità per questi ultimi di ottenere diritti di voto e di protestare contro il comportamento degli insider.
  • Il trattamento degli azionisti: si tratta di assicurare un uguale trattamento di tutti gli azionisti inclusi quelli di minoranza e gli investitori esterni.
  • Il ruolo dei detentori di particolari interessi: si tratta di riconoscere i diritti di questi soggetti come stabiliti dalla legge e di incoraggiare una loro partecipazione attiva con l’impresa stessa. Questa categoria comprende impiegati, fornitori, creditori e tutti gli individui non azionisti e gruppi con un interesse in alcuni aspetti della performance dell’impresa.
  • Rivelazione e trasparenza: la corporate governance dovrebbe fornire un elevato livello di informazioni riguardo l’impresa soprattutto sulla situazione finanziaria, sulla struttura della proprietà, i diritti di voto, gli obiettivi e le politiche da perseguire, i membri del consiglio. L’abilità di una impresa di attrarre grandi quantità di capitali è basata sulla qualità delle informazioni rivelate poiché da esse dipendono le decisioni di investimento degli investitori.
  • Responsabilità del consiglio: la struttura di corporate governance dovrebbe assicurare una guida strategica dell’impresa, un monitoraggio del management da parte del consiglio e garantire un adeguato ritorno degli investimenti agli azionisti prevenendo eventuali conflitti di interessi che si possono generare all’interno dell’impresa stessa.

Il compito fondamentale che permette di assicurare un buon sistema di corporate governance è quello che riguarda la protezione degli azionisti specialmente degli investitori che mantengono un minore interesse nell’impresa fornendo a tutti le stesse opportunità di ottenere una effettiva riparazione per la violazione dei propri diritti.

In questo senso va sottolineato che i diritti da proteggere comprendono:

  • il diritto di trasferire azioni
  • il diritto di ottenere informazioni rilevanti sull’impresa
  • il diritto di partecipare e votare nelle riunioni degli azionisti e di eleggere i membri del consiglio
  • il diritto di citare in giudizio i membri del consiglio
  • il diritto di partecipare alla divisione dei profitti dell’impresa

Uno degli strumenti a disposizione degli azionisti di minoranza e dei creditori diretti a tutelare i propri diritti è costituito dalla possibilità di avviare procedure legali e amministrative contro i manager e i membri del consiglio.

Per corporate governance si intende infatti anche l’insieme dei meccanismi attraverso cui gli outsider proteggono loro stessi contro l’espropriazione da parte degli insider.

Il compito principale della corporate governance consiste nel migliorare le prestazioni dell’impresa attraverso un’opera di supervisione del management e di continuo monitoraggio dei risultati ottenuti e, allo stesso tempo, sensibilizzare l’intera struttura aziendale sulla necessità di rendere conto del proprio comportamento agli azionisti, al mercato e a tutti i portatori di particolari interessi nella vita dell’impresa. D’altra parte vi è la consapevolezza che il miglioramento delle strutture e dei meccanismi su cui si fonda il sistema di governo d’impresa concorra a rendere il processo decisionale più efficiente e a favorire la prosperità dell’impresa stessa.

Un buon sistema di corporate governance, tuttavia, non si limita a mettere in atto una forte protezione contro l’espropriazione o contro l’impiego inefficiente dei fondi aziendali, la sua efficacia è valutabile in base alla propensione mostrata nel motivare e nello spingere l’attività di direzione d’impresa verso l’incremento della ricchezza aziendale e la formazione di un modello di trasparenza nel quale sia possibile il controllo della condotta della leadership d’impresa.

Tramite la corporate governance il controllo dei manager è monitorato e mantenuto per l’accrescimento dei profitti e il guadagno degli azionisti tale da concedere la dovuta libertà ai manager e assicurarsi che essi utilizzino questa libertà negli interessi degli azionisti.

In questo tipo di sistema, il manager dovrebbe comprendere le aspettative degli azionisti e questi ultimi dovrebbero possedere sufficienti informazioni per valutare se siano state rispettate le loro aspettative e in caso contrario dovrebbero avere il potere di agire in modo risoluto contro i manager.

Per potere svolgere la loro indispensabile funzione di controllo nell’impresa, i manager quindi richiedono ampia libertà in quanto sono loro che guidano l’impresa in un ambiente profondamente competitivo. Il controllo dei manager, comunque, deve essere soggetto ad alcune restrizioni, le loro azioni e i loro comportamenti devono essere volti a garantire a un’equa distribuzione di profitti e guadagni all’interno dell’impresa.

Solitamente uno degli obiettivi primari dei manager (o di chi esercita il controllo) è la crescita dell’impresa, ma l’attività di raccolta di capitale per lo sviluppo di nuovi progetti porta con sè il pericolo che gli insider utilizzino le risorse acquisite dagli investimenti per i loro vantaggi ottenendo alti benefici senza però massimizzare il valore dell’impresa. Questo comportamento tende a produrre inefficienze nella forma di un razionamento di fondi. A fronte di ciò, preoccupati che i loro diritti sui flussi di cassa siano espropriati da manager e azionisti di controllo, gli investitori, infatti, limiteranno la disponibilità di risorse alla compagnia e determineranno una diminuzione del livello di investimenti iniziale.

Affinché gli azionisti e gli investitori continuino a finanziare una impresa è indispensabile che i loro diritti siano protetti in caso contrario gli insider potrebbero ripagare i creditori o ridistribuire i profitti agli azionisti sotto forma di dividendi.

Le differenze nel grado di protezione dei diritti degli azionisti, infatti,  sono anche associate a differenti politiche riguardanti i dividendi.

Nel presente elaborato, mediante l’indagine delle diverse categorie di investitori istituzionali e la loro valutazione sotto un profilo e un modo di operare omogeneo, proverò a fornire una visione complessiva delle problematiche afferenti alla concreta possibilità per questi soggetti di avvalersi degli “strumenti” accordati dal legislatore, volti a garantire il concreto svolgimento di un ruolo all’interno della corporate governance.

CAPITOLO 1

Sezione 1

Gli investitori istituzionali

1. Evoluzione del mercato finanziario e nuove norme in materia di corporate governance.

La discussione in corso in Italia sul problema della tutela del risparmio e sullo sviluppo del settore finanziario è purtroppo caratterizzata da molta confusione. Nei media vengono spesso presentate argomentazioni demagogiche, scorrette dal punto di vista tecnico e perfino bizzarre. E ciò non contribuisce a restituire fiducia agli investitori. Il paese sembra trovarsi in una sorta di stato di psicosi, che mette in difficoltà il mercato e produce decisioni prese su basi emotive[1].

Il paese, prima di proporre riforme, ha bisogno di fare chiarezza sulle responsabilità di questa crisi di fiducia e sui veri elementi negativi del sistema. La confusione e l’attribuzione sbagliata di responsabilità contribuiscono a perpetuare la carenza generale di cultura d’investimento degli italiani. Già il fatto che in Italia si usi il termine “risparmiatori” invece di “investitori” è carico di significati[2]. La probabilità di ricevere solo una parte del capitale investito o delle cedole promesse fa parte dei rischi che chiunque faccia un credito deve assumersi, siano essi banche o obbligazionisti[3].

Una parte della responsabilità è ascrivibile ai media, che mostrano spesso un livello notevole di incompetenza finanziaria. È stato spesso riportato come fatto negativo che in Gran Bretagna ci sia stata la metà dei default di tutta Europa. Si tratta di un dato del tutto irrilevante. Una delle ragioni di fondo di un maggior tasso di default nei paesi anglosassoni sta nel fatto che in questi paesi ci sono meno salvataggi. Si nota anche osservando gli spread medi pagati in Europa negli ultimi 3-4 anni, i quali, a parità di rating, sono generalmente più bassi che negli USA. Il problema è quando il default origina da comportamenti fraudolenti e provoca danni agli investitori[4] o quando un titolo è venduto come “sicuro”, magari con cedole ben inferiori a quelle che un investitore specializzato chiederebbe. In questo caso si è di fronte a comportamenti dannosi, da prevenire e reprimere: i bond Cirio, per esempio, venduti quasi tutti al retail con cedole del 50% più basse di quelle che si sarebbero dovute pagare con un’emissione “seria” fatta sul mercato istituzionale[5]. È giusto che in un’economia di mercato i default ci siano, non solo per ragioni supportate dalle teorie schumpeteriane, ma, più semplicemente, al fine di evitare situazioni di moral hazard[6]. I rischi di eccessivo indebitamento e di analisi inappropriate del merito creditizio sono evidenti nel sistema bancario italiano, il quale continua a soffrire di sottocapitalizzazione, medaglia la cui altra faccia sono gli spread molto più bassi pagati dalle banche per il cost of funding a parità di rating. Anche il fatto che i rating siano poco diffusi è un altro sintomo di questa malattia. È chiaro che con la globalizzazione il meccanismo non si regge[7].

La disintermediazione del sistema bancario che si è verificata in Europa negli ultimi anni è salutare, avendo permesso lo sviluppo di un mercato obbligazionario, che rende il sistema finanziario più sano. Esso consente di avere fonti di finanziamento ulteriori rispetto al sistema bancario, impone disciplina di pricing e di risk management alle banche, alleggerisce la loro esposizione distribuendo e parcellizzando maggiormente il rischio di credito, riduce la probabilità o l’intensità di crisi sistemiche[8]. Vale ricordare che Greenspan, all’indomani della crisi asiatica del 1997, disse che sarebbe stata molto meno dura se i paesi coinvolti avessero avuto un moderno mercato obbligazionario. I rubinetti delle banche si chiudono prima di quelli del mercato obbligazionario, che più è sofisticato, più può fornire liquidità. Certo, i rendimenti richiesti dal mercato crescono, ma anche la liquidità generale. In America esiste anche un mercato di defaulted bond, di dimensioni pari a circa 600 miliardi di dollari.

C’è un atteggiamento costante, che forse è di tipo culturale, che riguarda gli italiani: il management by emergency e quindi una forte difficoltà di programmazione. Le priorità sono dettate dalle emergenze. E questo non vale solo per la politica. Il caso Cirio ci aveva dato degli importanti segnali, ma, evidentemente, in quel momento vi erano altre emergenze e non si è intervenuti, lasciando, ancora una volta, il lavoro alla magistratura, la quale non può supplire a una mancanza di riforme[9].

È finalmente chiaro a tutti che il problema del risparmio, della finanza e del credito ha una rilevanza sistemica che ha bisogno di interventi i quali, oltre al riordino delle authority e ad alcuni miglioramenti della tutela del risparmio, riguardano anche la legge fallimentare, la corporate governance, la concorrenza nel sistema creditizio, la cultura tecnica e d’impresa degli operatori e degli investitori, la cultura d’impresa tout court, lo sviluppo degli investitori istituzionali. Si capisce che è in gioco il futuro economico e industriale dell’Italia, il cui capitalismo familiare, sorretto da un sistema finanziario arretrato, non regge alle sfide della globalizzazione. Mercati finanziari sani allocano il capitale, attraggono investitori, creano lavoro e stimolano la crescita. Cose in apparenza scontate, ma solo da poco diventate oggetto di attenzione primaria della classe dirigente. D’altra parte, il problema del declino industriale dell’Italia è stato posto con fermezza dall’opposizione[10].

Negli USA c’è una certa attenzione agli sviluppi del caso Parmalat[11] e in particolare alla risposta della classe dirigente italiana. In questa faccenda l’Italia si gioca il grosso del suo prestigio. L’Italia è un paese che purtroppo fa poca notizia a causa il suo scarso peso politico. Ma in certi ambienti si capisce l’importanza del suo peso economico. Per ora prevale un atteggiamento di wait and see. Ma il rischio di dover pagare spread più elevati per il funding a causa della situazione-paese è molto concreto, anche se non drammatico. I titoli italiani fanno più fatica a essere distribuiti all’estero. Ormai anche giornali come il “Wall Street Journal”, finora moderatamente benevoli nei confronti del primo ministro, a cui era stato dato un anticipo di credibilità per la sua (presunta) volontà riformatrice liberista, tendono a criticare il gap ormai enorme fra le riforme annunciate e quelle attuate.

La classe dirigente ha l’occasione storica di trasformare una situazione di grave disagio in un momento di avvio di riforme incisive, alcune impopolari, che modernizzino il paese e rendano la sua economia più efficiente e più giusta: più meritocratica e con maggiori opportunità per tutti. Per farlo deve evitare di avere una visione inward looking e talvolta provinciale, con ondeggiamenti di esterofilia velleitaria o poco critica.

Il 23 dicembre 2005 è stata approvata la legge n. 262/2005, recante “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”. Tale legge, entrata in vigore il 12 gennaio 2006, ha introdotto, tra l’altro, nuove norme in materia di corporate governance[12].

Alcune delle novità legislative, quali ad esempio il voto di lista, la quota percentuale di possesso del capitale necessaria per la presentazione delle liste stesse, i requisiti di onorabilità ed indipendenza richiesti per sindaci ed amministratori, risultano già in compliance con l’attuale sistema di corporate governance adottato dalle società. Altre disposizioni contenute nella Legge richiedono invece adeguamenti statutari. Taluni di questi adeguamenti sono necessariamente subordinati all’emanazione da parte delle competenti autorità dei previsti provvedimenti attuativi mentre altri trovano immediata applicazione. Tra questi, la disposizione relativa alla nomina del Presidente del Collegio sindacale che la legge 262/2005 riserva alla lista di minoranza, a differenza di quanto previsto in precedenza che lo attribuiva, viceversa, al capolista della lista di maggioranza[13].

2. Il processo di privatizzazione

Il tipo di influenza che il processo di privatizzazione esercita sulla corporate governance dipende non solo dalla positività delle norme, ma anche dalla interpretazio­ne che se ne dà e dai fini perseguiti dalla sfera politica in senso lato, che nei processi di privatizzazione dei diversi paesi assume necessariamente un ruolo rilevante. In al­tri termini, è strettamente legato agli obiettivi che la privatizzazione si propone[14].

Dal punto di vista ideologico le privatizzazioni derivano dalla grande evo­luzione sociale e politica che a livello mondiale ha registrato la sconfitta storica delle economie di comando o pianificate. La competizione fra i sistemi di mercato e quelli centralizzati ha visto i secondi soccombenti soprattutto a partire dagli anni settanta, cioè da quando i sistemi di mercato hanno iniziato a fondare sempre più consistentemente il proprio sviluppo sull’innovazione[15].

Ebbene, è proprio negli anni settanta, in concomitanza con l’intensificarsi dell’innovazione nelle strategie competitive delle imprese, che si creano le condizioni per l’accettazione della supply side economics, una concezione di politica economica che punta a favorire al massimo la messa in opera di capacità produttive efficienti. È una concezione centrata sulla figura dell’imprendi­tore che individua opportunità e le realizza in modo più efficiente e prima dei con­correnti, in una gara in cui unico arbitro è il mercato.

La cre­scente interdipendenza delle economie sviluppate favorisce il diffondersi di tali im­postazioni, che finiscono per divenire cogenti per i singoli paesi.

Il fenomeno delle privatizzazioni diventa dunque una vera ondata che si estende anche a paesi come la Francia, dove una cultura secolare aveva abituato alla gestione pubblica di importanti branche dell’economia, sviluppando competenze eccellenti; o come alcuni paesi ex-comunisti dell’Europa Orientale, che al contrario vi giungevano del tutto impreparati sia dal punto di vista politico che da quello delle competenze degli operatori.

Le finalità che per semplicità si sono definite di tipo ideologico sottese alle pri­vatizzazioni assegnano dunque al processo il compito di far uscire lo Stato dalla pro­prietà del sistema produttivo e di sostituirlo con i privati, al contempo ricavandone ri­sorse utili a risanare le pubbliche finanze.

In Italia è invece il 1992 la data di effettivo inizio delle privatizzazioni

Ed invero, la gestione industriale delle imprese fu lasciata nelle mani dei rispettivi manager che vennero così responsabilizzati completamente anche nei con­fronti del mercato. È così che il processo di privatizzazione ha contribuito sostanzialmente allo sviluppo delle strutture del mercato finanziario. Sono stati posti sul mercato buoni titoli, atti­rando nuovi investitori; sono state innovate le regole aumentando la tutela degli azio­nisti non di controllo; gli stessi processi di collocamento sono stati gestiti in modo da favorire la crescita delle competenze professionali degli operatori finanziari italiani.

Le privatizzazioni orientate all’obiettivo puro e semplice di fare uscire lo Stato dalla gestione delle imprese incidono sulla corporate governance soprattutto quando lo Stato stesso, al momento di uscire, vuole in qualche modo predeterminare l’assetto proprietario che le imprese stesse dovranno assumere dopo la privatizzazione.

Le motivazioni funzionali alle privatizzazioni discendono dalla convinzione che le attività economiche svolte dalle imprese di proprietà pubblica esprimano di re­gola livelli di efficienza inferiori rispetto a quelli registrati dalle imprese sottoposte alla disciplina del mercato. L’assunto si basa,  sulla impossibilità logica di otte­nere nel lungo termine risultati migliori di quelli assicurati da un mercato corretta­mente funzionante. Questo è in grado di valutare capillarmente ogni singola iniziati­va e si suppone capace di indirizzare risorse e conoscenze laddove esse rendono maggiormente, la molteplicità degli operatori supplendo a qualunque loro carenza in­dividuale, attraverso la crescita dei più efficienti e l’eliminazione degli inefficienti.

3. Il principio di separatezza tra banca e industria

I rapporti tra banche e imprese industriali sono stati oggetto in Italia di regolamentazione fin dagli anni Trenta, a causa del ruolo rilevante che gli intrecci partecipativi fra le stesse ebbero nella crisi economica di quegli anni. Da allora il principio di “separatezza” fra banca e industria trova attuazione sia per gli assetti proprietari delle banche, sia per le partecipazioni delle banche[16].

Tuttavia, le nuove opportunità di riasseto per il nostro sistema imprenditoriale, stanno per comportare la caduta degli interventi dell’epoca. Si parla di un applicazione del principio “a monte” e “a valle”. Sotto il primo profilo, la separazione fra banca e industria consiste nel divieto imposto a imprese non finanziarie di acquisire una partecipazione superiore al 15% del capitale, ovvero il controllo, di una banca. La separazione “a valle” è assicurata da disposizioni di vigilanza della Banca d’Italia, che pongono limiti alle banche per l’acquisizione di partecipazioni in imprese non finanziarie.

La riduzione, o la totale rimozione dei limiti di partecipazione delle banche rapportati al capitale dell’impresa sarebbe ora imminente[17]. Rimarrebbero i limiti prudenziali per questo tipo di partecipazioni che sono stabiliti con riferimento al patrimonio della banca. Per quanto riguarda la separazione “a monte” delle banche, deve essere recepita entro la fine del 2009 la direttiva dell’Unione Europea[18] contenente le regole procedurali per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario. La normativa, la cui ratio sarebbe quella di evitare  discriminazioni nelle operazioni di acquisizione di banche all’interno del mercato unico, prevede un elenco chiuso di criteri che le autorità nazionali possono considerare per valutare l’idoneità dell’acquirente. Questi criteri riguardano la reputazione, l’esperienza professionale e la solidità finanziaria dell’acquirente, nonché la provenienza lecita dei capitali necessari per l’acquisto, ma anche la non la “finanziarietà” dello stesso. I cambiamenti normativi prospettati renderanno il nostro ordinamento più simile a quello dei principali paesi europei, ma bisogna cercare di comprendere le conseguenze, in particolare i possibili rischi, per il nostro sistema finanziario, della fine totale della separatezza tra banca e impresa. L’attenuazione dei limiti all’acquisto di partecipazioni industriali da parte delle banche implica che anche i nostri intermediari potranno adottare il modello di “banca mista”, tradizionalmente presente in Germania[19]. Il processo di privatizzazione e la successiva, turbinosa ondata di fusioni e acquisizioni spiegano ancora i loro effetti sulla peculiare struttura proprietaria delle banche italiane . Iniziato con la creazione delle fondazioni bancarie istituite appositamente per permettere, in assenza di grandi investitori istituzionali, il trasferimento delle quote di proprietà in mano pubblica a soggetti non direttamente controllati dallo Stato, questo processo ha comportato una riduzione del peso di queste istituzioni e un aumento del peso delle banche europee e delle imprese non finanziarie tra gli azionisti di controllo delle principali banche italiane. La crescita della quota di capitale delle banche italiane in mano a imprese non finanziarie, pertanto, è in gran parte riconducibile alle dismissioni operate dalle fondazioni che, pur avendo svolto durante le privatizzazioni un importante compito di supplenza, si sono poi rivelate inadeguate, per loro natura, ad esercitare un ruolo attivo di azionisti di controllo delle banche italiane. Il coinvolgimento delle imprese non finanziarie nel capitale delle banche, porta con sé il drammatico pericolo di una non corretta valutazione del merito creditizio e dei conflitti d’interesse.

Il sentimento quasi comune, che muove questi soggetti verso l’acquisizione di una quota rilevante del capitale di un gruppo bancario, è mosso dalla possibilità di garantirsi un accesso privilegiato alle fonti di finanziamento e ai servizi finanziari offerti dalla banca stessa, da qui l’evidenza di effetti distortivi nell’allocazione del credito conduce alla logica conclusione di una necessaria corretta individuazione di parametri normativi che garantiscano l’efficienza del sistema. Non deve, inoltre, essere trascurato il fatto che l’aumento del peso di imprese industriali negli assetti proprietari delle banche possa accrescere i conflitti di interesse nell’attività di intermediazione mobiliare svolta da queste ultime. L’intervento delle modifiche accennate potrebbe costituire un banco di prova dell’efficacia delle nuove regole sancite in attuazione della direttiva Mifid. Appare importante un’azione di monitoraggio del rispetto delle nuove regole di comportamento da parte delle autorità di vigilanza per evitare che si possano ripetere casi come quelli accaduti nelle crisi dei gruppi Cirio e Parmalat che hanno minato la fiducia dei risparmiatori nell’integrità del mercato finanziario[20].

 Il principio di “separatezza” tra banca e industria costituisce anche un presupposto per il corretto svolgimento delle funzioni degli investitori istituzionali. L’intermediario, ad esclusione delle società di investimento a capitale variabile, è tenuto alla separazione patrimoniale. Il Tuif sancisce, infatti, che, nell’ipotesi di prestazione dei ser­vizi di investimento, tra cui si comprende la gestione indivi­duale di portafogli di investimento[21], gli strumenti finan­ziari e le somme di denaro dei singoli clienti costituiscono patrimonio distinto dal patrimonio dell’intermediario stesso e da quello degli altri clienti (art. 22, comma 1, Tuif)[22]; nell’ipotesi di gestione collettiva, ciascun fondo comune di inve­stimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo distinto dal patrimonio della società di gestione del risparmio, da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima so­cietà (art. 36, comma 6, Tuif)[23]. Ciò comporta che i creditori dell’intermediario non possono aggredire il patri­monio separato, mentre i creditori dei singoli clienti possono agire nei limiti, del patrimonio di proprietà di questi, o nei li­miti delle quote di partecipazione se si tratta di fondi[24].

La separazione patrimoniale è un vincolo obbligatorio imposto al gestore, che condiziona sia la struttura, sia il com­portamento dello stesso[25]. Sotto il primo profilo, nella ge­stione individuale, si tratta di distinguere contabilmente le operazioni finanziare che fanno capo ai singoli clienti da quelle che riguardano il patrimonio dell’intermediario, la se­parazione riguarda taluni rapporti giuridici di cui un sog­getto risulta titolare dagli altri rapporti facenti capo allo stesso soggetto o facenti capo all’intermediario[26]; nelle gestioni collettive la distinzione del patrimonio del fondo si ot­tiene, invece, attraverso l’affidamento dello stesso ad una banca depositaria, soggetto terzo rispetto alla società di ge­stione e ai partecipanti al fondo. La ripartizione delle compe­tenze tra banca depositaria, società che promuove e società che gestisce, nonché le rispettive responsabilità nei confronti dei partecipanti, garantisce sicurezza nelle operazioni[27].

Sotto il secondo profilo sono imposti specifici doveri di trasparenza e di informazione che consistono non solo nel mettere a conoscenza il cliente o il partecipante al fondo della natura e dei rischi delle operazioni nel momento della conclu­sione del contratto di gestione, ma anche nell’informarlo pe­riodicamente attraverso rendiconti, relazioni e nel consentirgli l’accesso ai documenti che attestano i risultati[28].

4. Gli investitori istituzionali negli assetti proprietari della società. I motivi di un lento  

 Le radici del lento sviluppo degli investitori istituzionali affondano nel terreno della realtà storico-istituzionale del nostro Paese.

In passato le famiglie venivano spinte a investire in titoli di Stato, offrendo tassi di interesse reali molto alti, allo scopo di finanziare l’immenso debito pubblico. Tale forma di investimento non richiedendo specifiche conoscenze e non essendo altamente rischiosa, evitava il necessario ricorso a investitori specializzati. Un po’ per tale motivo, un po’ per il ritardo cronico che caratterizza il nostro legislatore, l’intervento normativo nel settore degli investitori istituzionali, è avvenuto in tempi relativamente recenti. Basti pensare che, esclusi i fondi comuni di aperti disciplinati nel 1983, gli altri investitori furono regolamentati non prima degli anni ’90[29]. Solo con l’emanazione del Testo Unico Finanziario nel 1998 furono istituite le società di gestione del risparmio. Un’altra componente fondamentale nelle cause del ritardo è il divieto che fu posto alle banche, fino all’entrata in vigore del Testo Unico bancario, di assumere la veste di investitore nel capitale di rischio delle imprese non finanziarie.

A questo quadro si sono aggiunti altri fattori negativi che hanno inciso sull’aggravamento del contesto. Gli svantaggi fiscali, tra cui la tassazione del risparmio gestito sul maturato, svantaggiando gli investitori nostrani rispetto a quelli esteri. La ferraginosità dell’assetto di vigilanza che comporta costose sovrapposizioni di competenze. Le ridotte dimensioni del mercato azionario, cioè la scarsa articolazione del mercato dei capitali, il basso numero di imprese quotate e, soprattutto, la loro propensione più all’indebitamento che alla raccolta di finanziamenti attraverso il mercato. Per  queste ragioni gli investitori istituzionali italiani sono da sempre propensi a collocare presso la propria clientela quote di fondi comuni insediati in altri paesi europei[30] . L’ incremento dell’offerta di capitale di rischio con l’avvento delle privatizzazioni contribuì a spostare l’interesse dei risparmiatori dai titoli di Stato ai titoli azionari[31]. Ecco i motivi per i quali solo dagli anni ’90 e soprattutto con l’espandersi della globalizzazione, gli investitori istituzionali hanno goduto di maggior peso.

Ogni intermediario per poter operare nel mercato è tenuto a rispettare una procedura organizzativa e una comportamentale. I due piani non sono completamente separati poiché, se talvolta la legge prescrive esplicitamente un comporta­mento, considerandolo in una disposizione specifica, tal altra, invece, sono le norme sulla organizzazione che condizionano e, dunque, impongono una certa condotta agli investitori isti­tuzionali.

Appare allora evidente come il fine specifico cui è rivolta la gestione del risparmio, ossia la realizzazione di un “pro­gramma di investimento” nell’interesse di un terzo[32], as­suma rilievo anche per l’ordinamento. Il legislatore, infatti, con norme particolari delinea l’organizzazione degli interme­diari, nel momento in cui investono risparmio altrui, le re­gole alle quali gli stessi debbono attenersi nell’esercizio dell’attività di gestione del risparmio e condiziona il loro com­portamento a quel fine.

Ciascun gestore agisce, nell’osservanza dei criteri di com­portamento, in modo diverso secondo il tipo di gestione, de­gli obiettivi prefissati, degli strumenti finanziari gestiti. Si può indagare, allora, se nonostante tale diversità determinata dalla differenza di tipologia di gestori e dalla diversità di ge­stioni offerte, esista un metodo[33] comune che valga a definire e ad identificare il comportamento[34] degli investitori istituzionali. Si tratta, cioè, di valutare se le molteplici condotte, ognuna delle quali nata per soddisfare un diverso interesse e conseguire un diverso risultato in momenti e si­tuazioni differenti, possano essere ricondotte ad unità. E, quindi, se sia individuabile una “maniera generale di ope­rare”[35], uno schema astratto nel quale riportare il modo di operare degli investitori istituzionali[36].

Sussistono dei fattori essenziali che consentono di defi­nire, in generale, il concetto di comportamento. In par­ticolare, si ritiene che la nozione di comportamento si fondi sulla contemporanea presenza di più elementi che interagi­scono tra loro. Qualsiasi atteggiamento di un soggetto che agisce di propria iniziativa, producendo un effetto sulla realtà esterna, è inquadrabile nella ampia categoria di compor­tamento. Si tratta di aspetti che definiscono la struttura del comportamento, ma che, tuttavia, non sono sufficienti nel momento in cui si deve anche identificarlo e distinguerlo da ogni altro atteggiamento. In tale ipotesi è necessario un criterio ulteriore di identificazione che si preoccupi di consi­derare la funzione della specifica condotta, piuttosto che la sua struttura. Si è sostenuto che “ciò che permette di identificare una iniziativa comportamentistica è il risultato al quale è diretta, l’orientamento, che indirizza il comporta­mento e gli dà un senso”[37].

Sotto questo profilo, perciò, non rileva se la gestione sia offerta al pubblico o a determinate categorie di investitori, non rileva se sia effettuata in nome e per conto del cliente oppure in nome proprio, non rileva neppure se al gestore sia lasciata piena disponibilità nelle scelte di investimento o se, invece, il cliente abbia la facoltà di indicare specifici settori di investimento e, in altri casi, di impartire istruzioni vinco­lanti. Quali che siano le modalità operative di gestione, ciò che attribuisce significato all’iniziativa del gestore è il risul­tato verso cui questa iniziativa è diretta, quello di investire il patrimonio affidatogli nell’interesse del cliente alla valorizza­zione di quel che ha investito. Il minimo comune denomina­tore risulta perciò essere la destinazione del patrimonio ge­stito ad uno scopo[38], ossia la destinazione all’investi­mento al fine di valorizzare quell’investimento.

Tale destinazione ad uno scopo particolare, a cui è assog­gettato un insieme di beni, e il risultato che con tale destina­zione si vuole raggiungere, condiziona il rapporto tra sog­getto e azione[39] e orienta, quindi, il comportamento del gestore. L’investire per conto di colui che quel patrimonio contribuisce a creare, specifica ulteriormente la direzione verso cui il comportamento è indirizzato[40].

5. Dal risparmio bancario alla tutela del risparmio gestito

Ciò che caratterizza un contratto di gestione del risparmio è il compimento di va­rie operazioni finanziarie[41] che un soggetto effettua per conto di terzi. L’interesse economico che con il contratto tra gestore e risparmiatore si intende soddisfare è la gestione di una somma di denaro altrui dietro corrispettivo. Con l’affida­mento di tale somma un soggetto incarica l’altro di ammini­strarla (investendo, ma anche disinvestendo), in modo da ot­tenere il miglior rendimento possibile. La gestione è diretta verso un risultato, che è quello di accrescere il valore dell’in­vestimento.

La finalità che la gestione di patrimoni si propone è di impiegare produttivamente il capitale accumulato e, attraverso la valorizzazione degli investimenti effettuati, ottenere un incremento delle risorse per i risparmiatori. Al consegui­mento di tale fine sono disposte quelle regole che, discipli­nando lo svolgimento dei servizi, l’esercizio dell’attività di ge­stione e il rapporto tra incaricato e committente, impongono agli operatori, direttamente o indirettamente, di agire se­condo modalità ben delineate.

Sebbene le disposizioni riguardino tutte le attività svolte dagli investitori e, quindi, in generale, la prestazione dei ser­vizi di investimento e accessori e il servizio di gestione collet­tiva del risparmio, in questa sede si intende circoscrivere l’in­dagine alla gestione del risparmio, comprendendo accanto alla gestione collettiva solo il servizio di gestione di portafogli su base individuale.

La disciplina specifica dei servizi di investimento (della gestione di portafogli e della gestione collettiva) si sviluppa sia sul piano normativo sia sul piano regolamentare e prende le mosse dalle disposizioni generali che il Testo unico dell’in­termediazione finanziaria stabilisce per i soggetti abilitati all’esercizio di tali servizi. In particolare, è attraverso lo stru­mento della vigilanza che si mira ad affidare alle autorità preposte, precipuamente la Banca d’Italia e la Consob, il controllo del rispetto, da parte degli intermediari, dei criteri dalle stesse stabiliti per garantire la trasparenza, la corret­tezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori, alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del mercato finanziario (art. 5, comma 4)[42]. In tale prospettiva, la Banca d’Italia è competente a garantire il contenimento del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione degli intermediari (art. 5, comma 2, Tuif) e, vigila, dunque, sui profili strutturali e organizzativi dell’intermediario[43]. Mentre per la realizzazione degli obiettivi di cui al comma 1 dell’art. 5, ovvero “a) la salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; b) la tutela degli investitori; c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario; d) la competitività del sistema finanziario; e) l’osservanza delle disposizioni in materia finanziaria”,  la Consob[44] provvede a salvaguardare la trasparenza e la correttezza dei comportamenti (art. 5, comma 3, Tuif)[45].

Nella sua funzione di vigilanza regolamentare, la Banca d’Italia, secondo quanto disposto dall’art. 6, Tuif, ha emanato, dapprima il Provvedimento 1 luglio 1998 e il Provvedimento 20 settembre 1999, che riguardano le società di gestione del risparmio e le società di investi­mento a capitale variabile e, successivamente, il Provvedi­mento del 14 aprile 2005 col quale è intervenuta a regolamentare la gestione collettiva del risparmio. Quest’ultimo è stato a sua volta modificato con successivi provvedimenti Banca d’Italia del 21 giugno 2007 e del 27 febbraio 2008 e con provvedimenti Banca d’Italia/Consob del 29 ottobre 2007.

L’importanza che riveste il profilo dell’organizzazione dell’intermediario ai fini dello svolgimento del servizio rileva non solo per la possibilità attribuita alle società di gestione del risparmio di svolgere sia gestioni collettive sia gestioni individuali (art. 33 Tuif), ma anche per la circostanza, cui so­pra si accennava, per cui le società di gestione del risparmio, che svolgono servizi di gestione collettiva, possono scindere 1’attività di promozione, istituzione e organizzazione dei fondi comuni da quella di gestione (art. 36, comma 1, Tuif). È inoltre prevista, sia per le società che svolgono funzioni di gestione dei fondi, sia per quelle che svolgono gestioni indi­viduali, la possibilità di delegare l’incarico di investimento (art. 33, comma 3, e art 24, comma 1, lett. l, Tuif)[46].

L’ampliamento dei servizi offerti e dei modi del loro svolgimento operato dal Tuif ha determinato, dà un lato, l’e­sigenza di fissare taluni criteri organizzativi atti a garantire una sana e prudente gestione e, dall’ altro, la necessità, per certi aspetti dell’organizzazione, di una maggiore elasticità.

Riguardo al primo profilo, è solo in presenza di determi­nate condizioni che l’esercizio del servizio di gestione collet­tiva del risparmio e del servizio di gestione su base indivi­duale di portafogli di investimento, da parte di una società di gestione del risparmio, può essere autorizzata dalla Banca d’Italia, così come può essere autorizzata la costituzione di una società di investimento a capitale variabile[47]. Per garantire l’adeguatezza patrimoniale minima e il contenimento del rischio, ossia che ciascun intermediario abbia un patri­monio tale da consentirgli di affrontare i rischi nascenti dall’esercizio delle sue attività, la Banca d’Italia fissa l’ am­montare patrimoniale delle società di gestione del risparmio, i requisiti patrimoniali per la gestione dei fondi, che devono essere determinati in funzione del tipo e delle dimensioni del fondo che la società gestisce, e il patrimonio di vigilanza[48]. Nel provvedimento, inoltre, si definisce la disciplina relativa alla partecipazione al capitale delle società di gestione del ri­sparmio e delle sicav, avendo riguardo in particolare agli ob­blighi di comunicazione cui sono tenuti quei soggetti che, ac­quisendo o intendendo acquisire partecipazioni nelle società, superano le percentuali stabilite. A tali obblighi informativi risulta sottoposto anche chi intende cedere una partecipa­zione sociale[49].

Nella seconda prospettiva, di rendere più agevole ed effi­ciente lo svolgimento delle funzioni, è attribuita agli interme­diari, nel quadro delle possibilità offerte dal Tuif, la facoltà di disegnare schemi operativi che si adattino alle specifiche esigenze. Il provvedimento della Banca d’Italia determina, a tal fine, solo criteri di carattere generale. A questi debbono attenersi gli intermediari nel delineare la loro struttura orga­nizzativa e nel regolare i rapporti reciproci, nell’ipotesi che l’attività di promozione e di gestione siano svolte in modo separato, i rapporti tra società di gestione del risparmio e banca depositaria, i rapporti tra società di gestione del ri­sparmio e intermediario cui è stata conferita la delega e quelli tra società di gestione del risparmio e soggetti incaricati del collocamento delle quote. Inoltre, lo stesso provvedi­mento contiene le disposizioni che riguardano l’assetto orga­nizzativo interno[50] e, dunque, la struttura delle deleghe in­terne agli organi amministrativi, i sistemi informativi, in modo da consentire alle componenti aziendali la possibilità di assumere decisioni tempestive e idonee al raggiungimento degli obiettivi predisposti, i sistemi contabili, idonei a regi­strare correttamente i fatti relativi alla gestione e a fornire una rappresentazione della situazione economico-patrimo­niale, finanziaria e di rischi dell’impresa e dei patrimoni in gestione, e il sistema di controllo interno.

I pericoli insiti nell’attività di gestione e, principalmente, il pericolo di compromettere la stabilità patrimoniale, sono considerati anche dal Provvedimento della Banca d’Italia 20 settembre 1999, emanato a norma dell’art. 6. Tuif, il quale, oltre a determinare le partecipa­zioni detenibili dalle società di gestione del risparmio[51], fissa le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio applicabili agli organismi di investimento collet­tivi, ossia ai fondi comuni di investimento e alle sicav. Tale normativa, il cui contenuto è stato confermato dal Regolamento del 2005 sulla gestione collettiva del risparmio, comprende, infatti, i limiti alla composizione com­plessiva del portafoglio dei fondi e si riferisce ai fondi aperti, nell’ ambito dei quali si distinguono i fondi armonizzati, e ai fondi chiusi. È bene rilevare, tuttavia, che nel caso in cui un fondo aperto o chiuso preveda che la partecipazione sia ri­servata a investitori qualificati[52] o preveda che il fondo in­vesta in beni diversi da quelli individuati dall’art. 4, comma 2, d.m. 24 maggio 1999, n. 228[53], le disposizioni cui si ac­cenna possono essere derogate.

Per tutti i tipi di fondi sussiste un generale limite all’in­vestimento in strumenti finanziari dello stesso emittente[54]. Ulteriori limiti riguardano gli investimenti in strumenti finan­ziari di uno stesso gruppo di emittenti e gli investimenti in depositi bancari[55]. Sono poi sottoposti a condizione gli investimenti in strumenti finanziari derivati e le altre opera­zioni a termine.

Analoghe disposizioni in materia di vigilanza, di partecipa­zioni detenibili, di organizzazione amministrativa e contabile, di controlli interni, di adeguatezza patrimoniale e di conteni­mento del rischio, si trovano nel Provvedimento Banca d’Italia 4 agosto 2000, che, come si è detto, riguarda la prestazione di servizi di investimento da parte delle sim[56].

La ricerca delle migliori opportunità di rendimento e le esigenze di regolamentare la destinazione delle risorse e l’im­piego dei capitali al fine di evitare operazioni troppo ri­schiose, si riscontrano anche nelle disposizioni che riguar­dano i fondi pensione[57] i quali, tuttavia, hanno funzioni e obiettivi diversi da quelli degli altri gestori collettivi del ri­sparmio e, specificamente, dai fondi comuni. In questi ultimi sia pure con l’ulteriore distinzione tra fondi aperti e fondi chiusi[58] il fine è essenzialmente quello speculativo di massimizzazione dei profitti, nei fondi pensione, invece, la fi­nalità è principalmente di natura previdenziale e l’esigenza di diversificare il portafoglio è sentita proprio per evitare scelte tipicamente speculative[59].

Nella prospettiva generale che si è delineata, le disposi­zioni richiamate, in particolare quelle che dettano limiti agli investimenti, evidenziano l’esistenza di un obbligo di diversi­ficazione del portafoglio, comune a tutte le attività di ge­stione del risparmio, che costituisce una regola di comporta­mento a cui i gestori devono attenersi. L’intermediario finanziario è tenuto a compiere scelte di investimento in ti­toli diversi, in società operanti in settori economici e paesi diversi che, in relazione al tipo di obiettivi che l’operatore si propone, tendano a ridurre i rischi[60] e a garantire il massimo rendimento. Si rileva, quale tratto comune delle norme, la volontà di razionalizzare le scelte di investimento e i relativi rischi dettando criteri che consentano il loro fra­zionamento. Ciò che, invece, differisce, in relazione alla ti­pologia di gestione, è la misura di questa diversificazione, che varia secondo i tipi di prodotti finanziari offerti e, quindi, secondo gli obiettivi perseguiti e le aspettative del cliente.

Risulta dal quadro brevemente delineato che, attraverso il rispetto dei criteri organizzativi individuati dalla Banca d’I­talia, ciascun intermediario deve perseguire non solo l’interesse alla trasparenza, alla correttezza dei comportamenti e alla sana e prudente gestione, ma anche l’interesse alla valo­rizzazione dell’investimento, al corretto funzionamento del mercato, alla stabilità dell’intero sistema, a che sia accresciuta la competitività delle imprese nelle quali l’intermediario inve­ste diversificando il portafoglio[61]. Il gestore ha, e deve avere, dunque, di mira il risultato globale del complesso dell’attività gestoria che chiaramente non coincide con quello del singolo strumento gestito.

Sotto il profilo dei rapporti tra investitore e risparmiatore, l’art. 6, comma 2, del Tuif dispone che la Consob, sentita la Banca d’Italia e te­nuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei mede­simi, disciplina con regolamento, tra l’altro[62], il comportamento da osservare nei rapporti con gli investitori, anche considerando l’esigenza di ridurre al minimo i conflitti di in­teressi e di assicurare che la gestione del risparmio su base individuale si svolga con modalità aderenti alle specifiche esi­genze dei singoli investitori e che quella su base collettiva av­venga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell’OICR (lett. b).

Occorre preliminarmente osservare che esiste una clau­sola generale che vincola tutti gli intermediari a comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza. Tale obbligo è im­posto ai soggetti abilitati alla prestazione dei servizi di inve­stimento (att. 21 Tuif, lett. a) nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati e alle società di gestione del risparmio nell’interesse dei partecipanti ai fondi (art. 40 Tuif, lett. a)[63]. Si è, tuttavia, ritenuto che dette prescrizioni, presenti nel quadro normativo da tempo, siano superflue, poiché l’obbligo di agire secondo correttezza e diligenza nell’ adem­pimento delle obbligazione è già previsto, in via generale, da­gli artt. 1175 e 1176 c.c.[64]. Si è poi anche osservato che le altre regole di comportamento, previste dall’art. 21 Tuif, lett. a), b), c), d),[65] e dall’art. 40 Tuif, lett. b), c), sono semplice­mente specificazioni del principio generale[66].

È, tuttavia, possibile ritenere che, nella prospettiva degli investimenti finanziari, l’obbligo di comportarsi secondo cor­rettezza e diligenza sia dettato anche in funzione del mer­cato. Rileva, pertanto, non solo la correttezza e diligenza nell’adempimento di una obbligazione (quella dedotta nel con­tratto relativo al servizio di gestione di patrimoni), ma anche la correttezza e diligenza professionale, nel senso di una ade­guata organizzazione degli operatori nell’ ottica di una logica di mercato efficiente[67].

Dalle Direttive europee discende poi la necessità di operare una preventiva valutazione dell’idoneità dei soggetti che intendono svolgere attività finanziarie e mobiliari. Infatti, la condizione di accesso al mercato da parte degli intermediari è subordinata al possesso dei requisiti di “onorabilità” e “professionalità”; ciò al fine di evitare che sul mercato finanziario operino soggetti privi di affidabilità – perché ad esempio coinvolti in precedenti penali – o privi della necessaria competenza e preparazione professionale. In materia è peraltro intervenuto il legislatore della riforma societaria del 2003, richiedendo per gli esponenti aziendali, gli ulteriori requisiti di “indipendenza”, al fine di ridurre il rischio di conflitti di interesse e migliorare le garanzie a che la prestazione dei servizi avvenga nell’esclusivo interesse degli investitori [68].

L’art. 13 Tuif[69]  – che da attuazione alle previsioni comunitarie – non stabilisce direttamente i requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza, ma delega tale compito al Ministero dell’economia e delle Finanze. Tuttavia, non avendo il Ministero ancora provveduto in tal senso, si fa attualmente riferimento al decreto emanato originariamente in attuazione del Tuif del 1998, che si limita a disporre i requisiti di professionalità ed onorabilità; mentre i requisiti di indipendenza (introdotti nel 2004)[70] non sono stati ancora definiti.

In definitiva, in un sistema in cui il rapporto fiduciario che, nell’ambito dei negozi in cui un soggetto è preposto alla cura e alla gestione degli interessi di un altro, lega l’incaricato e il committente, cede piano piano il passo ad un modello in cui tale rapporto è disciplinato da regole dettagliate, ma standar­dizzate per tipologia di contratti, la valutazione dell’ obbligo di agire secondo diligenza si sposta “dal comportamento dell’incaricato alla valutazione di adeguatezza dell’organizza­zione” che l’incaricato si è dato[71].

In particolare, per il profilo che qui interessa, gli investi­tori istituzionali debbono organizzarsi in modo tale da ri­durre il rischio di conflitto di interessi, rischio che si accen­tua, soprattutto, quando il gestore appartiene ad un gruppo finanziario, presta congiuntamente più servizi o instaura rap­porti di affari propri o di società del gruppo da cui potrebbe derivare un conflitto.

6. La gestione collettiva del risparmio

Il Testo Unico detta una disciplina organica delle forme di gestione collettiva di patrimoni coordinandola con l’attività di gestione individuale di portafogli d’investimento[72].

Difatti la gestione collettiva del risparmio antecedentemente al Testo Unico era contenuta in una pluralità di leggi i cui connotati essenziali erano: la prevalenza riconosciuta alla normativa primaria nella definizione delle strutture e delle modalità operative dei fondi e delle società di gestione; la mancanza di una disciplina d’insieme del fenomeno della gestione in monte, essendo la disciplina stessa orientata alla definizione dei singoli prodotti piuttosto che dell’attività di gestione complessivamente intesa, il carattere rigorosamente esclusivo dell’attività di gestione in conformità alla normativa comunitaria (direttive 85/611/CEE e 88/220/CEE) .

Passando ora ad esaminare la normativa vigente va osservato che l’art. 33, comma 1 Testo Unico dispone che la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio è riservata alle società di gestione del risparmio e alle Sicav.

Si tratta di una riserva in senso tecnico, la cui violazione risulta sanzionata penalmente per il profilo dell’abusivismo d’attività (cfr. art. 166 t.u.) ed amministrativamente per l’abuso di denominazione (art. 188 t.u.).

Per individuare il contenuto del servizio di gestione collettiva del risparmio occorre però fare riferimento alla definizione contenuta nella lettera n), dell’art. 1, comma 1.

Questa disposizione introduce sul piano organizzativo due distinte attività quella della promozione, organizzazione ed amministrazione del fondo e quella della sua concreta gestione, prevedendosi la possibilità di affidare l’una e l’altra anche a distinte società[73].

In passato invece questa possibilità restava circoscritta ad ipotesi espressamente previste dalla legge, quali la gestione di patrimonio di Sicav (d.lgs. n. 84 del 1992) o di fondi di pensione (D.lgs. 124 del 1993) da parte di società di gestione di fondi comuni[74].

Tanto detto,va osservato che la nuova ed articolata definizione del servizio di gestione collettiva lascia in ogni caso aperte numerose questioni.

Ad esempio irrisolta è rimasta la questione se, con riferimento all’attività della società promotrice, la promozione, l’istituzione, l’organizzazione e l’amministrazione del fondo costituisca un “unicum” indissolubile ovvero sia legittimo che la società promotrice demandi ad altri soggetti taluno dei citati compiti, conservando al contempo la qualifica di società di gestione del risparmio.

Sempre poi con riferimento al profilo definitorio, il servizio di gestione collettiva del risparmio, anche se svolto per conto terzi, resta confinato ad attività promozionali-organizzative riferibili a fondi comuni ovvero ad attività gestorie concernenti fondi comuni e patrimoni di Sicav[75], così come la gestione di altri patrimoni collettivi, quali i fondi pensione (art. 1, c. 1, lett. n).

Ne deriva che la gestione da parte dei soggetti abilitati (banche, sim, società di gestione del risparmio) di un fondo pensione, viene a rientrare nelle ipotesi di gestione individuale, trattandosi pur sempre dal punto di vista del gestore di un patrimonio unitario.

Ebbene ricollegare alla gestione di un fondo pensione l’applicazione delle norme relative alle gestioni individuali e collettive non è senza conseguenze, almeno per quei profili in cui le regole primarie e secondarie delle une e delle altre restino divergenti[76].

Alla luce delle considerazioni suesposte, pertanto, si ricava che si è registrato un passaggio da una “rigida tipizzazione” ad una “configurazione dinamica” delle forme di gestione collettiva ammesse dall’ordinamento, laddove invece l’individuazione dell’oggetto dell’investimento da effettuarsi dal Ministero del Tesoro ai sensi dell’art. 37, costituisce il presupposto per l’individuazione delle categorie generali entro le quali ricomprendere a posteriori le varie forme di gestione collettiva ed individuare la relativa disciplina applicabile[77].

Le attività che possono essere svolte dalla società di gestione del risparmio, oltre a quella di gestione collettiva, sono elencate al 2 co., dell’art. 33. Preliminarmente va notato che la disposizione fa richiamo solo alle Sgr non menzionando le Sicav, in quanto per queste ultime le attività da svolgere restano circoscritte a quelle connesse e strumentali che sono indicate dalla Banca d’Italia su parere della Consob (6 co. dell’art. 43)[78].

La particolare struttura istituzionale non consente di gestire alle Sicav i fondi comuni istituiti da società di gestione, i patrimoni di altre Sicav, i fondi pensione e, più in generale, di prestare servizi di gestione individuale.

Sotto il profilo strutturale e di vigilanza la Sicav si caratterizzano per l’assenza di un patrimonio proprio, distinto da quello dell’intero gruppo dei sottoscrittori e in grado di costituire un adeguato presidio patrimoniale per l’attività di gestione svolta per conto terzi[79].

Per quanto concerne l’attività di gestione per conto terzi, il consentire alle Sicav lo svolgimento di tale compito avrebbe sollevato il problema dell’individuazione del soggetto da considerare come imprenditore. Perciò, anche se volessimo individuare tale figura nelle mani di chi controlla la Sicav, è difficile immaginare che gli investitori, con la sottoscrizione delle azioni, possano acquistare allo stesso tempo il diritto a godere dei risultati della gestione collettiva per conto proprio e degli altri utili derivanti dalle commissioni delle gestioni svolte per conto terzi considerando anche tutto quello che ne consegue sotto i profili della pubblicazione del “prospetto informativo”.

Senza considerare poi che una soluzione quale quella in discus­sione avrebbe aumentato in misura esponenziale il conflitto d’inte­ressi, atteso che, se le società di gestione di fondi comuni operano su patrimoni individuali o collettivi che non sono direttamente a loro imputabili, nel caso delle Sicav il patrimonio gestito collettiva­mente è ad esse direttamente riferibile[80].

La disposizione in commento, nel consentire alle società di gestione del risparmio di prestare il servizio di gestione individuale, si presenta come sostanzialmente ripropositiva del principio già previsto nell’articolo 18, comma 2, del T.U.F., senza che alla speci­ficazione del carattere di “professionalità”, contenuta nella norma ultima citata, possano ricollegarsi particolari dubbi interpretativi.

Il carattere di professionalità è infatti connaturale alla prestazio­ne di qualsiasi servizio d’investimento e come tale deve ritenersi implicito anche nella previsione dell’art. 33 T.U.F.

D’altro canto, la riconosciuta possibilità per le Sgr di prestare il servizio di gestione individuale – pur facendo assumere all’attività gestoria complessivamente intesa una sua specifica rilevanza, po­tendo ora detta attività essere svolta da soggetti ad hoc, in via soggettivamente ed oggettivamente esclusiva  – lascia in ogni caso distinte le norme che governano la gestione su base individuale e in monte e che continueranno ad applicarsi a seconda della tipologia di gestione esercitata.

Partendo dalla struttura preesistente degli intermediari, l’unifica­zione della funzione gestoria in un unico soggetto, può avvenire o attraverso un ampliamento dell’operatività delle società di gestione di fondi comuni da collettiva anche ad individuale, ovvero attraverso un restringimento alla sola attività di gestione individuale delle attività svolte da banche e Sim, con collegata estensione operativa alla gestione collettiva (e conseguente trasformazione in Sgr).

È stato rilevato come ai sensi dell’art. 200 del T.U.F la transizione appare molto più semplice per le ex società di gestione dei fondi per le quali è previsto un meccanismo ex lege di autorizzazione e di iscrizione nell’albo; d’altro canto la ragione della maggior com­plessità che caratterizza la trasformazione di banche e Sim in socie­tà di gestione del risparmio[81] va rinvenuta proprio nella liquidazione delle altre attività svolte, diverse dalla gestione, e, nel caso di Sim autorizzate alla sola gestione, nella verifica da parte delle autorità della sussistenza dei ben più strin­genti requisiti patrimoniali ed organizzativi richiesti per la gestione in monte.

In mancanza di puntuali riferimenti nella legge e nel regolamen­to applicativo è stata sollevata anche la questione se le Sgr possano prestare il servizio di gestione individuale anche quando le stesse in concreto non esercitino la gestione collettiva in alcuna forma o limitino la propria attività alla promozione, istituzione ed organiz­zazione dei fondi ovvero alla sola gestione.

Relativamente alla prima delle questioni prospettate, ragioni di ordine sistematico hanno indotto a ritenere necessario lo svolgi­mento effettivo di entrambe le tipologie di gestioni autorizzate, anche se la necessità del cumulo delle attività non implica necessa­riamente che esso debba essere attuale, così che resterebbero salve situazioni collegate all’inizio dell’attività o comunque di carattere temporaneo.

Al di fuori delle richiamate eccezioni, inevitabile sarebbe l’espe­ribilità della procedura di decadenza dall’autorizzazione di cui all’art. 34, comma 3, del T.U.F. (con eventuale trasformazione in Sim) nei confronti della Sgr autorizzata ad entrambe le tipologie di ge­stione, ma operante solo nel campo della gestione individuale.

Con riguardo alla seconda fattispecie, la già richiamata esigenza di specializzazione, che è a fondamento della disciplina in esame, orienta per la legittimità del comportamento di intermediari che, da un lato, prestino servizi di gestione individuale e, dall’altro, operino esclusivamente come “società promotrici” o come “gestori” nel settore di quelle collettive. D’altronde, se la nozione di gestione collettiva del risparmio di cui all’art. 1, comma 1, lett. n) del testo unico, fa riferimento ad un servizio unitario che si articola in due diverse tipologie di attività (quella sostanzialmente promozionale ed amministrativa e quella prettamente gestoria), le successive let­tere o) e p) dell’articolo 1, qualificano come “società di gestione del risparmio” sia la società promotrice che il gestore, ed è alle “società di gestione del risparmio” (senza alcuna qualifica aggiuntiva) che è riconosciuta la possibilità di prestare il servizio di gestione indivi­duale[82].

Il regime di separatezza dell’attività di gestione in monte rispet­to alle attività d’intermediazione mobiliare, posto a tutela di un aumento esponenziale dei conflitti d’interessi, impedisce che le Sgr svolgano, oltre la gestione individuale, altre attività che non siano quelle espressamente consentite.

Tra queste vanno ricomprese sia l’istituzione e la gestione di fondi pensione (art. 33, comma 2, lett. a) del T.U.) che le attività connesse e strumentali stabilite dalla Banca d’Italia, sentita la Con­sob (art. 33, comma 2, lett. b) del T.U.). Espressamente consentita è poi anche la prestazione di servizi collegati alla sollecitazione di deleghe di voto, di cui all’art. 140 del T.U., nonché l’offerta fuori sede di strumenti finanziari, limitatamente a quote ed azioni di OICR (art. 30, comma 3, lett. b) del T.U.).

Quanto alla prima previsione, essa rappresenta la naturale esten­sione di potenzialità operative già riconosciute alle società di ge­stione di fondi comuni d’investimento mobiliare aperti dagli articoli 6 e 9 del d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124. A tutte le società di gestione del risparmio è quindi ora consentita la gestione di fondi pensione, con la sola eccezione rappresentata da quelle società di gestione che intendano gestire fondi c.d. “speculativi” e che, sulla base delle disposizioni emanate dalla Banca d’Italia, devono avere oggetto esclusivo a ciò limitato[83].

Con riguardo alla individuazione delle attività connesse e stru­mentali, va invece sottolineata la riserva di amministrazione posta dal legislatore a conferma del carattere tendenzialmente circoscritto dell’ attività delle società di gestione, laddove per converso le Sim sono direttamente abilitate a svolgere oltre i servizi accessori anche attività connesse e strumentali (art. 18, comma 4, T.U.).

Tale riserva d’amministrazione riguarda anche l’eventuale esten­sione indiretta dell’operatività delle società di gestione, realizzata attraverso l’acquisizione di partecipazioni in altri intermediari, materia questa che ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lett. a), T.U.F. resta disciplinata dalla Banca d’Italia, sentita la Consob[84].

Il regolamento attuativo precisa che connessa è l’attività che con­sente di promuovere e sviluppare l’attività principale esercitata ed ammette le Sgr che prestano il servizio di gestione su base individuale a prestare i servizi accessori previsti dall’art. 1, comma 6, del T.U.F

Strumentale è invece l’attività che ha carattere ausiliario rispetto a quella principale svolta, rientrando in tale novero, a titolo esem­plificativo, le attività: a) di studio, ricerca ed analisi in materia economica e finanziaria; b) di elaborazione, trasmissione e comu­nicazione di dati ed informazioni economiche e finanziarie; c) la predisposizione e la gestione di servizi informatici o di elaborazio­ne dati; d) l’amministrazione di immobili ad uso funzionale[85].

Va poi sottolineato che il regolamento consente alle società di gestione del risparmio abilitate alla prestazione del servizio di ge­stione su base individuale di prestare i servizi accessori previsti dall’art. 1, comma 6, del T.U.F, la qual cosa non manca di destare perplessità considerato che esse non per questo assumono la veste di imprese d’investimento. Se, infatti, appare giustificabile che pre­stino quei servizi d’investimento effettivamente accessori a quello di gestione individuale, quantomeno singolare è che possano presta­re anche i servizi di consulenza alle imprese (art. 1, comma 6, lett. f del T.U.F.)[86].

Notevoli dubbi interpretativi solleva poi la citata possibilità, che le società di gestione del risparmio (e le Sicav) offrano fuori sede “quote ed azioni di OICR” (art. 30, comma 3, lett. b) del T.UF.).

Il testo unico, infatti, nel confermare che l’offerta fuori sede non costituisce un’attività a sé stante, ma semplicemente una modalità di prestazione del servizio di collocamento[87], a differenza del decreto Eurosim (art. 22, comma 2, lett. b), con riferimento alle Sgr e alle Sicav, non limita espressamente l’offerta “alle quote di partecipazione e alle azioni dagli stesse emesse”.

Si è pertanto sostenuto che alle Sgr e alle Sicav è ora consentito di procedere al collocamento fuori sede anche di quote ed azioni di OICR emesse da soggetti diversi, argomentando ciò dalla diversità delle formulazioni succedutesi nel tempo ovvero dal diverso trat­tamento riservato alle imprese d’investimento e alle banche (art. 30, comma 4, secondo periodo)[88].

Invero, l’ambigua formula legislativa frutto di un emendamen­to proposto dal Senato alla bozza di testo unico deliberata in prima lettura dal Governo[89], sembra possa giustificarsi in relazione all’articolazione dell’attività di gestione in monte in due attività[90], cosicché la possibilità di collocare strumenti finanziari in de­roga alla riserva di attività, dovrebbe ritenersi consentita alle Sgr e alle Sicav non indiscriminatamente, ma in presenza di un collega­mento tra collocatore e gestore[91] che valga a qualificarli nei confronti della clientela obla­ta come “società promotrice” e “gestore” di un certo “prodotto fondo”[92], e non vi siano norme statutarie che limitino l’oggetto sociale di chi intende offrire fuori sede alla sola gestione di fondi di altrui istituzione[93].

La soluzione prospettata è confermata anche dall’art. 55 del rego­lamento Consob adottato con delibera n. 11522 del 1 luglio 1998[94], come modificato con delibera 12409/2000[95], che ha ribadito, anche con riferimento alle azioni di Sicav (in precedenza non menzionate), che il collocamento diretto, anche fuori sede, delle società di gestione del risparmio ha per oggetto “quote di fondi comuni d’investimento di propria istituzione o di OICR per i quali svolgono la gestione”.

Deve quindi ribadirsi in via generale l’impossibilità che le so­cietà di gestione del risparmio collochino quote o azioni di OICR di cui non siano promotrici, oppure gestori ex art. 36, comma 1, ovvero soggetti delegati alla gestione ai sensi dell’art. 33, comma 3, del T.U.[96]

In particolare, la norma da ultimo citata, prevede la possibilità che il gestore del fondo affidi specifiche scelte d’investimento a intermediari abilitati a prestare servizi di gestione di patrimoni, nel quadro di criteri di allocazione del risparmio definiti di tempo in tempo dal gestore stesso[97].

Si tratta della c.d. delega di gestione, che non comporta che il “delegato” sia parte del contratto con il sottoscrittore dell’OICR, quanto piuttosto rivesta la figura di sostituto dell’intermediario gestore ai sensi dell’art. 1717 c.c., e che non è riconducibile ad ipotesi di gestione collettiva, essendo la delega affidabile solo a soggetti autorizzati alla prestazione del servizio di gestione di por­tafogli su base individuale.

Trattasi di un’ipotesi di delegabilità parziale della funzione ge­storia, ancorate a specifiche condizioni, laddove la facoltà di delega generale non risulta consentita, in quanto l’intervento di un sogget­to specializzato a cui affidare tutte le scelte d’investimento è risolto all’interno della nozione di gestione collettiva, con l’articolazione delle attività di cui essa si compendia e con la previsione di “società promotrici” e “gestori”[98].

Il carattere necessariamente parziale della delega in discorso, richiede quindi che il gestore individui puntualmente i settori e i criteri cui resta circoscritta l’attività dell’intermediario delegato, né possa esimersi dalla verifica, unitamente alla banca depositaria, del rispetto dei limiti del mandato conferito[99].

La delega infatti non implica alcun esonero o limitazione di responsabilità della Sgr delegante, né sotto il profilo civilistico, né sotto i profili di vigilanza di competenza di Banca d’Italia e Con­sob. A tal proposito, la normativa secondaria emanata da dette au­torità dispone che la delega deve poter essere revocata in ogni momento, prevedere che il delegato si attenga nelle scelte degli investimenti alle istruzioni impartite periodicamente dai competenti organi della società di gestione, nonché disciplinare il flusso “gior­naliero”[100] di informazio­ni, che consenta la ricostruzione del patrimonio gestito[101].

La disposizione in parola non rappresenta comunque una novità assoluta rispetto al regime previgente, considerato che, oltre l’ipo­tesi di delega di poteri di gestione dalle Sicav alle società di gestio­ne di fondi comuni (art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 84 del 1992), la Banca d’Italia in passato aveva ritenuto “possibile accedere a soluzioni organizzative in base alle quali si rendeva possibile dele­gare a terzi professionisti le scelte specifiche degli investimenti nell’ ambito di strategie di asset management previamente definite dagli organi responsabili della società di gestione”[102].

La fattispecie in esame si discosta poi da quella regolata dall’ar­ticolo 24 T.U.F. in tema di gestione su base individuale, in quanto la delega, in tale ultimo caso, previa autoriz­zazione scritta del cliente, può riguardare sia l’intero portafoglio di gestioni dell’intermediario che parte di esso, così come il singolo rapporto di gestione, in parte o nella sua interezza[103].

La ragione di tale diversità di disciplina viene ricollegata all’esi­genza di restringere la riserva di attività nelle gestioni collettive a tipi organizzativi meno soggetti all’insorgere di conflitti di interessi[104], nonché al potere d’indirizzo riconosciuto all’investitore nelle gestioni individuali (e non anche in quelle collettive) di autorizzare come sin­golo, modifiche del contratto originario[105]. Motivazioni queste già alla base dell’accentramento delle funzioni gestorie collettive in soggetti che non svolgono altre forme di intermediazione finanziaria.

Diversa da quelle in discorso è infine l’ipotesi di delega di ge­stione riferita al patrimonio di Sicav (art. 43, comma 7), in quanto in tal caso la delega può essere conferita solo a Sgr, può riguardare l’intero patrimonio e non necessita della preventiva definizione di linee guida d’investimento[106].

In particolare, sul punto, è stata criticata la limitazione sogget­tiva della qualifica di delegato alle sole società di gestione del ri­sparmio, già contemplata dal d.lgs. 84 del 1992, ma in un panorama normativo che vedeva la delega di gestione come evento eccezionale[107], laddove detta limitazione soggettiva, pur se opinabile, trova, come detto, ragion d’essere nella definizione del servizio di gestione collettiva data dall’art. 1, comma 1, lett. m) ed n) del T.U.F.

7. La SGR come socio: gestione attiva o passiva?

È interessante osservare che uno dei principi ispiratori della delega legislativa che è dietro al testo unico delle finanza è la tutela delle minoranze[108].

Infatti, la Sezione II del Capo III del Titolo III della parte IV del testo unico è appunto rubricata “tutela delle minoranze”, all’interno poi di tale sezione il concetto si ritrova espressamente menzionato nella rubrica dell’art. 125  riferito alla convocazione dell’assemblea su richiesta della minoranza, ed ancora nell’art. 148, comma 2, sul collegio sindacale, ove si legge che almeno un sindaco deve essere eletto dalla minoranza.

Relativamente poi alla rappresentanza degli interessi delle minoranze per quanto concerne gli organi delle società quotate, la scelta del Legislatore è stata quella di limitare al minimo l’intervento imperativo, delegando all’autorità statutaria l’adozione di regole più pervasive.

Difatti tutelare le minoranze non vuol dire soltanto consentire ai singoli azionisti l’esercizio dei diritti individuali del socio, ma anche e soprattutto favorire l’aggregazione dei soci minoritari. Invero sono le aggregazioni dei soci che possono negoziare con il gruppo di controllo[109].

La ratio del testo unico è incentrata alla finalità che le minoranze si coagulino  intorno a centri esponenziali dei loro interessi.

L’investitore istituzionale, che mira alla massima redditività dell’investimento e non al controllo dell’emittente, sembra poter dare migliori garanzie di trasparenza, ferma restando la necessità di vigilare attentamente sui possibili conflitto di interesse[110].

La capacità della SGR di porsi quale gestore unico del risparmio indirizzato verso l’investimento azionario nelle varie forme previste dalla legge, ne fa un soggetto potenzialmente idoneo a svolgere quel ruolo di aggregazione a cui si faceva riferimento prima.

Tuttavia ci si è chiesti se effettivamente sussista un interesse degli investitori istituzionali a servirsi dei poteri attribuiti alle minoranze[111]. Le perplessità sorgono in virtù del fatto che i poteri attribuiti alle minoranze nel testo unico sono “poteri di rottura” poteri il cui esercizio è “price sensitive” cioè incidente sul valore del titolo[112].

Per questo motivo si è orientati nel ritenere che l’investitore istituzionale non avrebbe interesse ad esercitarli potendo al massimo servirsene come strumento di negoziazione con la maggioranza e con il management come minaccia per ottenere maggiori informazioni sulla gestione della società partecipata[113].

In verità se l‘investitore istituzionale non ha interesse ad esercitare questi poteri anche la possibilità di minacciarne l’uso è piuttosto residuale.

Non di recente peraltro ci si è interrogati[114] sul contegno della SGR nelle assemblee delle società quotate in cui detengano partecipazioni, con specifico riferimento alla presentazione di liste di minoranza. In particolare si è cercato di individuare:

1) quali comportamenti siano da tenere in occasione delle assemblee,  per la presentazione delle dette liste di minoranza ai fini della nomina degli organi sociali

2) quali comportamenti pur concertati siano estranei dalla nozione di patto fatta propria dal testo unico

3) quali comportamenti, invece, siano qualificati “patti” e, perciò, siano da comunicare alla Consob e al mercato.

La decisione di una pluralità di società di gestione del risparmio di presentare una comune lista dei candidati in prossimità di un’assemblea ordinaria, convocata per deliberare il rinnovo delle cariche  sociali, trova la propria giustificazione pratica nell’esigenza di consentire il raggiungimento della percentuale di capitale, per cui spesso gli statuti subordinano la presentazione di liste di minoranza, oltre che nell’intenzione di accrescere la probabilità di elezione dei candidati indicati, agevolando la convergenza dei voti delle società di gestione sui nomi inclusi nella lista.

In conclusione alla luce delle considerazioni suesposte non può che ribadirsi il valore precettivo pieno dell’enunciato dell’art. 40, comma 2, t.u. per il quale “la società di gestione del risparmio provvede, nell’interesse dei partecipanti, all’esercizio dei diritti di voto inerenti agli strumenti finanziari di pertinenza dei fondi gestiti”.[115]

Per quanto attiene specificatamente il diritto di voto, rimuove ogni dubbio circa l’ascrivibilità dello stesso alla società di gestione.

La scelta del Legislatore non è dunque nel senso della privazione del diritto di voto, ma del limite e della funzionalizzazione del suo esercizio all’interesse dei partecipanti.

Ed invero, va esclusa la legittimità di una linea di comportamento che preveda la sistematica astensione dall’esercizio del diritto d’intervento e di voto: detta evenienza oltre a no corrispondere al modello di governo societario ipotizzato dal legislatore e al ruolo attivo pensato per gli investitori istituzionale, potrebbe precludere alle SGR di esercitare, nel caso concreto, un’azione dissuasiva rispetto a decisioni del management o del gruppo di controllo considerate pregiudizievoli per l’interesse della società e contrastanti con l’obiettivo di realizzare la massimizzazione del valore delle azioni. Va ulteriormente condannato il comportamento che si traduca nella sistematica approvazione in sede assembleare delle proposte formulate dal management o dall’azionista  di riferimento, senza effettuare una ponderata valutazione dell’incidenza che tale proposta può esercitare sul valore delle azioni.

In sostanza il gestore può adottare liberamente e nell’apprezzamento dell’interesse dei partecipanti, una scelta in termini:

1) di non partecipazione all’assemblea

2) d’intervento al fine di favorire la costituzione dell’assemblea seguito da astensione dalla votazione

3) d’intervento e di partecipazione al voto, in adesione, dissenso rispetto alla proposta di deliberazione formulata dagli amministratori dell’emittente[116].

Gli investitori istituzionali quindi, sono soggetti il cui contegno si distacca tanto da quello degli azionisti che intendono utilizzare la partecipazione come strumento di governo dell’impresa, quanto da quello degli azionisti risparmiatori.

Gli investitori istituzionali si interpongono infatti, tra formazione del risparmio disposto all’investimento azionario e formazione del capitale rischio delle imprese che a quel risparmio attingono, garantendo una selezione ed una gestione professionale degli investimenti, nel segno della diversificazione e della stabilità dei rendimenti.

Sezione 2

I fondi comuni di investimento

1. I fondi comuni di investimento: regole di comportamento e controlli

I fondi comuni di investimento più conosciuti dal pubblico sono i c.d. fondi aperti (open-end investment trust), offerti ai risparmiatori continuativamente per la loro sottoscrizione in quote.

Il capitale dei fondi aperti varia continuamente per effetto delle nuove sottoscrizioni o per i rimborsi e sono detti “aperti” in quanto i sotto scrittori sono liberi di uscire dal fondo in ogni momento, chie­dendo il rimborso delle quote secondo le modalità previste dallo schema di funzionamento (Regolamento) del fondo ed è proprio nella liquidazione dell’investimento che si manifesta una delle prin­cipali caratteristiche dei fondi aperti: non solo la libertà di ingresso, ma anche e soprattutto la libertà di uscita per il risparmiatore.

Il fondo aperto è suddiviso in parti, che rappresentano quote di partecipazione al patrimonio comune e il prezzo di ciascuna parte si determina come rapporto tra il totale delle attività nette del fondo e il numero delle quote in circolazione.

Gli strumenti e i prodotti finanziari di proprietà del fondo sono custoditi da una banca (banca depositaria) che vigila sulla effettiva esi­stenza di tali valori e che accerta la legittimità delle operazioni di emis­sione e rimborso delle quote del fondo, sul calcolo del loro valore e sulla destinazione dei proventi del fondo. La banca depositaria ac­certa, altresì, che nelle operazioni del fondo, la controprestazione sia ad essa rimessa nei termini d’uso e provvede ad eseguire le operazioni di investimento disposte dalla SGR verificandone la regolarità.

La struttura organizzati va dei fondi comuni di investimento verte pertanto sui seguenti tre soggetti[117]: la Società di gestione del risparmio; la Banca depositaria; l’insieme dei partecipanti.

I capitali versati dai sottoscrittori formano un patrimonio auto­nomo (fondo comune) sul quale la società di gestione del risparmio esercita le funzioni di amministrazione e la banca depositaria quelle di custodia dei titoli e di controllo sull’attività svolta dalla SGR, as­sumendosene le relative responsabilità.

In particolare, alla banca depositaria è affidata la custodia degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide del fondo comune.

L’adozione di un tale modello organizzativo offre una mag­giore tutela ai partecipanti, in quanto la netta separazione delle di­verse funzioni consente di realizzare da un lato, una più spiccata professionalità tecnica nell’ambito della SGR e dall’altro una pre­cisa individuazione della sua attività, il che a sua volta favorisce le funzioni di controllo rendendo meno facili pericolose commistioni per gli interessi dei sotto scrittori.

Dal canto loro, i sottoscrittori non hanno diritto ad influire sull’attività di gestione del patrimonio del fondo; essi si limitano ad aderire ad una proposta contrattuale integralmente precostituita e trovano la loro tutela nel controllo amministrativo dell’organo di vi­gilanza sul contenuto del regolamento. A fronte di tale adesione, ai sottoscrittori possono essere rilasciati certificati rappresentativi della quota di partecipazione al fondo, che nel caso di fondi aperti sono rimborsabili in ogni momento[118].

I fondi comuni aperti armonizzati investono il proprio patrimo­nio in: strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati; parti di OICR – ovvero quote di fondi, azioni di Sicav e azioni di ETF “armonizzati”; strumenti finanziari non quotati, per i quali esiste un mercato attivo; strumenti finanziari derivati[119].

La detenzione di liquidità è ammessa solo per esigenze di teso­reria.

Per impedire operazioni ad alto rischio, la Banca d’Italia ha introdotto in via generale i seguenti divieti:

  1. a) concedere prestiti in forme diverse da quelle previste in ma­teria di operazioni a termine su strumenti finanziari (prestito titoli, pronti contro termine);
  2. b) vendere allo scoperto strumenti finanziari o assumere posi­zioni in strumenti derivati equivalenti alle vendite allo scoperto;
  3. c) investire in strumenti finanziari emessi dalla SGR;
  4. d) acquistare metalli o pietre preziosi o certificati rappresenta­tivi dei medesimi.

Per garantire la necessaria liquidità del patrimonio, la Banca d’Italia ha altresì introdotto limiti all’investimento in titoli non quotati fis­sando al 10% dell’attivo del fondo l’ammontare complessivo degli strumenti finanziari non quotati che possono essere detenuti da un fondo. In tale ammontare deve essere fatto rientrare anche il va­lore corrente dei contratti derivati OTC (ad es. valore del premio per l’acquisto di opzioni).

Per garantire il frazionamento del rischio attraverso la diversifi­cazione degli investimenti, sono stati altresì previsti limiti all’investi­mento in titoli di uno stesso emittente. Il fondo aperto infatti, non può essere investito in strumenti finanziari di uno stesso emittente o in parti di uno stesso OICR per un valore superiore al 5 per cento del totale delle attività.

La regola intende limitare l’esposizione del fondo/comparto di Sicav nei confronti di uno stesso emittente, qualunque sia la ti­pologia di strumento finanziario emesso, siano essi titoli di de­bito, titoli rappresentativi del capitale di rischio, o comunque convertibili in capitale di rischio. Il valore percentuale deve essere calcolato prendendo come denominatore il totale delle attività del prospetto contabile giornaliero del fondo e non il valore netto (Nav).

Detto limite è elevato al 10 per cento, a condizione che si tratti di strumenti finanziari quotati e che il totale degli strumenti finan­ziari degli emittenti in cui il fondo investe più del 5 per cento delle proprie attività, non superi il 40 per cento del totale delle attività del fondo medesimo.

Ciò implica che al gestore è consentito superare la soglia del 5 per cento di investimento dell’attivo del fondo in strumenti di un unico emittente, a condizione che tutti gli strumenti finanziari dell’e­mittente costituenti l’aggregato investito siano quotati.

Il limite di concentrazione è altresì elevabile al 35 per cento, quando gli strumenti finanziari sono emessi o garantiti da uno Stato aderente all’OCSE o da Organismi internazionali di carattere pub­blico di cui fanno parte uno o più Stati membri dell’Unione Europea (BEI, BIRS ecc.).

Infine, il regolamento ammette l’investimento fino al 100 per cento di strumenti finanziari emessi da uno Stato aderente all’OCSE, a condizione, però, che tale facoltà di investimento sia con­templata nel regolamento di gestione del fondo, e che il valore di ciascuna emissione non superi il 30 per cento del totale delle attività del fondo.

Per evitare l’insorgere di conflitti di interesse, la Banca d’Italia ha altresì introdotto limiti all’investimento in titoli emessi o collo­cati da società appartenenti ad un medesimo Gruppo, fissando una soglia massima del 30 per cento del totale delle attività del fondo. Tale limite è ridotto al 15 per cento quando il gruppo è quello di appartenenza della SGR.

I limiti indicati nel presente paragrafo non si applicano nel caso dei fondi che prevedono, come politica di investimento, di riprodurre la composizione di un determinato indice di borsa sufficientemente diver­sificato, di comune utilizzo, gestito e calcolato da soggetti di elevato standing e terzi rispetto alla SGR.

L’investimento in parti di altri OICR è ammesso se la composi­zione del portafoglio degli OICR acquistati (riscontrabile dalle pre­visioni regolamentari, se trattasi di fondo comune, o dallo statuto, se trattasi di Sicav), risulti compatibile con la politica di investi­mento del fondo acquirente.

Con riguardo all’investimento in Fondi/Sicav della stessa SGR, la Banca d’Italia ha stabilito che la possibilità di acquistare quote di altri OICR promossi o gestiti dalla stessa SGR o da altra SGR del gruppo (OICR “collegati “) debba essere prevista dal regolamento del fondo.

Al fine di evitare che sul fondo di fondi possano gravare, oltre alle commissioni di gestione “dirette”, anche quelle indirettamente pagate sui fondi acquisiti, la norma specifica “che il regolamento del fondo deve prevedere che sul fondo acquirente non verranno fatti gra­vare spese e diritti di qualsiasi natura relativi alla sottoscrizione e al rimborso delle parti degli OICR acquisiti e che la parte del fondo rap­presentata da parti di OICR “collegati” non viene considerata ai fini del computo delle commissioni di gestione “.

L’investimento in parti di OICR è ammesso solo se trattasi di fondi/azioni di Sicav rientranti nell’ambito di applicazione della Di­rettiva 85/611/CEE, (“armonizzati”) e nel limite massimo (per sin­golo Oicr o per insieme di Oicr acquistati) del 5 per cento dell’attivo del fondo. In tale ambito, va specificato che l’investimento in azioni di un ETF, qualora quest’ultimo replichi un indice “armonizzato” che rispetti i limiti imposti dalla Direttiva 85/611[120], può essere ef­fettuato nel limite del 5%, dato che l’ETF, come detto, rientra nel coacervo degli Oicr[121].

L’investimento in strumenti finanziari derivati invece[122] è consentito a condizione che il regolamento del fondo definisca i criteri di utilizzo e le finalità perseguite (es. copertura dei rischi) e che tale investi­mento non alteri il profilo di rischio indicato tra gli obiettivi del fondo espressi nel regolamento stesso. In ogni caso, l’attività in de­rivati non deve mai determinare posizioni equivalenti a vendite allo scoperto[123].

La SGR può effettuare operazioni su contratti derivati standar­dizzati negoziati su mercati regolamentati, su altri strumenti finan­ziari derivati c.d. over the counter. In quest’ultimo caso, a condi­zione che siano negoziati con controparti di elevato standing sotto­poste alla vigilanza di un’Autorità pubblica e che abbiano ad og­getto titoli quotati, tassi di interesse o di cambio nonché indici di borsa o valute. L’ammontare degli impegni in derivati assunti dal fondo non può comunque essere superiore al valore complessivo netto del fondo stesso[124].

Nella determinazione degli impegni assunti dal fondo le opera­zioni di compravendita a termine con regolamento oltre 5 giorni sono equiparate ai contratti future.

A fronte degli impegni rivenienti dalle operazioni in strumenti finanziari derivati di ammontare complessivamente superiore al 10 per cento del valore complessivo netto del fondo, nel patrimonio dello stesso dovranno essere presenti, per un ammontare pari all’eccedenza e per tutta la durata delle operazioni, alternativamente:

  1. a) i titoli o le altre attività che il fondo si è impegnato a consegnare;
  2. b) i titoli o le altre attività idonee a generare i flussi di cassa ceduti nell’ambito dei contratti derivati aventi ad oggetto tassi, indici o valute (es. IRS);
  3. c) disponibilità liquide o titoli di rapida e sicura liquidabilità il cui valore corrente sia almeno equivalente a quello degli impegni as­sunti.

Nel calcolo dei limiti di investimento, le operazioni in strumenti finanziari derivati su tassi e valute non si riflettono sulla posizione in titoli riferita a ciascun emittente e gli strumenti derivati che hanno per oggetto titoli di singoli emittenti (es. future o equity swap relativi a titoli specificamente individuati) sono equiparati ad operazioni a termine sui titoli sotto stanti e, pertanto determinano, alternativa­mente, un incremento o una riduzione della posizione assunta dal fondo su tali titoli. Nel caso di acquisto di indici di borsa in cui vi sia una presenza significativa di alcuni titoli la SGR deve verificare che la posizione complessiva riferita ai singoli emittenti tali titoli ­tenendo anche conto degli altri strumenti finanziari dell’emittente detenuti dal fondo sia coerente con i limiti di concentrazione so­pra riportati[125].

L’utilizzo di strumenti derivati riveste sempre una valenza stru­mentale rispetto ad altre posizioni in essere, ovvero contingenti. Nello specifico, tale investimento può assumere una duplice conno­tazione:

– finalità di copertura di posizioni già esistenti, attraverso l’i­stituzione di una posizione finanziariamente opposta a quest’ultima;

– finalità speculative, entro specifici limiti, che, grazie all’ef­fetto leva intrinseco negli strumenti derivati, permette una più effi­ciente gestione della liquidità.

L’esigenza di copertura può insistere su varie tipologie di rischio quali: rischio di svalutazione della posizione, rischio di deprezza­mento per le posizioni in divisa e rischio di insolvenza dell’emit­tente/controparte. Per ognuna di queste tipologie esiste una specifica strategia imp1ementabile tramite l’assunzione di impegni in stru­menti derivati.

Per quanto attiene, invece, l’esigenza speculativa, i derivati, quali ad esempio i future, consentono di porre in essere un investi­mento su un determinato indice e per un determinato controvalore, impegnando un capitale notevolmente inferiore. La differenza d’im­porto può essere, così, utilizzata per acquistare, a titolo esemplifica­tivo, titoli del mercato monetario, che permettono di perseguire gli obiettivi di garanzia previsti per questa tipologia di investimenti e, nello stesso tempo, ottenere anche un rendimento minimo.

Il provvedimento Banca d’Italia 20 settembre 1999 prevede, per questi strumenti, a prescindere dalla finalità che ne sottende l’uso, specifici vincoli sull’utilizzo da parte di Oicr armonizzati e, in particolare:

  1. il divieto di operazioni equivalenti a vendite allo scoperto;
  2. il divieto di assunzione di impegni superiori al valore netto del fondo.

Con riferimento al punto 1, si considera possibile, nel limite del 10% del valore netto del fondo, acquistare opzioni Put, ovvero ven­dere future su indici azionari o su panieri di titoli obbligazionari per un’efficiente gestione di portafoglio.

Riguardo invece al punto 2, è opportuno precisare che, oltre a tale limite generale, sussiste un vincolo specifico di utilizzo che pre­vede, per impegni rivenienti superiori al 10% del valore complessivo netto del fondo, che nel patrimonio siano ricompresi, per un am­montare pari all’eccedenza e per tutta la durata delle operazioni, alternativamente:

  1. i titoli o le altre attività che il fondo si è impegnato a consegnare;
  2. i titoli o le altre attività idonee a generare i flussi di cassa ceduti nell’ambito dei contratti derivati aventi ad oggetto tassi, indici o valute;
  3. disponibilità liquide o titoli di rapida e sicura liquidabilità il cui valore corrente sia almeno equivalente a quello degli impegni assunti.

Rispetto a questo ulteriore vincolo, si fa presente come la ratio dello stesso, unitamente al divieto di impegnare il fondo tramite de­rivati per un importo superiore al Nav, sia quella di impedire un le­verage economico dell’Oicr, che consentirebbe per il fondo l’insor­genza di una potenziale posizione debitoria, con possibile insolvenza dello stesso.

A differenza dei fondi armonizzati, i fondi non armonizzati, se­condo il Provvedimento della Banca d’Italia 20 settembre 1999, possono investire anche in depositi bancari presso banche aventi sede in uno Stato membro dell’Unione Europea o appartenente al “Gruppo dei dieci” (G-10). Tali depositi non possono avere vin­colo di durata superiore a 12 mesi per almeno il 50 per cento de­vono essere rimborsa bili a vista o con un preavviso inferiore a 15 giorni.

Il patrimonio del fondo non può essere investito in misura supe­riore al 20 per cento del totale delle attività in depositi presso un’u­nica banca. Tale limite è ridotto al 10 per cento nel caso di investi­menti in depositi presso la banca depositaria del fondo. In ogni caso i depositi presso banche di uno stesso gruppo, non possono eccedere il 30 per cento del totale delle attività del fondo. Nel caso di depositi presso banche del gruppo di appartenenza della SGR, le condizioni praticate al fondo devono essere almeno equivalenti a quelle appli­cate dalla banca medesima alla propria clientela primaria. Nel caso in cui il fondo detenga strumenti finanziari emessi da una banca presso la quale ha effettuato depositi, i limiti del presente paragrafo sono calcolati sommando il valore di tali strumenti a quello dei de­positi bancari in essere. Ai fini della verifica dei suddetti limiti, non si tiene conto della liquidità detenuta per esigenze di tesoreria presso la banca depositaria.

2. I fondi azionari chiusi in Italia tra opportunità e ostacoli allo sviluppo

I fondi chiusi in Italia sono stati istituiti con la legge n. 344 del 14 settembre 1993.

La legge 344/93 ha contribuito ad elevare il numero degli intermediari finanziari specializzati nell’offerta di capitale di rischio alle imprese. La disciplina dei fondi chiusi si fonda su un modello trilaterale: società di gestione, ban­ca depositaria, patrimonio comune, ricalcando così la normativa sui fondi d’investimento aperti[126] introdotti dalla legge n. 77/83.

Le SGR che gestiscono fondi comuni di investimento di tipo chiuso sono tenute ad ac­quisire in proprio una quota pari ad almeno il 2% del patrimonio di ciascun fondo[127]. Qualora le attività di gestione e promozione del fondo siano svolte da distinte SGR[128], ciascuna di esse deve acquisire in proprio una quota pari all’1% del patrimonio del medesimo fondo.

Le SGR devono operare con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei par­tecipanti al fondo, organizzandosi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitto di interesse tra i patrimoni gestiti e adottando misure idonee a salvaguardare i diritti dei sottoscrittori ai fondi.

Per quanto riguarda i diritti di voto relativi agli strumenti finanziari posseduta dal fondo, la SGR provvede, nell’interesse dei partecipanti, all’esercizio dei medesimi, salvo diversa disposizione di legge.

Al fine di evitare che la SGR ponga in essere comportamenti fraudolenti, il TUF dispone che la custodia delle disponibilità liquide e degli strumenti finanziari, che costituiscono il patrimonio del fondo, sia affidata ad una banca[129], la quale è tenuta ad eseguire le istruzioni del­la SGR, salvo diversa disposizione della legge o dei regolamenti degli organi di vigilanza.

Nell’esercizio delle proprie funzioni la banca depositaria[130] accerta la legittimità delle operazioni di emissione e di rimborso delle quote del fondo, il calcolo del valore e la desti­nazione dei redditi del fondo.

Inoltre, è responsabile nei confronti della SGR e dei partecipanti al fondo di ogni pre­giudizio da essi subito in caso di inadempimento[131].

Il patrimonio di un fondo chiuso viene raccolto attraverso un’unica emissione di quote, tutte di uguale valore e con uguali diritti.

Queste devono essere sottoscritte entro diciotto mesi dalla data di approvazione del regolamento del fondo da parte della Banca d’Italia o, nel caso in cui le quote siano offerte al pubblico, dalla data di pubblicazione del relativo prospetto informativo.

Il patrimonio del fondo è autonomo e distinto a tutti gli effetti sia dai patrimoni della SGR e della banca depositaria, che da quelli di ciascun partecipante.

Tale indipendenza si concreta nel divieto di compiere su di esso ogni tipo di azione ese­cutiva da parte dei creditori della SGR e della banca depositaria; le azioni dei creditori dei singoli investitori sono invece ammesse nei limiti delle rispettive quote di partecipazione.

Dunque i fondi chiusi sono stati istituiti al fine di stimolare lo sviluppo di operazioni di finanziamento a medio e lungo termine, con impegno partico­lare nel capitale di rischio e nella gestione delle piccole e medie imprese ancora non quota­te in una borsa valori.

Per quanto riguarda il profilo strutturale, nei fondi introdotti con la legge n.344/93, l’ammontare del capitale da sottoscrivere è prefissato e determinato al momento della pro­mozione del fondo: quindi non vi è la libertà di entrata e uscita che caratterizza i fondi aperti.

La normativa sui fondi chiusi è stata in seguito sottoposta ad una sostanziale riforma mediante due ulteriori provvedimenti: il Testo Unico della Finanza (TUF), cioè il D.Lgs. n. 58/98, ed il D.Lgs. n. 461/97, che ha regolato il trattamento fiscale del fondo.

Il TUF definisce quale “fondo chiuso” il fondo comune d’investimento, costituito da un patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte, in cui il diritto al rimborso delle quote viene riconosciuto ai partecipanti solo a scadenze predeterminate.

Tale istituto è inserito nella disciplina relativa agli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR), insieme ai fondi aperti ed alle società di investimento a capitale va­riabile (SICAV) e rientra nel fenomeno espressamente previsto dal legislatore di gestione collettiva del risparmio[132], attività che, ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. 58/98, è riservata alle società di gestione del risparmio (SGR) ed alle SICAV[133].

La novità della disciplina risiede nell’introduzione del gestore unico del risparmio, rap­presentato dalla SGR, la quale, ai sensi del D.Lgs. 58/98, di cui all’art. 33, è autorizzata a prestare sia il servizio di gestione collettiva, sia quello di gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi; può inoltre istituire e gestire fondi pensione e svolgere le attività connesse o strumentali a quelle appena elencate.

Il TUF ha in sostanza abrogato la legge 344/93 e, nell’ambito di un processo di pro­gressiva delegificazione, ha delegato alla normativa secondaria il compito di disciplinare nel dettaglio la materia.

A seguito del TUF, infatti, sono stati emanati i regolamenti della Banca d’Italia del 1 luglio 1998 e del 20 settembre 1999, la delibera della Consob[134] n. 11522 del 1 luglio 1998 ed il decreto del Ministero del Tesoro n. 228 del 24 maggio 1999.

Il primo provvedimento della Banca d’Italia, per quanto attiene ai fondi mobiliari chiusi, ha regolato in particolare l’attività delle SGR disciplinandone l’autorizzazione, l’ade­guatezza patrimoniale, il contenimento del rischio, la partecipazione al capitale, l’organizzazione amministrativo-contabile, i controlli interni e l’operatività all’estero.

La Banca d’Italia ha inoltre provveduto a fissare i criteri generali per la redazione ed il contenuto minimo del regolamento dei fondi comuni d’investimento, dettando una specifica normativa inerente l’offerta in Italia di quote di fondi comuni di Paesi dell’Unione Europea.

Il secondo provvedimento ha ad oggetto la disciplina delle partecipazioni detenibili dal­le SGR, il contenimento ed il frazionamento del rischio, i criteri di valutazione del patrimo­nio del fondo, le operazioni di fusione e scissione di SGR e la procedura di fusione tra fondi comuni.

L’ultima parte del provvedimento è dedicata alla regolamentazione delle caratteristiche dei certificati di partecipazione ai fondi e alle condizioni per l’assunzione dell’incarico di banca depositaria.

La delibera Consob individua, invece, le informazioni da fornire al pubblico nell’ambito della commercializzazione delle quote e determina le modalità con cui devono essere resi pubblici elementi contrattuali quali il prezzo di emissione, di vendita, di riacquisto e di rim­borso delle quote.

Il regolamento del Ministero del Tesoro, infine, determina i criteri generali cui devono u­niformarsi i fondi comuni d’investimento con particolare riguardo all’oggetto dell’inve­stimento, alle categorie di investitori cui è destinata l’offerta delle quote, alle modalità di partecipazione ai fondi aperti e chiusi ed all’eventuale durata minima e massima degli stessi.

3. Il private equity come asset class per gli investitori istituzionali

Con l’espressione private equity si individua un’organizzazione preposta allo svolgimento di attività quali l’assunzione di partecipazioni al capitale di rischio delle imprese non finanziarie, l’organizzazione e il finanziamento di operazioni di leva finanziaria (Leverage Buy-Out, LBO) per la parte attinente il capitale azionario[135], la consulenza in tema di assetti proprietari.

Il private equity combina l’attività di finanziamento, che è realizzata attraverso l’assunzione di partecipazioni al capitale azionario delle aziende finanziate, con quella di servizio, che consiste nell’ideazione, montaggio e gestione dell’operazio­ne stessa.

Il private equity può essere sia un intermediario finanziario di diritto italiano, attualmente nelle possibili configurazioni di SGR preposta alla gestione di fondi chiusi di investimento, oppure un intermediario finanziario ai sensi degli artt. 107 e 108 del TUB, sia un intermediario finanziario di diritto estero, sia una società non classificabile come intermediario finanziario e quindi non soggetta alla vigilanza del­la Banca d’Italia.

Con riferimento all’attività di finanziamento, il private equity distingue tra l’as­sunzione di partecipazioni di maggioranza e quelle di minoranza.

Nelle partecipazioni di maggioranza l’investitore è interessato a conseguire il controllo dell’azienda al fine di disporre di tutte le leve necessarie per influenzarne la gestione e lo sviluppo, fatti salvi gli eventuali accordi sottoscritti all’interno dei patti parasociali; per operare in questo segmento sono necessarie competenze industriali e tecnologiche marcate poiché l’investitore diventa proprietario dell’azienda ed è quindi, di conseguenza, chiamato a gestirla o direttamente oppure, più frequentemente, attraverso la nomina di un management di fiducia; in questo segmento del mercato, oltre alle aziende industriali, che esulano dalla trattazione, sono attivi numerosi fondi chiusi di diritto estero che possono essere sia portatori di propri progetti industriali[136] sia partner finanziari di team manageriali e imprenditoriali che vogliono sviluppare una propria business idea[137].

Nelle partecipazioni di minoranza l’investitore entra nel capitale dell’impresa seguendo una logica finanziaria di ritorno economico sull’investimento; egli valuta il pro­getto imprenditoriale del soggetto gestore, che ha e vuole mantenere il controllo dei diritti proprietari dell’azienda, e ha un grado minore di interesse a entrare direttamente nella sua conduzione; in questo ambito rientrano gli interventi volti a sostenere finan­ziariamente i progetti di sviluppo delle imprese, soprattutto a proprietà familiare[138], e altre operazioni di natura finanziaria volte, almeno nelle intenzioni degli intermediari finanziatori, a condurre l’impresa verso forme di finanza diretta (per esempio, quotazio­ne nel mercato azionario)[139].

Dietro l’eti­chetta “di minoranza” si cela una pluralità di operazioni, e quindi di tipologie di par­tecipazioni, che hanno tra di loro caratteristiche diverse.

A questo proposito si avanza una classificazione delle partecipazioni articolata in due macroaree:

  • gli investimenti cosiddetti in bonis;
  • gli investimenti a seguito di situazioni patologiche d’impresa.

I primi individuano quelle aziende sane dal punto di vista operativo e che hanno bisogno di aumentare il capitale di rischio per:

  • ristrutturare la struttura finanziaria, al fine di riequilibrarla a favore del capitale azionario (rientro del quoziente di leva finanziaria);
  • raccogliere risorse finanziarie esterne che eccedono le disponibilità di autofinan­ziamento della compagine proprietaria in concomitanza con operazioni di natura straordinaria (per esempio, un’acquisizione, il ridisegno della compagine proprie­taria ecc.) e comunque di sviluppo delle dimensioni aziendali.

Gli investimenti a seguito di situazioni patologiche Individuano la macroarea delle imprese in crisi che ha un particolare rilievo nei porta­fogli di partecipazioni delle banche a fasi cicliche in corrispondenza del manife­starsi di numerose crisi d’impresa quali quelle nella prima metà degli anni Novanta dello scorso secolo e dell’inizio dell’attuale decennio. Elemento cruciale relativo a questa forma di partecipazione è la capacità dell’azienda partecipata di ristabilire una sana gestione operativa attraverso il recupero della propria posizione competi­tiva nel mercato.

Gli interventi di risanamento si articolano in due segmenti specifici:

  • interventi di ristrutturazione stragiudiziale. Riguardano la fase di crisi conclamata, quando l’azienda è in una situazione di illiquidità e spesso di temporanea insolven­za. L’esperienza maturata nel corso degli anni Novanta ha ampliato il tipico inter­vento di risanamento dal modello del piano economico-finanziario, che poteva prevedere la conversione del debito in capitale di rischio, a quello dell’intervento “chirurgico”, volto a isolare rapidamente la parte sana dell’azienda da quella malata al fine di venderla sul mercato delle acquisizioni e, con il ricavato, sanare le posizioni debitorie pregresse. Considerata l’estrema difficoltà a operare in questo ambito e le competenze specialistiche che sono necessarie, appare molto improba­bile che gli intermediari finanziari generalisti abbiano convenienza a entrare nel segmento, come pure non vi sono allo stato attuale intermediari specializzati attivi in Italia[140];
  • interventi di turn around. Queste operazioni possono porsi a monte o a valle di una crisi conclamata. In entrambi i casi la patologia aziendale non è così acuta come negli interventi di ristrutturazione. L’azienda ha un calo dei profitti oppure perdite dovuti alla minore competitività e necessita di capitale di rischio per poter disporre di un capitale paziente per finanziare gli investimenti che sono alla base del programmato recupero della competitività stessa. In termini operativi queste opera­zioni possono essere assimilate al capitale per lo sviluppo, anche se il rischio aziendale che presentano è superiore rispetto alla casistica delle imprese in bonis. Proprio a causa del rischio elevato si preferisce condurre questi interventi attraver­so soggetti specializzati.

L’obiettivo del private equity che opera nel mercato del capitale per lo sviluppo attraverso l’acquisizione di partecipazioni prevalentemente di minoranza è quello di ap­portare nell’impresa il capitale necessario[141] per sostenere un progetto-strategia di cre­scita ideata e gestita dal gruppo imprenditoriale – proprietario – dirigente dell’azienda, preesistente al momento dell’investimento[142].

Il capitale introdotto deve essere utilizzato per favorire l’incremento del valore dell’azienda, che è ottenibile attraverso la realizzazione della strategia finanziata. Al ter­mine del periodo di investimento tale aumento di valore dovrà essere concretizzato attraverso la cessione della partecipazione a un prezzo che sia superiore rispetto a quello di carico e che sia rappresentativo dell’incremento di valore (guadagno in con­to capitale, cosiddetto capital gain). Il processo lungo il quale si assume una decisio­ne di investimento di questo tipo da parte del private equity è caratterizzato da alcuni elementi fondamentali:

  • l’individuazione dell’azienda target;
  • l’attività di analisi delle prospettive di sviluppo dell’azienda;
  • la valutazione del prezzo di acquisto delle azioni;
  • il regolamento dei rapporti tra l’azionista di maggioranza (il gruppo imprenditoria­le) e quello di minoranza (l’investitore finanziario);
  • la gestione e l’uscita dall’investimento.

La prima fase del processo consiste nell’individuazione delle azien­de che possono essere dei potenziali investimenti. Le caratteristiche ricercate nelle aziende target sono: a presenza di interessanti prospettive di crescita dimensionale attraverso la realizzazione di strategie di innovazione di prodotto/di processo, di apertura di nuo­vi mercati geografici (internazionalizzazione), di integrazione verticale a monte e/o a valle al fine di presidiare la filiera produttiva e rafforzare la propria posizione competitiva; la possibilità di realizzare delle acquisizioni strategiche di concorrenti importanti dell’azienda al fine di accelerare il tasso di crescita, di acquisire nuovi vantaggi competitivi e di rafforzare la propria posizione nei mercati di sbocco; l’appartenenza a settori che prevedano interessanti tassi di sviluppo a breve e a medio termine meglio se frammentati e suscettibili di consolidamento nel medio periodo; la possibilità di realizzare margini crescenti e sostenuti nel breve e medio termine e superiori rispetto alla media dei settori industriali; una dimensione operativa e di struttura prospettica compatibile con l’ipotesi di una quotazione nel mercato azionario al termine del periodo di investimento[143]; una struttura aziendale sufficientemente articolata in termini di strumenti di pro­grammazione e di controllo delle performance e guidata da un team manageriale competente e con un’attribuzione delle deleghe operative bene definita.

Inoltre, gli operatori del capitale per lo sviluppo escludono le aziende che necessi­tano di interventi di ristrutturazione o di turn around per la ripresa delle prospettive di crescita perché l’intervento in questa tipologia di imprese viene giudicato come un ambito per specialisti.

Se il primo contatto ha buon esito, allora si approfondisce l’esame della situazione al fine di comprendere se l’operazione possa essere di reciproco interesse per entrambe le parti in causa. Questo supplemento di indagine si concretizza sia in una serie di incontri e colloqui per conoscere il management aziendale e il suo orientamento alla crescita sia nell’ampliamento e nell’approfondimento delle analisi competitiva e di bilancio avviate con il quick scan.

In particolare con riferimento al secondo punto, le indagini che tipicamente vengo­no svolte riguardano:

  • una due diligence fiscale preliminare al prosieguo delle trattative nel caso in cui si abbia il sospetto della presenza di pratiche volte all’evasione fiscale nell’ambito dell’impresa (per esempio, mancata contabilizzazione di ricavi e di costi);
  • un’attenta revisione e discussione del business plan aziendale, se presente, che è stato redatto dal management;
  • una prima determinazione di massima del fabbisogno finanziario esterno richiedi­bile dall’azienda e del valore del capitale economico aziendale.

Nel caso in cui le parti dimostrino una concreta intenzione a proseguire nella trattativa[144], si arriva a stipulare una lettera di intenti (letter of agreement), preliminare al contratto vero e proprio, volta a definire i possibili termini dell’operazione.

Nella lettera di intenti sono formalizzati, tra gli altri, i seguenti elementi: il prezzo base, ossia la valutazione del capitale economico, dal quale partire per determinare il valore di cessione della partecipazione, e i criteri di valutazione che saranno adottati; le aree aziendali che verranno indagate e le modalità di metodo che verranno applicate per compiere degli approfondimenti conoscitivi volti a verificare la veridicità dei prospetti contabili finora forniti al fine di arrivare a una corretta e veritiera valutazione del capitale economico; la concessione di un’esclusiva all’investitore per un periodo di tempo limitato (di solito due-tre mesi) con la quale l’impresa si impegna a non intrattenere rapporti né tantomeno a concludere la stessa operazione con altri investitori, per permettere all’operatore di effettuare le verifiche sub b (clausola di esclusività).

Inoltre sarà formalizzata ancora il disegno dei principi che regoleranno il rapporto tra azionisti di maggioranza e di minoranza (cosiddetti patti parasociali)[145] e l’impegno a rimuovere eventuali patti tra soci preesistenti che ostacolino l’ingresso di un socio finanziario; il rispetto dei principi di riservatezza e di correttezza da parte dell’investitore e di suoi consulenti che vengano chiamati a svolgere specifiche verifiche tecniche, in particolare per quanto riguarda la conoscenza sia dell’esistenza della trattativa all’esterno delle parti in causa sia di informazioni “sensibili” che, se divulgate, potrebbero essere di estremo interesse per i concorrenti dell’azienda;  l’individuazione dei tempi di durata dell’investimento e delle diverse opzioni di uscita a disposizione dell’intermediario;  infine le garanzie da richiedere alla proprietà sulle poste di bilancio ritenute critiche[146] e l’eventuale introduzione di una clausola di rottura delle trattative nel caso in cui la successiva due diligence contabile porti a evidenziare scostamenti di valore delle poste conta­bili, rispetto a quanto dichiarato in sede di redazione di bilancio, superiori a una percentuale concordata tra k parti (solitamente il 15 per cento).

Tutte queste verifiche, oltre a mettere l’investitore nelle condizioni ideali per conoscere la situazione attuale dell’azienda che si appresta a partecipare e le reali possibi­lità di raggiungere gli obiettivi di crescita dichiarati dal management aziendale, sono funzionali all’ottenimento di una valutazione corretta del capitale economico che concretizza, in termini numerici, l’accordo tra le parti (il prezzo). In parallelo all’atti­vità di verifica, il team legale lavora per predisporre una prima bozza di accordo con­trattuale che recepisca sia le indicazioni che man mano emergono dai colloqui tra le controparti sia i dati risultanti dalla due diligence.

La probabilità di trasformare un negoziato in un investimento (cosiddetto closing dell’operazione) non dipende però solo dall’accordo sul prezzo di cessione tra le parti. ma anche sulle norme che il gruppo proprietario è disposto ad accettare per regolare i suoi rapporti con il nuovo azionista.

Innanzitutto è fondamentale per r investitore definire contrattualmente la via/le vie d’uscita ipotizzabili. In via di principio, l’exit way preferita dagli intermediari è la quotazione nel mercato azionario[147]. Al momento della stipulazione dell’accordo la proprietà si impegna a portare. insieme all’interme­diario, l’azienda al listino al termine del ciclo dell’investimento nel caso in cui essa presenti le caratteristiche adeguate per la quotazione che vengono già definite e con­cordate nell’ambito del contratto stesso: se, per un qualsiasi motivo, la proprietà non terrà fede all’impegno alla scadenza contrattuale, essa si obbliga a riacquistare il pac­chetto azionario dell’intermediario (cosiddetto patto di riacquisto) al valore che pre­sumibilmente si otterrebbe nell’ambito di un collocamento.

Le altre possibili vie di uscita sono:

  • la fusione con altre aziende del settore fusioni sia orizzontali che verticali, per la costituzione di poli industriali;
  • la cessione a operatori terzi (un altro intermediario o un soggetto industriale/frode sale);
  • un’operazione di buy-ouf buy-in da parte di un gruppo manageriale con il concorso di un nuovo investitore finanziario (secondary buy-out);
  • la clausola di pari passu qualora l’azionista di maggioranza decida di vendere.

Esse vengono considerate dall’intermediario come soluzione di second best rispetto all’opzione della quotazione sul mercato e, in questi secondi casi, è spesso la proprietà a chiedere di porre una clausola di gradimento all’eventuale nuovo azionista se esso dovesse essere di natura industriale.

Un’ampia area dell’accordo verte anche sul regolamento dei rapporti nel corso dell’investimento; in particolare, l’investitore avoca a sé la possibilità di controllare la gestione e l’andamento della realizzazione della strategia sia attraverso la nomina di un suo rappresentante nel CdA sia riservandosi la possibilità di chiedere in ogni momento delle informazioni supplementari rispetto a quelle periodiche. Nell’ambito del CdA il rappresentante dell’investitore non ha di solito delle deleghe operative poiché questo sarebbe contrario all’orientamento di non ingerenza nella gestione dell’impresa; è comunque evidente che, qualora ve ne fosse bisogno e vi fossero le condizioni da parte dell’azionista industriale, il management dell’intermediario è disponibile a porsi in affiancamento a quello aziendale per affrontare problemi soprattutto nelle aree della finanza, della programmazione e del controllo di gestione, dell’organizzazione aziendale, del legale e dell’internazionalizzazione, anche attraverso l’inserimento nell’azienda di manager del settore che siano di sua fiducia; delle clausole di “richiesta di intervento” potrebbero essere anche comprese all’interno del contratto di investimento.

Nel caso in cui si sia trovato un punto di accordo tra le parti sulle principali aree che determinano il buon fine della trattativa[148] e che in fase di due diligence non siano emerse situazioni ostative che abbiano provocato il ricorso alla clausola di rottura, si procede alla stesura del testo definitivo del contratto che, dopo avere passato il vaglio dei consulenti legali di entrambe le parti, viene firmato[149]. L’intera operazione, dalla sottoscrizione della lettera di intenti a quella del contratto, richiede solitamente due – tre mesi di tempo, fatte salve complicazioni particolari. Immediatamente successiva alla firma del contratto è l’erogazione per cassa del capitale concordato (il prezzo dell’operazione), che può avvenire o in un’unica soluzione oppure in due o più tranches successive, a seconda degli accordi presi. Oltre al normale monitoraggio periodico della posizione, ai frequenti contatti tra manage­ment aziendale ed executive dell’investitore che segue l’investimento e alla partecipa­zione al CdA della società, spesso il capitale per lo sviluppo si caratterizza per una col­laborazione attiva per la crescita dell’azienda da parte dell’investitore stesso in termini di apporto di competenze specifiche che non sono presenti nell’azienda.

Capitolo 2

Il ruolo degli investitori istituzionali nella corporate governance italiana.

La ratio del Decreto Legislativo n. 58/98 alla luce delle modifiche apportate dal 

d.lgs n. 164 del 17.09.2007 (Mifid), dal d.lg 195 del 06.11.2007 (transparency) e

dal d.lg 195 del 19.11.2007 (opa)

1. Gli ostacoli all’attivismo: il ruolo svolto dagli investitori istituzionali. Il problema del conflitto di interessi.

Nell’ordinamento italiano, insieme alle disposizioni in materia di organizzazione e di vigilanza, è stata prevista una specifica disciplina che tende a regolare il comportamento dell’intermediario per evitare l’insorgere di eventuali conflitti di interesse derivanti dall’espletamento dell’attività di intermediazione.

Nell’art. 21, lett. c) T.U.I.F. sono contenute le disposizioni inerenti le gestioni individuali imposte ai soggetti abilitati alla prestazione dei servizi di investimento e più nello specifico li obbliga “ a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati;  b) acquisire, le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività. 1-bis. Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e dei servizi accessori, le Sim, le imprese di investimento extracomunitarie, le Sgr, le società di gestione armonizzate, gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’articolo 107 del testo unico bancario, le banche italiane e quelle extracomunitarie: a) adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o fra clienti, e li gestiscono, anche adottando idonee misure organizzative, in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti; b) informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti di interesse quando le misure adottate ai sensi della lettera a) non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato; c) svolgono una gestione indipendente, sana e prudente e adottano misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati. 2. Nello svolgimento dei servizi le imprese di investimento, le banche e le società di gestione del risparmio possono, previo consenso scritto, agire in nome proprio e per conto del cliente”.

Quanto disposto nell’art. 21, T.U.F. risulta in linea con l’orientamento fissato dalla direttiva 93/22/CEE che, tralasciando di specificare le modalità di organizzazione, ha chiarito che lo Stato di origine deve assicurare che l’impresa che investe sia organizzata in modo tale da ridurre al minimo i rischi per i clienti di lesione dei propri interessi a causa dei conflitti tra l’impresa e i suoi clienti o tra i singoli clienti (art. 10). Inoltre, la succitata direttiva, aggiunge che lo Stato ospitante deve prevedere che l’intermediario sia obbligato ad evitare i conflitti di interesse e, qualora questo non sia possibile, deve disporre che i suoi clienti siano trattati in modo equo (art. 11)[150].

Pertanto, nel caso in cui la polifunzionalità che il legislatore ha consentito per questa materia, sia connessa alla presenza di conflitti di interessi, si sono prevenute tali divergenze considerando tutte quelle operazioni sia di natura diretta che indiretta in cui l’interesse che l’intermediario persegue è incompatibile con i fini del cliente[151]. Se il conflitto risultasse inevitabile, l’intermediario dovrà agire in modo tale da assicurare ai clienti la più completa trasparenza e un equo trattamento[152].

Considerando, invece, il caso della gestione collettiva del risparmio, il problema del conflitto di interessi andrà esaminato in base al tipo di investitore istituzionale. Infatti, nessun investitore è al di fuori e al di sopra dei potenziali conflitti di interesse, ma, secondo quanto appena detto, per i fondi di risparmio (o meglio per le società di gestione del risparmio: per le banche e per le imprese di assicurazioni) questa situazione è molto frequente in quanto sussiste la possibilità di intrecci azionari con società partecipante o rapporti di gruppo, diversamente dai fondi pensione in cui questi intrecci sono più deboli anche se pur sempre esistenti.

L’art. 40 del T.U.F. affronta la problematica esistente nelle operazioni in cui l’intermediario ha un conflitto di interesse che derivi dall’instaurazione di rapporti di gruppo o di affari propri o di società del gruppo. L’art. 40 riprendendo quanto affermato nell’art. 21 aggiunge il riferimento al conflitto che può instaurarsi tra diversi patrimoni gestiti.

Nell’esercizio congiunto dell’attività di gestione collettiva ed individuale, il rischio maggiore che si può correre è rappresentato dal fatto che l’intermediario possa far uso di modelli procedimentali e comportamentali uniformi con il conseguente risultato di confondere i patrimoni separati e i patrimoni di terzi.

Va notato che rientra in questo contesto anche il rischio derivante dal privilegiare un patrimoni, sia esso collettivo o individuale, per un proprio interesse specifico[153]. A questo proposito va detto che la Consob anche se da un lato consente l’esecuzione di operazioni che possano presentare un conflitto di interessi, dall’altro vieta espressamente l’adozione di comportamenti e azioni che possano avvantaggiare un patrimonio gestito, qualunque esso sia[154], a danno di un altro[155].

Andando ad analizzare il caso dei fondi pensione, si riscontra che il problema del conflitto di interesse deriva dall’assunzione di partecipazioni in società che risultano essere sottoscrittici di fonti istitutive e, quindi, promotrici del fondo (e anche ad imprese ad esse collegate), o nell’ipotesi di investimenti in titoli emessi dal datore di lavoro.

L’art. 7 del D.M. 21 novembre 1996, n. 703, integrando la disciplina introdotta dall’art. 6, comma 4-quinquies, l. 21 aprile 1993, n. 124[156], cerca di prevenire tutti quegli eventuali conflitti di interessi che sono relativi ad investimenti in materia di rapporti di gruppo, imponendo l’obbligo per i gestori di comunicazione al fondo gli investimenti in titoli che sono stati emessi dai sottoscrittori delle fonti istitutive (o dai datori di lavoro tenuti alla contribuzione) e nello stesso tempo gli impone di informare il gestore, il fondo e la banca depositaria sulla composizione del proprio gruppo[157]. Questo per risolvere gli eventuali conflitti che possono insorgere e in via preventiva cercando di dettare le regole di comportamento a cui il gestore deve attenersi[158].

2. Interventi normativi volti a tutelare e incentivare le minoranze qualificate.

Nel dettare le regole generali il legislatore segnala le differenze nel caso di società che abbiano adottato un diverso sistema di organizzazione e in proposito va subito precisato che l’impatto delle novità della riforma sull’organo amministrativo, in caso di organizzazione monistica e dualistica, è minore.

Infatti, con riferimento al sistema monistico, dalla lettura coordinata delle disposizioni emerge che, pur applicandosi quasi tutte le nuove regole introdotte in tema di nomina, il risultato è in parte diverso proprio per come esse operano nell’ambito di questo sistema organizzativo[159]. Il risultato, infatti, è che il sistema del voto di lista, che consente la nomina di un rappresentante della minoranza all’interno del consiglio, così come la necessità che quest’ ultimo sia anche “in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza determinati ai sensi dell’art. 148, commi 3 e 4”, garantisce la presenza di un solo soggetto indipendente e nominato dalla minoranza, nell’ambito del consiglio di amministrazione.

Il sistema, infatti, è congegnato in modo tale da fare sì che il soggetto nominato dalla minoranza ed in possesso dei requisiti di indipendenza e professionalità indicati debba necessariamente andare a comporre il Comitato per il controllo sulla gestione (cfr. art. 148, comma 4 – ter), da cui deriva che vi sarà un unico soggetto nominato dalla minoranza, che svolge il suo ruolo sia come membro del consiglio di amministrazione nel suo insieme, sia come componente l’organo di controllo, a fronte dei due presenti nel sistema tradizionale (uno nel CdA e l’altro nel collegio sindacale).

L’impatto è ancora minore nelle società organizzate secondo il sistema dualistico, nelle quali, questa volta per assenza di richiamo delle norme, non si garantisce la presenza di alcun componente indipendente o rappresentante la minoranza nell’ambito del consiglio di gestione, cioè appunto nell’organo cui è affidata la gestione della società. La presenza di un componente indipendente, infatti, è garantita solo in via eventuale dall’unico articolo della nuova sezione dedicato al consiglio di gestione, l’art. 147- ter, nel quale ci si limita a prevedere che qualora questo organo sia composto da più di quattro membri, almeno uno di essi deve possedere i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’art. 148, comma 3, nonché quelli eventualmente previsti dallo statuto per adesione ai “codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria[160]. La presenza di un componente indipendente è dunque meramente eventuale, mentre la nomina di un rappresentante la minoranza nell’ambito del consiglio di gestione non viene neanche presa in considerazione.
Le differenze rilevate nell’organo di amministrazione in senso stretto delle società che adottano i sistemi di organizzazione alternativi rispetto al tradizionale, sebbene non debbano essere sopravvalutate, considerato lo scarso utilizzo che questi sistemi hanno sino ad oggi avuto nelle società per azioni in genere e tanto più nelle società quotate, non sembrano però trovare ragione se non in una difficoltà del legislatore di adattare ai diversi meccanismi le medesime tutele apprestate nell’organo di amministrazione del sistema tradizionale. Altrimenti perché mai il legislatore avrebbe dovuto adottare un sistema, almeno a priori, più garantista per le società organizzate in modo tradizionale, trascurando invece di adottare le medesime tutele per le società che adottano sistemi diversi.

La locuzione “minoranza” non serve certo ad individuare gli azionisti del gruppo di comando, che, dati i casi numerosi di controllo minoritario, potrebbero costituire la “maggioranza” del capitale sociale[161]. È difficile, oggi, individuare una nozione di minoranza plausibile e valida in assoluto, sia per la progressiva riduzione degli azionisti “sciolti”, sia per il crescente numero di coloro che si fanno amministrare i titoli dalle banche o li fanno confluire nei fondi comuni di investimento, ed anche per la comparsa dei fondi pensione.

Sebbene sia senza dubbio positiva la previsione della necessaria presenza di un amministratore espressione della minoranza, ciò rappresenta ben poca cosa in assenza di un rafforzamento del ruolo e della responsabilità individuale di ciascun amministratore, tanto più se si tiene conto del fatto che lo stesso consiglio di amministrazione nel suo insieme ha già visto notevolmente depotenziati i proprio poteri e le proprie responsabilità di vigilanza a seguito della riforma del diritto societario del 2003[162]. La vera gestione della società resta nelle mani di amministratori delegati ed esecutivi, vero motore della società, dai quali oltretutto, secondo la nuova formulazione dell’art. 2381 c.c., dipende anche l’informativa che deve essere fornita al consiglio di amministrazione. Nulla può dunque in concreto il singolo amministratore, sia esso di minoranza o indipendente, in assenza di altre previsioni che ne rafforzino gli strumenti di intervento, attribuendo poteri individuali di vigilanza e soprattutto creando un vero e proprio ufficio che sia di ausilio in tale attività[163]. Non risulta dunque raggiunto quell’obiettivo che sembrava essersi posto il legislatore di spezzare il nesso di dipendenza dell’organo amministrativo dalla maggioranza che ha nominato gli amministratori operativi e che guida la società. Un risultato migliore era stato in verità prospettato in una precedente bozza di legge discussa alla Camera, là dove si prevedeva che al presidente del consiglio di amministrazione venisse attribuito il compito di supervisione generale della corretta gestione della società, vietandogli di ricevere deleghe e di fare parte del comitato esecutivo[164]. Questa previsione avrebbe naturalmente rafforzato responsabilità e poteri del presidente, che avrebbe potuto a questo punto effettivamente porsi come contrappeso allo strapotere degli amministratori delegati ed esecutivi.

Si può sostenere, allora, che il vero confronto è tra il gruppo di comando e gli investitori istituzionali (banche, fondi comuni, fondi pensione). Questi ultimi tendono, a volte, ad entrare nello stesso management, e a controllare dall’interno la loro partecipazione.

La minoranza è, solamente, l’universo degli azionisti non partecipi di una maggioranza[165]. “Le minoranze, in un sistema di mercato finanziario efficiente, perdono quella carica simbolica”, che ne contraddistingue, a volte, il termine[166]. È più produttivo e logico non rimanere legati alla “semantica”, ma, distinguere i soggetti, che man mano si presentano all’interno del capitale sociale, e rendersi conto degli interessi di cui ciascuno è portatore.

L’interesse della “minoranza” non deve, necessariamente, essere contrapposto, qualitativamente, a quello della “maggioranza”. Il vero termine dell’analisi deve essere “l’interesse comune” dei soci. Non sempre accade che l’interesse dell’impresa sia superiore o distinto rispetto a quello comune degli investitori, alla valorizzazione del proprio investimento. La “tutela delle minoranze e del risparmio” esclude, radicalmente, tale visione istituzionalistica dell’impresa[167].

Il termine “minoranze” può indicare, nello stesso tempo, realtà molto diverse. Si può passare dal socio in una società familiare costituita tra fratelli in disaccordo tra loro; allo Stato estero, socio di minoranza in una grande banca quotata con un elevato numero di altri azionisti.

Manca, nella stessa legge, una nozione definita e chiara di “minoranza”, neppure ricostruibile a posteriori, come il concetto di maggioranza. Se si può sostenere che, “maggioranza” e “controllo” si identificano, si potrebbe concludere che tutti coloro, iscritti nel libro dei soci, diversi dagli azionisti che esercitano il comando, costituiscono “quel limbo un po’ chiassoso ove si agitano, spesso sconsolati ed euforici, i soci di minoranza[168].

Nelle grandi società per azioni, accade spesso che i soci, pur di minoranza, perché privi del potere di gestione, rappresentano in realtà percentuali elevate del capitale sociale. Certo questo gruppo di investitori non deve essere organizzato, o meglio non deve essere in grado di elaborare strategie comuni di gestione dell’impresa, in modo tale da divenire una maggioranza di controllo. La maggioranza è una, ben individuata nel socio o gruppo di soci correlati, mentre, non vi è una “sola” minoranza, ma minoranze diverse, specie nelle società medio-grandi. Vi è, cioè, un elevato numero di soci non di controllo, che non si conoscono, non si scambiano informazioni, non si incontrano, non decidono una strategia comune, hanno, anche, obiettivi fra loro differenti. Gli istituti, posti a tutela delle “minoranze”, potranno, quindi, essere azionati da più soci o da più gruppi contemporaneamente e contestualmente, perché non si può fare distinzione tra chi si trova nelle stesse condizioni[169].

L’uso del plurale “minoranze” non è casuale, ma dipende dall’indeterminatezza del concetto stesso, ed evoca l’idea di una pluralità di fattispecie di tipologie azionarie.

Il concetto di “minoranza” va relazionato anche al contesto economico-dimensionale. In una società di piccole dimensioni, una percentuale inferiore alla metà del capitale sociale è una quota di minoranza. Viceversa, in una società di grandi dimensioni e in società quotate nei mercati regolamentati, percentuali molto inferiori possono corrispondere a partecipazioni di comando, specie se vi è una moltitudine di piccoli investitori minoritari, che, però, essendo disorganizzati, non incidono per nulla.

Tutela della minoranza” è un’espressione che ha una pluralità di significati storici, ideologici, giuridici e tecnici, specie nel diritto azionario. Per comprendere meglio tale terminologia e darne una interpretazione corretta, occorre inquadrarla nel contesto macroeconomico appropriato, il mercato mobiliare, e far riferimento all’obiettivo che si voleva perseguire con la nuova disciplina. In prima battuta, il T.U.F. si occupa dell’insieme degli azionisti investitori, che nelle società quotate, non fanno parte del “nucleo”, a volte ampio e compatto, costituito dagli azionisti, che, in diritto o in fatto, detengono il controllo.

Il T.U.F., rispetto al diritto classico, estende la sua portata a tutti i “cittadini” del mercato mobiliare, all’interno del quale si muovono, scegliendo le opportunità migliori e più proficue, “entrandovi” ed “uscendovi” in modo rapido e semplice[170].

Tutti gli investitori sono portatori del medesimo interesse, cioè la valorizzazione del proprio investimento, in un mercato trasparente e funzionante in modo corretto. Unica eccezione è che gli azionisti di comando hanno una visione più ampia, che può andare oltre ed al di fuori del mercato, mentre gli azionisti di minoranza vedono il mercato, in cui operano, come unico mezzo e fine per valorizzare il proprio investimento. Da tale visione[171], si può affermare che l’interesse sociale, astrattamente comune a tutti i soci, viene percepito in modo diverso dalla “minoranza” e dalla “maggioranza”.

La “minoranza”, infatti, punterà a far sì che il mercato funzioni correttamente, cioè con regole di trasparenza e di struttura che permettano una efficiente allocazione delle risorse. Il T.U.F. ha sottolineato, infatti, il fatto che la “tutela delle minoranze” e la “tutela del mercato” sono due facce della medesima medaglia, due esigenze, due valori congiunti, correlati e largamente coincidenti. In pratica, sarà difficile per le maggioranze “invocare un interesse istituzionalistico superiore per sacrificare l’interesse sociale del mercato stesso[172].

Nel T.U.F. si manifestano tre categorie di tutela, alcune con finalità di trasparenza, altre permettono di disinvestire a condizioni eque (diritto di exit), altre conferiscono poteri, direttamente o indirettamente, per far valere le proprie istanze all’interno della società o nei confronti di singoli componenti dei suoi organi (diritto di voice). Le norme con finalità di trasparenza soddisfano un interesse generale di mercato e sono di ausilio ad un più consapevole esercizio dei diritti di exit e di voice. Proprio tale triade (trasparenza, “exit”, “voice”) conferma la visione dell’azionista di minoranza, come membro di una società, e come “cittadino” dell’intero mercato mobiliare. Certamente i diritti di voice e di autotutela privata sono inutili, se i beneficiari dimostrano di non volersene in pratica servire. Per questo motivo l’attenzione è andata spostandosi verso un modello di azionista di minoranza, che, avendo un investimento assai cospicuo, da solo o congiuntamente con altri, preferisce non rimanere ad oziare, a dispetto della figura “astratta e tradizionale” del titolare di una sola azione.

Il concetto di “minoranza”, nelle società ad azionariato diffuso, ha un significato diverso di quello tradizionale, valevole per le società a controllo precostituito, dove si poteva identificare un socio o una coalizione di soci, titolari di un possesso definibile, tecnicamente, di controllo. La “minoranza” non è più un “semplice” concetto “politico” di relazione e di contrapposizione, ma identifica solo aliquote partecipative di azionariato diffuso. Si deve dare voce ad una “plurima aggregazione di investitori, non occupanti posizioni precostituite e stabili”. La “minoranza è policentrica[173], infatti, nel collegio sindacale si parla di “minoranze”, al plurale. Una “minoranza” è una aggregazione, un centro, autonomo rispetto ad un’altra aggregazione, e, particolarmente, alla aggregazione di maggioranza relativa. Parlando di “minoranza” non bisogna sempre pensare a percentuali residuali e contrapposte alla maggioranza, ma a minoranze, concretamente contrapposte ad altre minoranze, realmente capaci di governare. Si tratta di aggregazioni di azionisti bisognosi di tutela e di difesa per la funzione che devono svolgere, e non si deve sempre fare di un filo d’erba un fascio, riducendo tutti ad “esseri mitici ed indifesi”.

Il termine “minoranza” della legge delega del 1996 ha due interpretazioni[174]. La prima riguarda le minoranze, qualificate dal possesso di certe quote di capitale. A tale “visione”, si fa riferimento con la parola “poteri”. La seconda, individua i piccoli risparmiatori, gli azionisti “apatici”, che sono disinteressati alla vita societaria, ovvero che, anche se interessati, trovano antieconomico l’esercizio personale dei diritti di voice. Riguardo a tale interpretazione, sempre nel decreto delega, si parla di “tutela”.

Chi sono, per concludere, gli “azionisti di minoranza”? Tale quesito fa sempre scaturire interessanti risposte sulla scorta della comune esperienza.

L’azionista minimo”, mero investitore solitario, totalmente disinteressato alla vita sociale; “l’azionista presenzialista”, pur sempre detentore di un numero esiguo di azioni, che partecipa all’assemblea per curiosità, affezione, o astio personale e finalità aggressive, con l’intento, a volte, di trarre solo un profitto extrasociale dalle difficoltà del management; “l’azionista imprenditore”, detentore di un pacchetto di minoranza qualificata, in grado di incidere sugli equilibri interni; ed, infine, “l’investitore istituzionale[175]. Analizzando la disciplina si evince che il legislatore ha un occhio fortemente di riguardo per le due ultime categorie, specie per gli investitori professionali, ed affida loro le sorti della democrazia societaria del terzo millennio.

Tutto il Testo Unico indica il destinatario negli investitori istituzionali, sia per le percentuali indicate sia per le capacità e la professionalità richieste nel valutare le informazioni, sia per la tempestività e la rapidità necessarie a capire la convenienza economica di certe operazioni (come l’esercizio del diritto di opzione). Oltre alle situazioni attivabili solamente da una minoranza qualificata (artt. 125, 126, 128 e 129 T.U.F. attualmente abrogati dall’art. 9 del D.Lgs. n. 37 del 06.02.2004), un’ottima cartina di tornasole è data dalle norme, che non presuppongono una percentuale minima e che possono apparire dirette alla tutela degli investitori piccoli, indifferenti e disorganizzati. Queste sono, però, la conferma della disincentivazione di forme di azionariato “non gestito”, a beneficio della dislocazione del risparmio verso i fondi comuni o di pensione, come l’esercizio del diritto d’opzione, dove è ridotto il tempo per decidere, o il diritto di recesso, individuato solo per i soci dissenzienti e non per quelli assenti, o il voto per corrispondenza, lasciato all’autonomia statutaria, e non imposto[176].

Si è trattato di una scommessa azzardata e coraggiosa, dal momento che, in Italia, i fondi hanno adottato una politica assai prudente[177].

All’azionista minoritario qualunque” vengono garantite la trasparenza e il diritto di exit; mentre all’investitore qualificato e/o istituzionale sono attribuiti, per così dire, i poteri e diritti di voice. I nuovi diritti economici vanno, dunque, “all’azionista”, in quanto tale, mentre, i nuovi diritti amministrativi vanno alle “minoranze organizzate”.

Naturalmente, a nessuno è proibito di “accodarsi” alle iniziative di un gruppo qualificato, o demandare direttamente a questo, la gestione dell’investimento azionario. Si profila, così, il ruolo di “tutela indiretta” e, a volte “delegata”, che deve svolgere l’investitore istituzionale[178]. Il T.U.F., in realtà, ha reinterpretato le “categorie classiche”, alla luce del nuovo rapporto tra società e mercato, al crescente sviluppo degli investitori istituzionali, sia come ricettori di risparmio sia come istituti, con la vocazione a sorvegliare e monitorare l’operato dei gruppi di comando.

La tutela offerta dalla legge “Draghi”, in relazione al raggiungimento di masse critiche di possesso azionario e il chiaro favore per le aggregazioni, anziché per l’attivismo disaggregato, inducono a considerare gli investitori istituzionali, come i reali destinatari della tutela, perché “reali playmaker” del mercato, sia per qualità (entità della partecipazione), sia per stabilità e permanenza nell’investimento[179].

Oggi, parlare di “minoranza”, quindi, per riferirsi ai c.d. “azionisti risparmiatori”, non ha molto senso, o non ha più ragion d’essere. Questa categoria non sa cosa farsene della protezione interna, a meno che non sia eteroguidata, ed, inoltre, è difficile che gestisca personalmente il suo investimento, sia per assenza di tempo sia per i costi e la competenza necessaria[180].

La valutazione dell’impatto che il Testo Unico della finanza può avere sull’active monitoring delle società quotate per mezzo degli investitori istituzionali può essere delineata tramite l’analisi delle caratteristiche dell’attivismo degli investitori istituzionali che operano in Inghilterra e nel Regno Unito.

Si potrebbe affermare, pensando alla sottolineatura della legge comunitaria[181], che la finalità generale dell’intento legislativo è il tentativo di incentivare le minoranze diffuse ad affidarsi alla gestione collettiva del risparmio[182]. Il T.U.F., anziché, stimolare il piccolo azionista disorganizzato ed inesperto alla partecipazione all’assemblea, per controllare personalmente la gestione, propone una gestione professionale del patrimonio mobiliare, garantito da una legislazione attenta ad evitare i conflitti d’interesse tra gestori e risparmiatori, con regolamenti dei mercati, idonei ad assicurare la trasparenza e l’ordinato svolgimento della negoziazione e la tutela degli investitori. Al piccolo azionista è offerto un sistema finanziario garante della tutela del suo interesse patrimoniale, sia per il reddito che per l’exit, più di quanto potesse concedergli una assidua e costosa partecipazione alle assemblee. Tale incentivazione alla gestione collettiva, posto l’indirizzo del risparmio diffuso all’acquisto di beni di terzo grado (quote di fondi comuni e di Sicav), si traduce in un crescente ruolo di importanza per gli investitori istituzionali[183].

Nel T.U.F., infatti, vi è una tutela giuridica dei loro specifici interessi, distinti sia dal generico interesse al lucro e alla conservazione del valore patrimoniale del piccolo azionista, sia da quello del gruppo di controllo. Esempi in tal senso sono lampanti. Si pensi all’art. 134 del T.U.F., dove si riduce il termine temporale per l’esercizio del diritto di opzione (si passa da trenta a quindici giorni). Tale riduzione non incide negativamente sugli investitori professionali, data la loro possibilità di valutare, con competenza ed in breve tempo, la convenienza dell’esercizio del diritto. Il piccolo azionista, invece, rimane danneggiato per difetto di informazione tempestiva. Altra norma che incentiva l’investitore professionale e, contemporaneamente, disincentiva il piccolo azionista, era contenuta nell’art. 131 del T.U.F, attualmente abrogata dall’art. 9 del D.Lgs. n. 37 del 06.02.2004 il quale disponeva l’applicabilità dell’art. 2437 quinquies c.c. In particolare il citato articolo del codice civile prescrive che “se le azioni sono quotate in mercati regolamentari hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso alle deliberazione che comporta l’esclusione della quotazione”. Ed ancora, l’art. 126 del T.U.F.,  così come modificato dal D.Lgs. n. 37 del 06.02.2004, richiama la disciplina codicistica (artt. 2368 e 2369 c.c.) ad eccezione del II comma che prevede il caso in cui “i soci intervenuti in seconda convocazione non rappresentano la parte del capitale necessaria per la regolare costituzione, può essere nuovamente convocata entro trenta giorni”.

L’art. 132 del T.U.F., pur indicando la parità di trattamento secondo modalità stabilite dalla Consob con proprio regolamento, non obbliga l’uso dell’O.p.a., per le operazioni di acquisto di azioni proprie.

L’art. 130 del T.U.F., anche se privilegia l’informazione dei soci, è discriminatorio, perché offre solo anticipatamente documenti, che il socio troverà già il giorno dell’assemblea. È solo l’investitore istituzionale che preferisce disporre, anzi tempo, di ogni tipo di informazione, per prendere decisioni mirate ed opportune, evitando la discussione democratica assembleare.

Lo stesso art. 127 del T.U.F., apparentemente sembra volere permettere a tutte le minoranze disorganizzate di intervenire nelle assemblee, grazie al voto per corrispondenza[184]. Tale facoltà è lasciata, però, ad una decisione dello stesso gruppo di comando, che può introdurla nello Statuto, ma non ne ha alcun obbligo. Il voto per corrispondenza e l’elezione di un componente nel collegio sindacale sembrano, per così dire, “un prezzo pagato al populismo nella pia illusione di creare una democrazia societaria[185].

Quasi tutte le norme fanno poi riferimento a percentuali significative di partecipazione a società quotate, e non certo al piccolo azionista disorganizzato. La ratio di tali norme è la funzione che si vuole attribuire agli investitori istituzionali di essere “supervisori” del potere gestorio[186].

Si pensi alla riduzione delle percentuali per la denuncia al collegio sindacale (dal cinque al due per cento). Strumento molto indicato, per gli investitori istituzionali, grazie anche ai nuovi poteri concessi ai Sindaci dal T.U.F., al fine di monitorare l’andamento della società, data l’eventuale presenza di almeno un elemento eletto da loro stessi.

Il nuovo equilibrio tra la tutela della stabilità del management e la tutela dell’investitore istituzionale, in grado di esercitare la propria influenza anche attraverso accordi con il gruppo di controllo, è sottolineato anche dalla riduzione del quorum necessario per richiedere la convocazione dell’assemblea. Il fine è quello di costituire una maggioranza assembleare e condizionare il gruppo di comando, anche se quest’ultimo può bloccare tale facoltà, rifiutando di procedere “nell’interesse della società”.

La posizione di gestore di investimenti collettivi implica che si agisca avendo un interesse dato dalla composizione di più interessi dei diversi titolari effettivi delle quote. Tale posizione comporta che l’O.d.G., di una eventuale assemblea indetta “ad hoc”, divenga strumento, non solo, per l’incremento patrimoniale della sola azione, ma anche del suo valore di mercato. Tale interesse accomuna i gestori con i “piccoli” azionisti, che si muovono solo come investitori di breve periodo, specie in Italia, dove la proprietà azionaria è, ancora, nelle mani di pochi azionisti rilevanti. Gli investitori istituzionali divengono, così, “difensori” dei piccoli azionisti.

La presenza di altre norme (voto per corrispondenza, deleghe di voto) evidenzia l’intento di rinunciare alla discussione quale momento focale della riunione assembleare, valorizzando la fase pre-assembleare, quale momento centrale per la diffusione di informazioni tra i risparmiatori azionisti e fornire alla ristretta schiera di azionisti qualificati strumenti incisivi di pressione sui gruppi di controllo. Con le deleghe, inoltre, gli investitori istituzionali, cercano di coinvolgere gli indifferenti ed “apatici”, convincendoli delle proprie tesi con preventive campagne di informazione. La delega di voto diviene l’unica soluzione per gli “azionisti piccoli”, non propensi a sopportare i costi eccessivi per l’esecuzione consapevole e diretta del diritto di voto. Lo stesso strumento delle deleghe, però, in un contesto come quello italiano, molto accentrato azionariamente è poco appetibile ed appropriato, sia per i costi che per la rigidità dell’istituto. È uno strumento poco aperto al concreto utilizzo da parte dei pochi investitori rilevanti presenti[187].

Gli investitori istituzionali agiscono sempre sulla base di calcoli di convenienza economica, e valutano la concretezza dei loro poteri, misurandoli in funzione dei costi e della capacità, che attraverso questi, si riesca ad incidere realmente sulla situazione della società.

Un’altra forma di attivismo per tutti gli investitori, a livello assembleare, è assai poco credibile che possa diffondersi, come voluto. Gli stessi quorum necessari per azionare i diritti, e a volte i requisiti della permanenza nella qualità di socio (almeno sei mesi), fanno capire che l’ampliamento dei poteri delle minoranze è teso a stimolare soprattutto gli interessi dei soggetti legati alla società da un rapporto stabile nel tempo e significativo nell’ammontare, e tra questi assumono un peso significativo i gestori di investimenti collettivi (o potenzialmente lo permettono). Con la loro azione di monitoraggio della correttezza della gestione della società partecipata, dovuta sia alla consistenza delle quote in loro possesso che alla minore possibilità di esercitare il diritto di exit, ad esempio, saranno garantiti anche l’efficiente funzionamento del mercato, la proficua allocazione delle risorse e gli interessi delle minoranze “disperse”. Una tale interpretazione del ruolo degli investitori istituzionali è largamente diffusa negli Stati Uniti, e vi sono spunti significativi anche in Francia e in Gran Bretagna.

I “sacrifici” di tale normativa, di non estendere una protezione per il piccolo azionista, però, sono da leggersi nel contesto generale del sistema e del mercato globale. La riduzione dello “spatium decidendi” nel diritto d’opzione è correlata, ad esempio, anche alla volatilità, repentina a volte, dei prezzi nei mercati globali[188].

Non vi è una regola assoluta, bisogna ricondurre la tutela delle minoranze ad una formula “flessibile”, comprensiva di più strumenti e tecniche da porre in comparazione con le varie esigenze. La stessa incentivazione ed enfatizzazione del ruolo di “filtro” degli investitori istituzionali deve essere vista nel segno dell’evoluzione del sistema.

La “tutela delle minoranze” è sicuramente legata a determinate quote azionarie, ma i casi di intervento, di reazione, di “potere di blocco” delle minoranze qualificate sono notevolmente aumentati. Tanto più il capitale è diffuso, tanto più è difficile raggiungere i quorum previsti dalla norma[189].

Negli ultimi anni, grazie allo sviluppo dei fondi di investimento e dei fondi pensione, anche se in misura limitata in Italia, è capitato che nei sistemi in cui la proprietà azionaria è diffusa, i titolari di un investimento collettivo abbiano assunto all’interno delle società quotate un ruolo di non poco rilievo, reso significativo anche dalla mancanza di un “nocciolo duro” di controllo. Grazie al numero di azioni possedute, per la scarsa propensione ad esercitare il diritto di exit e, particolarmente, per il bagaglio di informazioni di cui dispongono e per la capacità professionale di utilizzarlo, hanno una posizione speciale, giocano un ruolo determinante. Si nota, per costoro, una potenziale rivitalizzazione dei diritti di voice. Possono, così, controllare dall’interno l’attività e avere una visione più ampia per allocare le risorse e raggiungere migliori performance. Questo modello ha reso, quasi, un “mito” il vecchio concetto di “democrazia societaria”, che portava alla ricerca di una tutela “immediata” per i piccoli azionisti. Ci si può riferire, forse, ancora, ad un concetto di “democrazia societaria”, ma solo per gli investitori significativi; una “democrazia dei big[190].

La tutela, concessa a determinate categorie, ed “indiretta” per il “piccolo azionista”, perché, si spera, appunto, che altri svolgano il ruolo di “faro guida”, è, però, un chiaro esempio di “politica dei due tempi” nella realtà italiana[191]. Infatti, gli stessi investitori professionali, specie i fondi pensione e le S.g.r., o non ci sono, o non sono ancora tanto forti ed indipendenti. In Italia, infatti, gli investitori istituzionali hanno, ancora, uno spazio ridotto, e il capitalismo di tipo familiare prevale.

Come evidenzia la dottrina[192], se, ad oggi, le percentuali richieste per esercitare i poteri delle minoranze risultano irraggiungibili o, comunque, difficilmente raggiungibili, non è detto che le difficoltà persistano, specie con lo sviluppo adeguato dei fondi pensione.

Per comprendere la fruibilità e la effettività dei poteri concessi alle minoranze qualificate bisogna valutare l’ambiente economico. Nonostante le privatizzazioni e le operazioni di riallocazione del controllo, si è assistito, negli ultimi anni, dapprima ad una tendenza alla riduzione della concentrazione proprietaria[193], per, poi, in un secondo momento, arrestarsi e stabilizzarsi su valori inferiori al cinquanta per cento. Si è notata, inizialmente, una variazione delle quote detenute dal primo azionista, o da più azionisti legati da un patto di sindacato, specie per le società interessate dal processo di privatizzazione. Si è assistito ad una, se pur lieve, separazione tra proprietà e controllo, ed ad una sempre ridotta possibilità alla “contendibilità azionaria”.

Tale scenario, nelle società quotate in Borsa, evidenzia, in Italia, la rilevanza dei gruppi societari e dello Stato, ed il ridotto ruolo delle istituzioni finanziarie e dei soggetti esteri. Vi è una tendenziale immobilità degli assetti proprietari, all’interno dell’organizzazione del mercato capitalistico italiano, evidenziando difficoltà enormi al passaggio verso il modello della “public company[194].

Se, poi, si analizza direttamente il patrimonio gestito dagli investitori istituzionali, si nota che, nonostante un incremento dei fondi comuni, vi è una lentezza congenita nel nostro mercato rispetto a quelli esteri, sia per forme di investimento offerte, sia per affidabilità. L’innata propensione alla proprietà concentrata è causa ed effetto dello scarso sviluppo di figure di investitori istituzionali, naturalmente capaci di esercitare tramite investimenti permanenti e consistenti il ruolo di “controllo”, che si voleva loro attribuire. Tale forma di investimento è ancora poco familiare al risparmiatore italiano, ed il rischio di un ritiro dei risparmi affidati agli stessi investitori professionali, spinge, questi ultimi, a cercare guadagni speculativi a breve termine, creando sempre più instabilità nel mercato stesso. Effetto di tale comportamento è che, la valutazione di lungo termine e l’esercizio del potere di “supervisione”, possono rappresentare un “lusso”, che sarebbe irrazionale permettersi. Un ruolo, forse, più incisivo potrebbe essere svolto da investitori esteri, sia per dimestichezza con gli strumenti di intervento, sia per le percentuali di capitale sottoscritto.

3. I nuovi strumenti legislativi e di autodisciplina.

Negli ultimi anni si è evidenziata sempre più l’importanza che gli apparati istituzionali assumono nella competizione economica. Lo sviluppo dell’intero sistema economico è infatti caratterizzato dalla crescita e dal rafforzamento delle imprese che risultano favoriti grazie all’intervento degli apparati istituzionali che si sono mostrati compatibili con gli elementi chiave del settore economico.

Nel periodo attuale, contraddistinto da forti spinte alla globalizzazione delle attività produttive e dei mercati, un ruolo fondamentale viene assunto dalla delineazione degli istituti di diritto societario e di diritto dei mercati finanziari che, partendo dalla definizione delle regole inerenti la corporate governance ed il mercato finanziario, hanno trovato un giusto bilanciamento tra il modello adottato dal legislatore per consentire l’attività di impresa in forma collettiva e la raccolta dei capitali necessari a svolgerla[195].

Perciò, l’evoluzione del panorama dei mutamenti economici è influenzato sia dagli adempimenti imposti dallo Stato sia da quelli di fonte primaria, dalle relazioni tra società ed azionisti, ma anche dalle relazioni intercorrenti tra azionisti di controllo e di minoranza, tra management ed investitori istituzionali ovvero più in generale dagli equilibri che intercorrono tra le diverse figure che sono riconducibili al management.

Il successo o meno del mercato azionario e delle imprese che traggono dal mercato linfa vitale è segnato dal grado di protezione goduto dagli investitori e dalla loro capacità di influire sulle scelte dell’azienda tramite la partecipazione alla vita sociale.

Va allora chiarita, alla luce della riforma del T.U. dell’intermediazione finanziaria e del diritto societario, l’importanza delle modifiche normative apportate con il D.Lgs. n. 58 del 1998, esaminando il suo impatto sul mercato finanziario e di controllo, sul ruolo degli investitori istituzionali e sull’organizzazione delle società quotate.

In questo ambito va sottolineata l’affermazione sempre più netta di alcuni principi basilari di tutela: la trasparenza, la correttezza, l’efficienza e la competitività del sistema. In generale, però, le modalità di attuazione di questi principi non ha trovato un positivo sviluppo a partire dalla formulazione del quadro normativo secondario affidata alle Autorità di vigilanza che è risultato spesso scoordinato e contraddittorio. Questo indirizzo rispecchia le finalità del legislatore che mirava  alla semplificazione normativa basata sulla creazione di principi a livello di fonti primarie la cui attuazione a livello secondario sarebbe dovuta risultare snella e di facile applicazione.

Le conseguenze di questo eccesso normativo ha comportato da un lato un costo elevatissimo per i soggetti obbligati al rispetto e dall’altro si è rivelato controproducente per chi si vuole proteggere[196].

D’altro canto non può essere imputata la colpa della cattiva applicazione dei principi solamente all’Autorità di vigilanza. Anche la CONSOB ha riscontrato l’insuccesso nell’applicazione della disciplina dell’insider trading che ha fatto riscontrare un netto fallimento su tutti i fronti.

Per quanto riguarda l’OPA sono stati sollevati numerosi dibattiti su aspetti di miglioramento e perfezionamento della disciplina introdotta dal T.U.F. ed in particolare quelli riguardanti l’abbassamento del parametro di soglia (30%) con cui al superamento del quale scatta l’OPA obbligatoria.

In questa ottica si inserisce il Codice di autodisciplina Preda adottato dal Comitato per la corporate governance delle società quotate. Questo deriva dalla consapevolezza del pericolo per le società quotate derivante dai comportamenti pregiudizievoli per gli investitori che nel lungo periodo sono più portati a preferire sistemi economici più attenti al rispetto dei diritti delle minoranze.

Questo ha indotto le società quotate a fissare dei limiti all’esercizio libero dei comportamenti consentiti dal codice civile mettendo in atto una serie di regole autonome. Proprio in questa volontà dei soggetti destinatari risiede il fondamento del Codice di autodisciplina che assume una valenza di mero modello di riferimento di natura funzionale e organizzativa senza porre in essere, però, nessun obbligo giuridico. Perciò, l’attuazione delle norme del Codice non sono garantite da organi preposti alla vigilanza e al controllo che possano sanzionare le violazioni.

Vanno distinte allora le forme di autodisciplina attuate dal Codice Preda dalla autonomia negoziale della legislazione in materia societaria. Infatti, anche se il diritto societario lascia ampi spazi alla determinazione dei privati, dall’altra parte ci si trova a fare i conti con la logica dell’autonomia negoziale. Questo perché il contratto sociale è inserito nell’ambito dell’autonomia privata per la realizzazione di scopi comuni o, per meglio dire, di convergenti volontà private che costituiscono fondamentalmente un contratto di organizzazione le cui clausole (vincolanti) hanno valenza di legge tra le parti[197].

Nel caso in cui si volesse ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti ed individuando le insuperabili aree a maggior grado di imperatività derivati dall’adozione da parte delle società dei mercati di capitali di rischio, è facile rendersi conto che ci si trova in un ambiente caratterizzato proprio da elementi e principi della funzione giuridica. La legge delega quindi riserva spazi all’autonomia negoziale per la disciplina del procedimento assembleare e dei quorum costitutivi e deliberativi, per l’articolazione degli organi amministrativi nonché per i requisiti richiesti ai soggetti che rivestono le relative funzioni.

Questo, però, non vuol dire che l’ordinamento, fornendo al sistema i propri strumenti di coercitività, si disinteressi di assicurare l’effettività delle norme determinate statutariamente.

Va inoltre sottolineato che nel caso in cui l’ordinamento giuridico statuale resta completamente estraneo, allora non offrirà la propria protezione per le violazioni delle norme del Codice di autodisciplina.

Va chiarito che la legge delega sfiducia questi Codici in quanto si tratta di atti privati che sono chiamati a regolare i rapporti tra società quotate ed investitori e facendo l’ipotesi di società che ricorrono al mercato dei capitali di rischio (tra esse rientrano anche quelle quotate), la legge delega esclude la possibilità di riservare un ambito ben definito all’autonomia negoziale imponendo invece regole inderogabili.

Considerando entrambi i predetti casi (rinvio a norme imperative e a norme derogabili), le legge delega ha ad oggetto ambiti in cui la forza negoziale, tra i partecipanti alla realizzazione delle regole statutarie, sia sbilanciata a favore delle maggioranze di controllo[198].

I Codici di autodisciplina, come il “Codice Preda”, di conseguenza riguardano le relazioni intercorrenti tra società quotate grandi o grandissime che ripongono i loro interessi non soltanto sugli stock option o sugli altri azionisti deboli, ma anche sui fondi pensione o altri investimenti istituzionali che molto spesso superano le capacità negoziali e la potenza delle stesse società su cui investono. In questo caso, essendo movimenti di migliaia di miliardi, decidendo di uscire dai titoli di una società si genererebbe una crisi nell’andamento della quotazione che andrà ad incidere gravemente nei rapporti con le banche e gli altri finanziatori fino a culminare nella instabilità del management e degli stessi azionisti di maggioranza.

Appare allora evidente che il Codice di autodisciplina si inserisce in questo ambito, anche se sprovvisto di forza giuridica, svolgendo una funzione effettiva in quanto un “sell” di un grande investitore può essere molto più pericoloso in termini economici di una decisione del Tribunale[199].

L’esame del comportamento degli investitori istituzionali può essere di aiuto per comprendere il buon funzionamento di questi sistemi. Infatti i codici di comportamento mirano ad assistere gli investitori istituzionali in modo che prestino attenzione alla loro effettiva applicazione da parte della società e in caso di violazioni possano operare nella direzione della conclusione dell’investimento o intervenire nelle assemblee per impedire o sanzionare le relative trasgressioni.

Questo discorso potrebbe far pensare che nei casi di investimento a breve termine i fondi non diano applicazione ai codici, invece proprio in questo ambito va compreso e analizzato se una società in cui il fondo investe sia soggetta a modifiche incostanti dell’oggetto sociale in quanto si potrebbe arrivare avere una conformazione diversa rispetto alle compagnie sociali in cui era stato deciso di investire.

In questi casi del resto un’uscita di massa potrebbe avere un impatto catastrofico sia per i fondi sia per il mercato finanziario, invece l’adozione dei codici permette l’intervento attivo in assemblea o le azioni di persuasione sugli amministratori.

Gli investitori istituzionali allora da organismi preposti esclusivamente ad assumere decisioni di acquisto e di vendita di partecipazioni in società controllate da gruppi di riferimento consolidati e difficilmente contrastabili, hanno assunto l’importante funzione di controllo sulla gestione aziendale delle società partecipate con l’obiettivo di massimizzare il ritorno dell’investimento.

Perciò, diventa più agevole il ricorso alle forme di tutela diretta predisposte dal legislatore invece dell’adozione unicamente di forme di tutela indiretta come ad esempio la dismissione di azioni sul mercato.

In questo modo, gli investitori istituzionali devono restare costantemente vigili e utilizzare tutti gli strumenti utili per incrementare il valore delle partecipazioni di qualsiasi entità. Per far questo non dovranno rinunciare all’intervento in assemblea per esercitare il diritto di voto e del potere di richiedere convocazioni di assemblee[200].

Va sottolineato che gli investitori istituzionali, a differenza dei risparmiatori (persone fisiche), non può decidere indiscriminatamente se esercitare o meno i poteri predisposti dall’ordinamento in base a valutazioni arbitrarie.

Un esempio particolare è quello in cui l’investitore istituzionale sia rappresentato da una società che opera per conto proprio. In questo caso, la non giustificata rinuncia all’esercizio degli strumenti di tutela a disposizione può essere fonte di responsabilità degli amministratori nei confronti dell’ente o della società medesima.

In base agli artt. 21 e 40 del T.U.F.[201], nel caso in cui l’investitore istituzionale operi per conto terzi vige l’obbligo di valutare sulla base di un giudizio fondato su discrezionalità tecnica, l’opportunità di ricorrere alle forme di tutela disponibili.

Questo sta a significare che l’investitore nella sua qualifica di intermediario deve comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e dei partecipanti ai fondi.

Una violazione di tali obblighi da luogo a responsabilità nei confronti dei clienti o dei partecipanti al fondo che si sono affidati all’investitore istituzionale e di conseguenza genera responsabilità degli amministratori verso lo stesso investitore istituzionale.

4. Strumenti partecipativi

a) Il potere di indire l’assemblea e di integrare l’ordine del giorno.

I soci che, anche congiuntamente, rappresentino almeno un quarantesimo del capitale sociale possono chiedere, entro cinque giorni dalla pubblicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea, l’integrazione dell’elenco delle materie da trattare, indicando nella domanda gli ulteriori argomenti da essi proposti.

Delle integrazioni all’elenco delle materie che l’assemblea dovrà trattare a seguito delle richieste ai sensi dell’art. 126-bis, co. 1, è data notizia, nelle stesse forme prescritte per la pubblicazione dell’avviso di convocazione, almeno dieci giorni prima di quello fissato per l’assemblea.

L’integrazione dell’elenco delle materie da trattare, ai sensi dell’art. 126-bis, co. 1, non è ammessa per gli argomenti “sui quali l’assemblea delibera, a norma di legge, su proposta degli amministratori o sulla base di un progetto o di una relazione da essi predisposta[202].

Obblighi di disclosure più stringenti sono posti a carico dei componenti del consiglio di amministrazione che secondo quanto stabilito dal novellato art. 2409-septiesdecies, c.c. al momento della nomina dei e prima dell’accettazione dell’incarico, devono rendere noti all’assemblea gli incarichi di amministrazione e di controllo da essi ricoperti presso altre società.

La stessa trasparenza peraltro è imposta dal novellato art. 2400 c.c. anche ai componenti del collegio sindacale che al momento della nomina e prima dell’accettazione dell’incarico, devono render noti all’assemblea gli incarichi di amministrazione e di controllo ricoperti presso altre società.

La norma nella sostanza non fa che diminuire la percentuale richiesta alle minoranze per fare trattare alcune questioni dall’assemblea[203], posto che anche prima si riteneva che se la minoranza poteva chiedere la convocazione dell’assemblea essa poteva a maggior ragione fare inserire un argomento nell’ordine del giorno dell’assemblea già convocata.

La disposizione resta comunque poco incisiva, poiché anche qui si ripete che l’integrazione dell’elenco non è ammessa per quegli argomenti per i quali “l’assemblea delibera, a norma di legge, su proposta degli amministratori o sulla base di un progetto o di una relazione da essi predisposta” (art. 126-bis), cioè quasi per tutti.

L’ultima modifica apportata dalla nuova legge è quella dell’art. 139, 1 co. T.U.F., nel quale, con riferimento alla raccolta delle deleghe di voto, il committente deve possedere azioni che gli consentano l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea per la quale è richiesta la delega in misura almeno pari all’uno per cento del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto nella stessa[204]. La Consob stabilisce[205] per le società a elevata capitalizzazione e ad azionariato particolarmente diffuso percentuali di capitale inferiori all’1%[206].

Si tratta comunque, come è evidente, di interventi di dettaglio che non stravolgono nella sostanza la disciplina previgente.

b) strumenti di partecipazione indirette: la sollecitazione delle deleghe.

Nella disciplina societaria si riflette, la rilevanza degli interessi e delle regole volte a disciplinare l’organizzazione degli investitori istituzionali più adeguata a perseguire un determinato scopo e di conseguenza a condizionarne il relativo comportamento.

Una precisazione però deve essere fatta: si è ritenuto che gli investitori istituzionali siano tutti quei soggetti che investono professionalmente denaro per conto terzi.

Questa scelta trova la sua spiegazione nel percorso seguito che ha permesso di individuare nei diversi operatori qui tratti comuni che permettono di raggrupparli in un’unica categoria. Inoltre si è pervenuti alla distinzione tra gestione individuale e collettiva in cui si è evidenziato che la titolarità degli strumenti finanziari acquisiti nella gestione collettiva spetta al gestore. Per cui il socio-investitore istituzionale non potrà che essere il gestore del risparmio collettivo legittimato ad esercitare i diritti di voto inerenti alle azioni di pertinenza dei fondi gestiti e nel caso specifico delle Sicav, della stessa società.

Questi sono degli azionisti necessariamente di minoranza, in quanto, per imporre la diversificazione del portafoglio e di tutelare il risparmiatore ed evitare coinvolgimenti nell’attività di gestione della società partecipata, sono stati imposti ai fondi mobiliari, alle Sicav e ai fondi pensione, diversificati divieti e limiti agli investimenti[207] e, nel caso in cui vi siano investimenti in azioni quotate con diritto di voto, alla opportunità di acquisire partecipazioni di rilevanza e di controllo[208]. È presente, in sostanza, non soltanto una restrizione nel diritto di voto che il fondo può possedere, ma anche una preclusione al possesso di un ammontare tale da consentire una influenza dominante[209].

Quanto detto consente di valutare le conseguenze che il ruolo svolto nel mercato dagli investitori istituzionali genera nella sfera dell’assetto degli interessi societari. Il discorso ruota tutto intorno al rapporto tra investitori istituzionali e soci di società quotate nei mercati regolamentati.

Gli intermediari, appunto, si rivolgono maggiormente alle società quotate e l’analisi dei loro interveti in questo ambito è molto importante per evidenziare le problematiche che si generano. Questo non significa che il fenomeno della gestione del risparmio che interessa, anche, le società non quotate sia di minor interesse soprattutto alla luce della nuova riforma del diritto societario che è rivolta a favorire lo sviluppo delle partecipazioni degli investitori istituzionali nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio[210].

In generale, tutti gli azionisti (imprenditori, risparmiatori, speculatori, ecc.)[211] sono portatori di un interesse comune ovvero quello di valorizzare il proprio investimento[212].

Partendo dalla considerazione che tutti coloro che investono in quote di società hanno la tendenza a “massimizzare” il valore del loro investimento, possiamo arrivare alla conclusione che nel linguaggio economico il termine “massimizzare” appunto assume un diverso significato in base al tipo di investitore preso in considerazione.

Più nello specifico, andando a prendere ad esempio le minoranze, il singolo risparmiatore che si presenta come un azionista individuale che non è interessato alla gestione[213], in questo caso il termine massimizzare significa accrescere il valore originariamente investito nella singola società e di conseguenza incrementare il valore patrimoniale della partecipazione[214]. Prendendo in considerazione invece il caso dell’investitore istituzionale il massimizzare significa in primo luogo accrescere il valore del complesso dell’attività gestita[215] e in secondo luogo arrivare ad un risultato nel suo complesso positivo sfruttando la competitività dell’intero sistema[216] e l’efficienza del mercato.

In questo quadro di insieme appena delineato, va rilevato l’interesse dei soggetti che affidano la gestione del proprio risparmio agli investitori istituzionali con la sottoscrizione del contratto di gestione. In ultima analisi l’investitore istituzionale risulterà essere il soggetto che apporta il capitale alle imprese e sul quale ricadrà il rischio.

In altre parole l’interesse del terzo risparmiatore è quello di massimizzare il valore dell’investimento adottando un sistema di gestione a rischio inferiore rispetto al caso in cui gestiste l’investimento per conto proprio. La diversificazione del portafoglio effettuata dagli investitori istituzionali soddisfa questo interesse[217]. In questo ambito si profila un cambiamento delle modalità con cui il soggetto che apporta il capitale di rischio all’impresa, percepisce gli utili prodotti dalla stessa.

Gli intermediari allora si collocano in questo settore e provvedono a gestire le sottoscrizioni e i risparmi e a produrre un reddito permettendo ai soggetti che apportano capitale di allontanarsi sempre di più dalla società singolarmente individuata e dall’utilizzo delle cedole[218].

Tutto questo per chiarire la posizione dell’azionista investitore che partecipa alla singola società per proteggere il valore dell’investimento effettuato che viene considerato nel suo complesso e non con esclusiva attenzione alla singola società.

In quest’ottica cambia la prospettiva dalla quale si osserva la partecipazione ad una società da parte di alcune minoranze e dalla quale occorre analizzare l’attività di supervisione e orientamento che è finalizzata a tutelare l’interesse ad investire[219]. La riforma societaria ha permesso la trasformazione delle società per azioni quotate da società a struttura proprietaria accentrata a società a struttura proprietaria diffusa (o anche azionariato diffuso)[220] e quest’ultime in società di investimento[221].

L’investitore istituzionale quindi diventa il “catalizzatore” del risparmio diffuso ovvero colui che media il rapporto tra il fornitore del capitale di rischio e la società in cui egli stesso decide di investire. Perciò, l’azionista passa da uti socius ad investitore cancellando la contrapposizione tra socio imprenditore e socio risparmiatore, andandosi ad accentuare quella tra investitore diretto e investitore mediato[222].

Quindi, le azioni che vengono acquistate dagli investitori istituzionali, gestori del risparmio a loro affidato da terzi, non rappresentano più lo strumento di partecipazione alla gestione societaria[223], ma divengono strumenti dell’attività di investimento nel suo complesso[224].

L’azione, perciò, rappresenta lo strumento di mercato che consente “all’emittente di raccogliere la ricchezza e al prenditore di investire ricchezza”. Conseguentemente, “la ricchezza immobilizzata nei beni di primo grado che fanno capo all’emittente, diventa liquidabile nei beni di secondo grado che fanno capo all’azionista[225].

In tal senso le azioni possono essere considerate beni[226] di “secondo grado perché rappresentative di diritti relativi a beni che pur sempre economicamente appartengono, attraverso la collettività di cui è parte, al titolare delle azioni stesse[227]. Da questa definizione deriva che esse sintetizzano un sistema in cui l’appartenenza dei beni che sono destinati all’esercizio dell’attività comune, spetta al socio in quanto destinatario dei benefici economici derivanti da tale attività anche se la loro gestione spetta alla collettività dei soci[228]. Pertanto l’azione dovrà soddisfare l’interesse del socio nella partecipazione ad una determinata iniziativa economica ad essa legata.

Tuttavia appare evidente che l’azione che appartiene ad un soggetto a cui è stato messo a disposizione del denaro di altri, non soddisfa più l’interesse a partecipare a quella specifica iniziativa economica che è interesse comune alla collettività dei soci di quella società, ma deve soddisfare l’interesse di valorizzazione di tutto il complesso dell’attività gestoria[229]. In definitiva si arriva a considerare l’azione come un bene di terzo grado nel senso che “l’interesse del socio cliente di una gestione non si puntualizza sul singolo titolo come tale, ma al massimo sul comparto economico al quale il titolo appartiene, e comunque sempre in funzione dei risultati del complesso dell’attività gestoria svolta con il complesso dei titoli, titoli i quali spesso il cliente analiticamente non conosce[230].

Nell’analisi dei comportamenti che gli investitori istituzionali possono tendenzialmente assumere va tenuto presente che se lo scopo dei soggetti che investono è quello di massimizzare il valore dei propri investimenti allora anche all’interno della società questo scopo è comune a tutti gli azionisti e può spingere i soci a collaborare per ottenere che gli amministratori perseguano lo stesso fine. Sul mercato invece ognuno ottiene la massimizzazione del proprio investimento se è in grado di muoversi meglio e più velocemente degli altri. Gli stessi azionisti potranno essere coalizzati nel governo societario e in competizione nel mercato dei capitali[231].

Valutando il punto di vista societario, la massimizzazione del valore degli investimenti sta a significare sostanzialmente il controllo e l’indirizzamento degli amministratori verso gli interessi degli investitori e non personali o di terzi[232]. È di fondamentale importanza perciò l’acquisizione e la condivisione tra gli azionisti della informazioni proprio al fine di operare congiuntamente attraverso l’esercizio del diritto di voto, l’utilizzo delle deleghe e il dialogo diretto con gli amministratori.

Dal punto di vista del mercato, invece, la massimizzazione del valore degli investimenti prende il significato di scambio degli strumenti finanziari ogni qual volta esista qualcuno che li valuti diversamente. Insorge però un problema di competizione tra gli investitori che partecipano al mercato derivante dalla tendenza ad acquisire quante più informazioni possibili sulle società nell’acquisto e nella vendita delle azioni senza però divulgarle a terzi[233]. Perciò se il fine è quello di massimizzare gli investimenti trova rilievo l’acquisto di informazione e il loro relativo utilizzo. Infatti, nel momento in cui l’investitore le acquisisce potrà sia condividerle con gli altri azionisti agendo di concerto con loro per l’azione di incremento dell’investimento (esercizio della voice) sia mettere in atto manovre speculative di arbitraggio in cui il dato fondamentale è proprio la completa ignoranza di informazioni da parte degli altri investitori[234].

L’investitore, allora, dovrà valutare se sia più conveniente esercitare un ruolo nel governo societario, limitandosi ad esercitarlo esclusivamente sul mercato, oppure tentare di conciliare le due posizioni ed operare su entrambi i piani.

Il condividere le informazioni porta ed è anche il presupposto della collaborazione tra investitori e una divisione della spesa per il monitoraggio tra gli azionisti coalizzati. In tal modo sarà possibile esercitare una profonda influenza sulla politica di gestione sia in modo diretto, attraverso al negoziazione di alcune scelte e il dialogo con gli amministratori, sia indirettamente, tramite l’esercizio del diritto di voto[235].

Il non condividere le informazioni conduce, invece, all’opposta scelta di porsi in competizione con gli altri azionisti e cercare di massimizzare il proprio profitto prima e meglio degli altri.

Il T.U.F., imponendo l’obbligo di diffusione delle informazioni in modo continuo, consente di ovviare al problema del costo d’acquisto delle stesse, anche se non orienta ancora la scelta fra il condividere o meno le informazioni.

Pertanto, è opportuno osservare se gli investitori siano adeguatamente incentivati ad assumere un ruolo più attivo, acquistando ulteriori informazioni sia al fine di collaborare sul piano societario sia per competere sul mercato, o, invece, preferiscano rimettersi alle dinamiche di mercato, quali indicatori del valore delle azioni[236], e in particolare alle dinamiche del mercato del controllo, quali strumenti in grado di monitorare e tenere sotto controllo i managers[237].

5. Strumenti di monitoraggio

a) Le minoranze e l’organo amministrativo.

Le norme relative alla facoltà di nominare un proprio rappresentante negli organi sociali attribuiscono particolari poteri alle minoranze e consentono fare alcune considerazioni circa l’influenza che esse producono sull’assetto organizzativo della società per azioni e sulla distribuzione del potere sociale.

L’art. 1 del D.Lgs. 58/98 prevede l’introduzione di una nuova norma, l’art. 135-bis, nel TUF. Il comma 1 della norma ha lo scopo di assicurare la presenza di un rappresentante della minoranza, ovvero due se i membri sono più di 7, nel Consiglio di Amministrazione delle SPA quotate. La norma modifica altresì, ai co. 2 e 3, l’art. 2381 c.c., che definisce le competenze degli amministratori, attribuendo al presidente del consiglio di amministrazione un ruolo di supervisione generale della corretta gestione della società.

A questo proposito si osserva che gli amministratori eletti da una minoranza sono, per la natura del loro incarico, portatori di interessi specifici riferibili a quella minoranza e non alla generalità degli azionisti. Gli interessi di tale minoranza possono pertanto non coincidere con quelli di altre minoranze e, più in generale, con quelli degli azionisti diversi dal gruppo di controllo. Ciò è a maggior ragione vero se si considera che la percentuale di capitale sociale rappresentato da tale minoranza è estremamente esigua. Infatti, l’esperienza relativa alla nomina del sindaco di minoranza insegna che la quota minima di partecipazione del 3% del capitale sociale viene generalmente ritenuta troppo elevata.

In ogni caso tale norma andrebbe accompagnata da obblighi di comunicazione, eventualmente in capo agli stessi amministratori eletti dalla minoranza, circa l’evolversi della partecipazione detenuta dalla minoranza stessa e, nel caso la partecipazione sia nel frattempo azzerata o discesa sotto la soglia minima per presentare una lista, da norme inerenti la decadenza dell’amministratore che ha perso rappresentatività.

Occorre inoltre considerare la conflittualità che verrebbe introdotta nell’organo di gestione dalla presenza di amministratori portatori di specifici interessi diversi da quelli del gruppo di controllo e della generalità degli azionisti, nonché l’opportunità di tutelare portatori di interessi che partecipano al rischio di impresa in misura irrilevante.

In funzione di quanto sopra è da ritenere che l’indipendenza degli amministratori possa offrire la migliore garanzia della tutela degli interessi della generalità degli azionisti e quindi della società e che, conseguentemente, la nomina di amministratori indipendenti sia senz’altro preferibile all’ipotesi di nomina di amministratori eletti dalle minoranze.

Occorrerebbe quindi rendere obbligatoria la nomina di un numero adeguato di amministratori indipendenti nelle società quotate. Il numero di amministratori indipendenti potrebbe essere adeguato in funzione di parametri quali la capitalizzazione della società, il grado di diffusione dell’azionariato e la tipologia del business[238].

Si potrebbe inoltre intervenire sulla definizione di amministratori indipendenti adottando parametri più stringenti degli attuali quali la definizione di soglie di importi relativi ai rapporti di natura economica intrattenuti con la società, il cosiddetto “look back period”, la definizione di un numero massimo di cariche acquisibili, ed eventualmente l’istituzione di un elenco dei soggetti aventi requisiti professionali (valutate dall’Autorità) idonee a svolgere il ruolo di amministratori indipendenti.

A quest’ultimo proposito, va segnalato l’impegno che le imprese (emittenti ed intermediari) si sono assunte nel documento “Iniziative coordinate per il miglioramento della fiducia” di proporre una modifica del Codice di Autodisciplina per le società quotate per rendere più rigorosa la definizione dei requisiti di indipendenza e per assicurare che almeno un terzo dei componenti l’organo amministrativo sia dotato di tali requisiti. Prevedere rappresentanti delle minoranze in un organo la cui operatività deve essere snella può portare a situazioni di conflitto e, quindi, di stallo dannose per la gestione sociale.

L’unico caso in cui si giustifica la nomina di amministratori da parte delle minoranze è quello in cui la società abbia adottato il modello monistico di amministrazione e controllo, nel quale funzioni assimilabili a quelle del collegio sindacale sono svolte dal comitato per il controllo sulla gestione che, come noto, è composto da amministratori. Per assicurare la rappresentanza delle minoranze in tale organo alle minoranze può essere riconosciuto il potere di designare uno o due amministratori, i quali poi andranno a comporre l’organo di controllo. Questo meccanismo è peraltro già regolato dal D.Lgs. 58/98 che, all’art. 2, co., lett. f).

Quanto alle funzioni del presidente del consiglio di amministrazione, l’art. 2381 c.c. correttamente attribuisce a tale soggetto un compito di “regolare” le attività del consiglio, assicurandone il corretto funzionamento.

L’art. 2381, infatti, in maniera del tutto innovativa rispetto al passato, descrive ed articola i compiti dell’organo amministrativo, distinguendo il ruolo del presidente del consiglio di amministrazione da quello degli organi delegati e, infine, dalla funzione del consiglio nel suo complesso. La norma, in particolare, attribuisce a quest’ultimo organo un compito di valutare (e quindi vigilare su) l’operato degli organi delegati.

La previsione di un ruolo di supervisione generale sulla corretta gestione della società esula dai compiti che, coerentemente con lo schema descritto, devono essere attribuiti al presidente e risulta ridondante rispetto al ruolo di monitoring che la riforma del diritto societario ha attribuito all’organo amministrativo nella sua collegialità e che viene assicurato mediante la presenza nel CdA di amministratori non esecutivi, alcuni dei quali indipendenti. La proposta non tiene conto, inoltre, del fatto che il presidente del consiglio di amministrazione non dispone degli strumenti per adempiere alla funzione di supervisione generale, attribuendogli così compiti e responsabilità che travalicano quelle che dovrebbero essere le normali competenze del presidente.

Infine, non è opportuna la previsione che esclude il Presidente del Consiglio di amministrazione dalla possibilità di esercitare poteri operativi sia considerando la specificità della realtà italiana che in molti casi predilige la figura del Presidente con poteri sia, ed a maggior ragione, ove si intenda affidare allo stesso Presidente un ruolo di supervisione generale della corretta gestione. Infatti il testo proposto crea un evidente squilibrio tra le responsabilità in capo al Presidente e le leve a sua disposizione per esercitare effettivamente un ruolo di supervisione.

Con la riforma del 2003, il legislatore italiano ha aperto alle società italiane un più ampio ventaglio di possibilità sul come configurare il loro assetto organizzativo. È stata una riforma chiaramente ispirata a principi di autonomia statutaria, che ha inteso quindi trasformare l’impostazione imperativa e inderogabile del codice del 1942: l’obiettivo è quello di agevolare la raccolta dei capitali, sia di credito sia di rischio ed assicurare una pluralità di scelte in funzione delle caratteristiche e delle dimensioni delle singole realtà imprenditoriali. Al “tradizionale” modello di governo societario basato su Consiglio di Amministrazione e Collegio Sindacale, si sono affiancati due “nuovi” modelli: quello “dualistico[239] e quello “monistico[240]. È forse presto per esprimere un giudizio sulla riforma.

È però interessante notare che l’utilizzo dei modelli cosiddetti alternativi è stato finora molto ridotto[241].

Più interessante è cercare di individuare quale può essere l’interesse per una impresa privata a configurarsi secondo un modello alternativo. Qualche caso concreto potrà aiutare la riflessione. Il dualistico, ad esempio, potrebbe essere un utile strumento per il passaggio generazionale, o per gestire situazioni complesse dove società familiari siano giunte alla seconda o terza generazione, con nuclei di azionisti piuttosto ampi. Nel Consiglio di Sorveglianza siederanno gli azionisti non più coinvolti nella gestione operativa, ma interessati alle scelte strategiche e al controllo dell’attività; essi nomineranno nel Consiglio di Gestione i manager esterni o gli azionisti operativi in azienda. Viceversa il modello monistico potrebbe essere utilizzato in una fase iniziale della vita dell’impresa, dove la centralità della figura imprenditoriale richieda di essere maggiormente valorizzata pur affiancata da alcuni collaboratori e consiglieri. In verità il problema centrale, per le aziende familiari, per le piccole e medie imprese italiane non riguarda solo la forma dell’organizzazione dell’organo amministrativo, ma soprattutto la sua composizione.

Il codice di autodisciplina per le società quotate in merito alla composizione dell’organo amministrativo tende sostanzialmente a garantire tre elementi: una composizione equilibrata in termini di quantità e competenza dei consiglieri, un adeguato peso di consiglieri indipendenti (ove il concetto di indipendenza è oggetto di continue riflessioni) e una verificata disponibilità dei consiglieri a partecipare ai lavori sociali.

La recente legge sulla tutela del risparmio ha reso vincolanti alcuni di questi principi imponendo, ad esempio, la presenza di almeno un consigliere che sia eletto dalle minoranze. Sono alcuni di questi principi trasferibili nella piccola media impresa non quotata? Ha senso un simile esercizio? L’esperienza attuale mostra spesso i consigli di amministrazione delle piccole e medie imprese[242] come luoghi “virtuali”, i cui membri sono spesso esclusivamente gli azionisti o i componenti dei nuclei familiari degli imprenditori. Sono consigli che o si riuniscono solo nei verbali o si riuniscono informalmente tutte le volte che i componenti si ritrovano. Frequentemente le uniche figure “esterne” sono il commercialista, i consulenti dell’azienda, spesso coinvolti anche nella gestione del patrimonio personale dell’imprenditore.

C’è dunque un percorso da compiere: senza burocratizzare realtà eccessivamente piccole, bisogna però creare una via virtuosa, per cui, al crescere delle dimensioni, l’azienda si strutturi anche con contributi e competenze esterni alla stretta cerchia dell’imprenditore.

Le vie possono essere quelle di coinvolgere alcuni manager chiave, piuttosto che persone con esperienza dell’industry di attività. Si tratta, al crescere della complessità gestionale, di creare un contesto in cui l’imprenditore che debba affrontare un contraddittorio, sia chiamato a formalizzare e a sottoporre ad un vaglio critico le proprie decisioni, soprattutto strategiche.

Peraltro un simile percorso non potrà che innalzare la cultura aziendale anche in una prospettiva futura di apertura del capitale, passo inevitabile per la crescita dimensionale.

b) L’amministratore di minoranza

Una prima disposizione concerne il voto di lista che consente la presenza nel consiglio di amministrazione di un amministratore e nel consiglio sindacale di un sindaco che sia espressione dalla minoranza degli azionisti. Questa disposizione è prevista ai sensi dell’art. 4 della l. 30 luglio 1994, n. 494, per le società privatizzate (con limiti di possesso azionario) anche se rappresenta ormai un elemento fondamentale nell’ottica delle società quotate in quanto la maggior parte delle società privatizzate sono quotate in borsa. Per tutte le altre non privatizzate a tutt’oggi è assente una espressa previsione normativa per la gestione degli amministratori delle minoranze[243] e questo rende possibile la loro nomina statutaria con i relativi problemi che insorgono[244].

L’art. 4 della l. 474/1994 non attribuisce la facoltà di presentare liste a qualsiasi socio. Infatti, oltre agli amministratori uscenti solamente i soci (rappresentanti l’1% del capitale sociale) sono legittimati a tale presentazione. È evidente, quindi, che gli azionisti di minoranza si coalizzino e si accordino tra loro per eleggere un proprio rappresentante in seno al consiglio di amministrazione[245].

È, senza dubbio, chiaro che questo strumento consente alle minoranze qualificate di partecipare alla elezione dei vertici esecutivi e rappresenta, perciò, il mezzo attraverso il quale svolgere una funzione di controllo sui soggetti investiti delle cariche amministrative eletti dalla maggioranza.

Avallando la presenza delle minoranze nella composizione dell’organico di gestione viene permesso a queste di influire sulle politiche di gestione con la conseguenza inevitabile di un mutamento nei meccanismi di regolazione dell’organizzazione della società[246].

Il sistema di elezione degli amministratori previsto dalla legge sulle privatizzazioni che utilizza il voto di lista mettendo l’accento sul metodo proporzionale piuttosto che su quello maggioritario, nel momento in cui riserva alla minoranza almeno un quinto degli amministratori diminuisce inevitabilmente il potere della maggioranza assembleare di nominare tutti gli amministratori. Anche se la legge non prevede questo specifico meccanismo[247] per la nomina del quinto di amministratori, il più diffuso sistema è quello che prevede che ogni lista contenga un numero di candidati minore del numero previsto di amministratori: le c.d. lista bloccate. Così, dopo la lista di maggioranza, dalla quale risultano eletti tutti i candidati, il resto dei posti è attribuito alla lista che ha ottenuto il maggior numero dei voti[248].

Attraverso questo sistema, se da un lato si favorisce sicuramente la prospettiva di coabitazione nell’organo di gestione delle diverse componenti della compagnia sociale, dall’altro, tuttavia, si incentiva soprattutto l’aggregazione di minoranze qualificate ed organizzate sia al fine di raggiungere la quota di possesso necessaria per la presentazione delle liste, sia per ottenere il numero di voti necessari per eleggere i membri della propria lista.

c) L’azione sociale di responsabilità da parte delle minoranze

Con riferimento all’azione sociale di responsabilità, va ricordato che il legislatore ha abbassato la percentuale di capitale minimo richiesta per la promozione dell’azione da parte di una minoranza dei soci nelle società che fanno ricorso al mercato di capitale di rischio, portandola al 2,5 % del capitale sociale.

Il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere un ulteriore tipo di azione sociale di responsabilità esercitabile dalle minoranze dei soci, azione peraltro già sperimentata per le società quotate e prevista dall’art. 129 del TUF ed estendendo quindi le relative norme dalle società quotate a tutte le società per azioni, introduce regole in ordine ai soggetti legittimati, alle modalità di esercizio dell’azione ed all’efficacia della stessa.

In particolare, il 1° co. del nuovo art. 2393 bis c.c. stabilisce che l’azione possa essere esercitata dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale, o la quota diversamente prevista dallo statuto societario, purché non superiore al terzo del capitale. E, per le società “aperte” al mercato del capitale di rischio[249], il 2° co. prevede che l’azione possa essere esercitata dai soci che rappresentino almeno un ventesimo del capitale sociale, o la diversa misura prevista dallo statuto.

Inoltre, il 3° e il 4° co. dispongono che la minoranza che decida di intentare un’azione di responsabilità debba chiamare in giudizio la società, notificando l’atto di citazione anche al presidente del collegio sindacale, e sia tenuta a nominare, a maggioranza, uno o più rappresentanti comuni per compiere gli atti necessari all’esercizio dell’azione.

Infine, il 5° co. detta il regime delle spese processuali e il 6° co. chiarisce come spetti alla società ogni vantaggio conseguito, anche in virtù di transazione, dalla minoranza attrice.

Così delineati i tratti fondamentali della disciplina di diritto positivo, è possibile definire la natura dell’azione appena descritta.

Si tratta di una azione esercitata dai soci di minoranza in nome proprio ma nell’interesse della società, di cui viene fatto valere il diritto ad essere risarcita del danno ad essa cagionato dai suoi amministratori. In altri termini, i soci agiscono come sostituti processuali della società, come consentito, in presenza di una espressa previsione legislativa, dall’art. 81 c.p.c.[250].

Questa caratteristica fa sì che l’utilità tratta dall’azione giudiziaria debba essere riconosciuta in capo alla società, titolare del diritto, e non in capo ai soci promotori, che potranno beneficiare del buon esito della causa solo indirettamente, per la semplice ragione di concorrere a comporre la compagine sociale[251].

Per quanto riguarda l’azione sociale deliberata dall’assemblea come per quella promossa dai soci di minoranza, le disposizioni in precedenza riassunte si applicano, in forza della norma di rinvio contenuta nel 3° co. dell’art. 2407 c.c., non solo all’azione di responsabilità contro gli amministratori ma anche, se compatibili, all’azione di responsabilità contro i sindaci[252].

Esse costituiscono poi, con le deroghe di cui alla disciplina speciale dettata dagli artt. 2409 decies e 2409 terdecies c.c., le norme di riferimento per l’azione sociale di responsabilità nelle società per azioni che abbiano adottato il modello dualistico, dove l’amministrazione è affidata al consiglio di gestione e il controllo, insieme a competenze normalmente attribuite all’assemblea dei soci e a funzioni di “alta amministrazione”, al consiglio di sorveglianza[253].

Sembrerebbe invece necessario separare la disciplina sull’azione di responsabilità nelle società per azioni da quella prevista all’art. 2476 c.c. con riferimento alle società a responsabilità limitata[254]. In proposito, va infatti osservato che la nuova disciplina della società a responsabilità limitata pare essere stata concepita dal legislatore come tipo normativo profondamente diverso da quello che contraddistingue le società per azioni, sicché il mancato richiamo, in tema di responsabilità degli amministratori, delle norme in tema di società per azioni, dovrebbe escludere, in linea di principio, l’estensione alla società a responsabilità limitata delle regole affermate per le società per azioni[255]. Esulano inoltre dal campo di applicazione degli artt. 2393 e 2393 bis le azioni che trovino il loro fondamento in atti che non costituiscano estrinsecazione diretta delle specifiche attribuzioni dell’amministratore, ancorché da queste occasionati od agevolati, ed integrino invece una responsabilità extracontrattuale dell’amministratore nei confronti della società[256].

Problematica, poi, è la questione dei danni cagionati alla società da amministratori di fatto. Se la responsabilità di questi ultimi viene ricostruita in chiave extracontrattuale, essendo mancata una valida nomina alla carica amministrativa, sembra doversi coerentemente ritenere che essi siano sottoposti alla ordinaria azione di danni da fatto illecito ex art. 2043 c.c., ma appare altrettanto logico prescindere dall’esistenza di una formale investitura ed unificare sotto la stessa disciplina la posizione di tutti coloro i quali esercitino in modo continuativo e significativo le funzioni amministrative[257].

Riguardo alla legittimazione dei soci rappresentativi di una percentuale significativa, anche se non maggioritaria, delle azioni, il 1° e il 2° co. del nuovo art. 2393 bis c.c. stabiliscono che essa è attribuita ai soci titolari di almeno un quinto del capitale sociale o, nelle società “aperte”, che ricorrano al mercato del capitale di rischio, titolari di almeno un ventesimo dello stesso.

Tali quorum, che il legislatore delegato ha ritenuto congrui allo scopo, indicato dall’art. 4, 2° co., lett. a), n. 2 della legge delega, di evitare situazioni di eccessiva conflittualità, possono essere modificati statutariamente.

Per le società “chiuse”, il 1° co. dell’art. 2393 bis c.c. dispone che lo statuto può abbassare o elevare la percentuale richiesta. Ma comunque, soggiunge la norma, la soglia che i soci di minoranza debbono raggiungere per poter esercitare l’azione non può superare il terzo del capitale sociale.

Per le società “aperte”, invece, il 2° co. dell’art. 2393 bis c.c. detta la regola secondo cui la percentuale può essere ridotta, ma non elevata[258].

In questo modo, dunque, la legittimazione di una minoranza di soci ad esercitare l’azione sociale di responsabilità è stata estesa dal campo delle società per azioni quotate in mercati regolamentati, dove era già prevista dall’art. 129 T.U.F., a tutte le società per azioni.

La disciplina dell’art. 129 T.U.F., pur simile a quella dettata per l’azione di minoranza ex art. 2393 bis c.c. ed in particolare all’azione di minoranza nelle società aperte, non è peraltro identica a quella introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003.

Così, ad esempio, per le società con azioni quotate, a differenza che per le altre società per azioni, l’art. 129 T.U.F. richiede, ai fini del calcolo della quota rappresentata dalla minoranza, che gli azionisti siano iscritti da almeno sei mesi nel libro dei soci.

Tale requisito era stato pensato con lo scopo di scoraggiare l’acquisto azionario operato a fini di disturbo o speculativi, che in astratto potrebbero essere perseguiti anche in altri tipi di società. Ma il legislatore della riforma ha verosimilmente ritenuto che nelle società non quotate la situazione descritta difficilmente si verifica ed ha pertanto deciso di non richiedere, all’art. 2373 bis c.c., l’iscrizione nel libro dei soci da almeno sei mesi quale requisito ulteriore di legittimazione[259].

Queste differenze avrebbero potuto suscitare alcune complicazioni, dal momento che, con ogni probabilità, la disciplina dettata dall’art. 129 T.U.F. sarebbe stata considerata speciale rispetto a quella di cui all’art. 2373 bis c.c., con la conseguenza di dover distinguere tra una azione sociale di minoranza per le società quotate, che avrebbe continuato ad essere disciplinata dall’art. 129 T.U.F., e una azione sociale di minoranza per le società non quotate, che sarebbe ricaduta sotto la sfera di applicazione del codice civile.

Ma il Decreto di coordinamento e modifica, abrogando espressamente l’art. 129 T.U.F., ha troncato sul sorgere la questione, sicché ora l’azione di responsabilità esercitata dai soci di minoranza nelle società quotate risulta assorbita dalla nuova regolamentazione di cui all’art. 2373 bis c.c.

Ne deriva, tra l’altro, che, nelle società quotate, il requisito dell’iscrizione da almeno sei mesi nel libro dei soci non costituisce più un requisito dell’azione. Del resto, tale previsione era stata criticata, perché se da un lato risultava utile per escludere la legittimazione dell’investitore di breve periodo, non di rado identificabile in speculatori animati da meri fini di disturbo, dall’altro lato l’obbligo di detenere le azioni per un periodo consistente rischiava di allontanare anche gli investitori istituzionali, animati da obiettivi di medio e lungo periodo, per i quali avrebbe potuto essere preferibile cedere la partecipazione piuttosto che attendere il decorso dei sei mesi dopo i quali diventava possibile contrastare le scelte del management esercitando (o minacciando) l’azione di responsabilità[260].

Bisogna infine soffermarsi sul problema dei riflessi irradiati, sull’esercizio dell’azione di responsabilità da parte dei soci di minoranza, dalla circostanza che la società abbia precedentemente proposto l’azione contro gli amministratori.

In linea di principio, se la società ha già proposto l’azione di responsabilità, i soci di minoranza, che agiscono in nome proprio ma nell’interesse della società, per far valere un diritto di quest’ultima, non possono a loro volta agire in giudizio.

Diversamente, la medesima pretesa al risarcimento dei danni in favore della società verrebbe esercitata due volte.

Tale affermazione necessita tuttavia di due precisazioni.

In primo luogo, occorre rilevare che l’assemblea dei soci, nel deliberare l’azione, o comunque la società, nell’esercitarla[261], possono aver trascurato o escluso alcuni fatti dal novero di quelli astrattamente imputabili agli amministratori. Se così avvenisse, nulla sembrerebbe vietare ai soci di minoranza di sostituirsi alla società nel chiedere all’autorità giudiziaria la condanna degli amministratori per i fatti non allegati nell’azione promossa dall’assemblea[262]. Né, qualora l’assemblea abbia limitato l’azione a solo alcuni tra gli amministratori e sindaci, potrebbe essere impedito ai soci di minoranza di citare i soggetti contro i quali la società non abbia intentato causa.

In secondo luogo, poi, non può considerarsi impedito ai soci di minoranza di intervenire, per il tramite del proprio o dei propri rappresentanti comuni, nel procedimento iniziato dalla società contro i suoi amministratori[263]. Deve pertanto ritenersi consentito ai soci di minoranza di ingerirsi nella conduzione processuale dell’azione di responsabilità, salvi i limiti derivanti dall’operare dalle preclusioni dettate dalla legge all’intervento e alle attività che possono essere svolte dagli interventori.

Come meglio si vedrà successivamente, benché, nel caso in esame, i soci intervenienti non possano ritenersi propriamente terzi rispetto alla società, la loro posizione dovrà essere assimilata a quella dei soggetti intervenienti in via adesiva autonoma, quando siano state proposte nuove domande, o in via adesiva dipendente, quando si sia semplicemente chiesto l’accoglimento delle domande proposte da una delle parti originarie, ai sensi, rispettivamente, del 1° o del 2° co. dell’art. 105 c.p.c. Nell’ipotesi di intervento adesivo autonomo, opererà la disciplina di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 5 del 2003, secondo cui l’intervento non può aver luogo dopo la scadenza del termine previsto per la notifica da parte del convenuto della comparsa di risposta; mentre nell’ipotesi dell’intervento adesivo dipendente si applicherà l’art. 15 del medesimo decreto, che permette di intervenire per tutto il corso del procedimento senza poter più compiere atti che, al momento dell’intervento, non sono più consentiti alle parti originarie, ma con il diritto di ottenere la rimessione in termini qualora sia ritenuta fondata la deduzione del dolo o della collusione a danno del soggetto interveniente e in ogni caso con il diritto di impugnare la sentenza[264].

Nel caso di mutata consistenza della quota che, rappresentando la maggioranza sociale, ha deliberato l’azione ordinaria di responsabilità, la causa contro gli amministratori (esercitata non dai singoli soci di maggioranza ma dalla società, tramite il suo legale rappresentante o un curatore speciale) ovviamente continua.

Più delicata è la questione del venir meno dei requisiti di legittimazione quando l’azione di responsabilità sia esercitata dai soci di minoranza.

L’art. 2373 bis c.c., come pure, in precedenza, l’art. 129 T.U.F., nulla dice per il caso di perdita della titolarità delle azioni, o della percentuale richiesta, nel corso del giudizio, né stabilisce qualcosa per il caso analogo in cui uno o più soci necessari per raggiungere il quorum rinuncino, in corso di causa, all’azione.

Secondo una classica impostazione, la lacuna normativa va risolta osservando che il fatto di rappresentare una determinata quantità del capitale sociale costituisce, ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità, una condizione dell’azione, relativa alla sussistenza della legittimazione ad agire, e non un mero presupposto processuale[265]. Poiché costituisce insegnamento consolidato quello secondo cui per i presupposti processuali è sufficiente riscontrare la loro esistenza al momento della notificazione dell’atto di citazione, mentre le condizioni dell’azione debbono perdurare lungo tutto il corso del giudizio, partendo dai presupposti enunciati sembrerebbe doversi concludere che, in ogni ipotesi in cui venga meno la percentuale richiesta per l’esercizio dell’azione di responsabilità, si dissolve la possibilità di pervenire alla sentenza di merito e deve essere invece dichiarata, con una sentenza processuale, l’intervenuta carenza di legittimazione attiva[266].

In realtà, però, sembra maggiormente corretto ritenere che la titolarità della quota richiesta dalla legge o dallo statuto per l’esercizio dell’azione debba aversi al momento della proposizione della domanda, restando irrilevante la sua perdita nelle more del procedimento.

In proposito, sembra possibile rilevare come, in tema di impugnazione di delibere assembleari, il legislatore della riforma abbia sentito l’esigenza di precisare, al 2° co. del nuovo art. 2378 c.c., che la quota dell’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso nel capitale del rischio e del cinque per cento nelle altre, detenuta dal socio o dai soci impugnanti, deve essere mantenuta per tutto il corso del procedimento.

Se ne dovrebbe dunque dedurre, a contrario, che, nulla essendo stato stabilito all’art. 2393 bis c.c., per la procedibilità dell’azione sociale di responsabilità esercitata dalla minoranza non occorre conservare le quote possedute all’inizio. In altri termini, una volta notificato l’atto introduttivo del giudizio, il procedimento continua sino alla pronuncia della sentenza nel merito anche se la percentuale dei soci promotori dell’azione di minoranza scende sotto il limite fissato dal D.Lgs. n. 6 del 2003.

Del resto, a ritenere diversamente, si correrebbe il rischio che l’assemblea, o gli stessi amministratori, quando gli sia stato conferito ex art. 2441 c.c. il relativo potere, deliberino ed eseguano aumenti di capitale volti a diluire la quota dei soci di minoranza che abbiano agito in giudizio, paralizzando così l’azione di responsabilità.

Inoltre, sempre per bloccare l’azione di responsabilità, uno o più soci promotori potrebbero essere sollecitati a cedere le loro quote in cambio di condizioni per loro vantaggiose. Ma in tal modo il corrispettivo per l’effetto sostanziale di rinuncia o transazione conseguente alla cessione delle partecipazioni al capitale sociale andrebbe a vantaggio dei soci che abbiano ceduto le proprie quote e non, come prescrive il 6° co. dell’art. 2393 bis c.c., a vantaggio della società.

Questi rischi, peraltro, possono essere attenuati ma non scongiurati. Come si dirà più approfonditamente in seguito, la società conserva infatti, ai sensi dell’art. 2393 c.c., 5° e 7° co., il potere di rinunciare all’azione o di transigere, a meno che i soci rappresentanti una percentuale del capitale sociale pari a quella necessaria per promuovere l’azione sociale di minoranza si opponga.

Ciò comporta che la perdita in corso di causa della quota richiesta per l’esercizio dell’azione ex art. 2393 bis c.c., per quanto irrilevante ai fini della prosecuzione del giudizio, possa, in prospettiva, dimostrarsi fatale: nulla impedisce che l’assemblea, grazie alle nuove ripartizioni del capitale sociale venutesi a determinare, deliberi, senza che la minoranza abbia i numeri per impedirlo, la rinuncia o transazione al diritto al risarcimento del danno cagionato dagli amministratori, ponendo così termine all’azione di responsabilità intentata ai sensi dell’art. 2393 bis c.c.

6. Le minoranze e l’organo di controllo

a) Elezione del sindaco di minoranza

Con riferimento alla disciplina del collegio sindacale, la novità più rilevante della legge risparmio attiene alla fissazione in termini normativi della individuazione di un rappresentante espressione della minoranza nell’ambito del collegio sindacale.

Già il Testo Unico della Finanza rimetteva allo statuto l’individuazione di clausole idonee ad assicurare l’elezione di un membro dell’organo di controllo da parte delle minoranze. Le modifiche apportate all’art. 148 TUF da parte della legge risparmio hanno mantenuto questa impostazione. Al fine di garantire una maggiore effettività al meccanismo di nomina delle minoranze, il legislatore ha però rimesso al potere regolamentare della Consob la precisa individuazione delle modalità attraverso le quali garantire l’elezione di un membro effettivo da parte dei soci di minoranza[267].

A questo quadro, già in origine tracciato dalla legge risparmio, il decreto correttivo ha poi aggiunto che l’elezione del membro effettivo del collegio, espressione delle minoranza, deve avvenire con voto di lista[268].

L’estensione di tale modalità di nomina ai componenti del collegio sindacale appare in linea con le previsioni del Codice di Autodisciplina che, nel suggerire l’applicazione di un procedimento trasparente anche per la nomina dei sindaci, richiama il meccanismo del voto di lista. Nei criteri applicativi il Codice richiede al riguardo che le liste di candidati alla carica di sindaco, accompagnate da un’esauriente informativa riguardante le caratteristiche personali e professionali dei candidati siano depositate presso la sede sociale almeno 15 giorni prima della data prevista dall’assemblea.

Precisa poi la norma che i soci di minoranza non devono risultare collegati, neppure indirettamente con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti, così uniformando le modalità di nomina a quanto stabilito per il consiglio di amministrazione. La definizione del rapporto di collegamento viene però fissato dalla Consob[269], alla quale l’art. 148, co. 2, TUF rinvia per l’individuazione delle modalità di elezione del membro effettivo dell’organo di controllo.

Discostandosi dalla prima formulazione, che individuava parametri molto generici per la definizione di un rapporto di collegamento, l’art. 144-quinquies RE stabilisce che ricorrono rapporti di collegamento tra uno o più soci di riferimento e uno o più soci di minoranza, almeno nei seguenti casi:

  1. a) rapporti di parentela;
  2. b) appartenenza al medesimo gruppo;
  3. c) rapporti di controllo tra una società e coloro che la controllano congiuntamente;
  4. d) rapporti di collegamento ai sensi dell’art. 2359, co. 3, c.c. anche con soggetti appartenenti al medesimo gruppo;
  5. e) svolgimento da parte di un socio, di funzioni gestorie o direttive, con assunzioni di responsabilità strategiche nell’ambito di un gruppo di appartenenza di un altro socio;
  6. f) adesione ad un medesimo patto sociale previsto dall’art. 122 TUF avente ad oggetto azioni dell’emittente, di una controllante di quest’ultimo e di una sua controllata.

Il secondo comma precisa, inoltre, che qualora un soggetto collegato ad un socio di riferimento abbia votato per una lista di minoranza, l’esistenza di tale rapporto di collegamento assume rilievo solo se il voto sia stato determinante per l’elezione del sindaco. La disposizione subordina opportunamente al superamento della c.d. prova di resistenza l’eventuale esercizio dell’impugnativa della deliberazione di nomina del sindaco di minoranza viziata.

Il successivo art. 144-sexies RE disciplina i casi di elezione del sindaco di minoranza.

La norma in primo luogo chiarisce che l’elezione del sindaco di minoranza è contestuale all’elezione degli altri componenti dell’organo di controllo.

È, inoltre, precisato che ciascun socio può presentare una lista per la nomina dei componenti del collegio sindacale. Solo per una mera scelta statutaria, inoltre, la società può richiedere al socio o ai soci presentatori della lista, di essere titolari, al momento della presentazione della stessa, di una quota di partecipazione al capitale non superiore a quella determinata ai sensi dell’art. 147-ter TUF.

Le liste devono inoltre recare i nominativi di uno o più candidati alla carica di sindaco effettivo e di sindaco supplente, per la nomina di componenti dell’organo di controllo.

Al fine di evitare la presentazione di liste di mero disturbo, la disposizione regolamentare richiede, al comma terzo, che i nominativi dei candidati, contrassegnati da un numero progressivo, non devono essere superiori ai componenti dell’organo da eleggere.

Quanto alla procedura per la presentazione delle liste, ne è disposto il deposito almeno 15 giorni prima di quello dell’assemblea, chiamata a deliberare sulla nomina dei sindaci.

A corredo delle liste, sono richieste ai candidati:

  1. a) le informazioni relative all’identità dei soci che le presentano, con l’indicazione della percentuale di partecipazione complessivamente detenuta e di una certificazione dalla quale risulti la titolarità di tale partecipazione;
  2. b) una dichiarazione dei soci diversi da quelli che detengono anche congiuntamente una partecipazione di controllo, o di maggioranza relativa, la quale attesti l’assenza di rapporti di collegamento nei termini descritti dall’art. 144-quinquies RE con questi ultimi;
  3. c) un’esauriente informativa sulle caratteristiche personali e professionali dei candidati e di una dichiarazione che attesti il possesso dei requisiti previsti dalla legge e della loro accettazione della candidatura.

La disposizione regolamentare non si limita a richiedere informazioni relative ai soggetti che hanno presentato le liste e ai relativi candidati, ma dispone che venga rilasciata da quelli diversi da coloro che detengono una partecipazione di controllo o di maggioranza, un’attestazione circa l’assenza di collegamenti rilevanti ai sensi dell’art. 144-quinquies RE.

Al fine di evitare comportamenti di disturbo, la norma correttamente sposta in capo ai singoli soci presentatori o votanti la responsabilità circa la mancanza di collegamenti e quindi il relativo esercizio del diritto ai sensi dell’art. 148 TUF.

Va però osservato che la dichiarazione dei presentatori interviene in un momento antecedente alla individuazione della lista di maggioranza, pertanto la reale sussistenza di rapporti idonei a inficiare la validità del meccanismo elettivo può riscontrarsi solo all’esito della relativa procedura di votazione[270].

L’operatività della proroga di cui al comma in esame, come si è visto, è infatti subordinata alla presentazione di una sola lista di candidati ovvero nell’ipotesi in cui le liste presentate dai soci risultino collegate ai sensi dell’art. 144-quinquies RE.

Sebbene l’autorità di vigilanza ha richiesto che a corredo delle liste siano depositate le informazioni relative alla identità dei soci che le hanno presentate, non è ancora chiaro in che modo la società possa accertare l’effettiva assenza di rapporti di collegamento e il relativo regime cui potrebbe essere esposta, nel caso in cui si accerti successivamente l’eventuale sussistenza di collegamenti rilevanti.

L’emittente deve fare affidamento, come precisato sopra, sulle dichiarazioni dei soci presentatori che ne assumono la relativa responsabilità. A tal fine, sarebbe forse opportuno invitare i presentatori delle liste a dichiarare non solo l’assenza dei rapporti di collegamento, ma anche l’eventuale esistenza degli stessi rapporti[271].

Anche solo a livello di regolamento assembleare si potrebbe infine prevedere che il Presidente dell’assemblea, prima di aprire la votazione, richiami le eventuali dichiarazioni di assenza o di sussistenza di rapporti di collegamento ed inviti gli azionisti intervenuti in assemblea, che non hanno depositato o concorso a depositare le liste, a dichiarare eventuali rapporti di collegamento come sopra definiti.

Quanto all’elezione del sindaco di minoranza, l’art. 144-sexies, co. 7, RE stabilisce che risulta eletto il candidato indicato al primo posto della lista che ha ottenuto il maggior numero di voti tra le liste presentate e votate da parte dei soci che non siano collegati ai soci di riferimento, ai sensi dell’art. 148, co. 2, TUF.

Alcune indicazioni sono date, anche con riferimento al sindaco supplente. Il citato art. 144-sexies, co. 7, RE si preoccupa opportunamente di prevederne l’elezione, stabilendo che ne assume la qualifica il candidato alla relativa carica indicato al primo posto nella stessa lista. Il successivo comma 8 dispone che, se lo statuto lo prevede, possono essere nominati ulteriori sindaci supplenti (o consiglieri di sorveglianza) destinati a sostituire il componente di minoranza. Il supplente di minoranza viene così individuato tra gli altri candidati della lista.

Quanto al meccanismo sostitutivo del supplente, l’art. 144-sexies, co. 11, RE chiarisce che, nei casi in cui, per qualsiasi motivo, venga a mancare il sindaco di minoranza, subentrano i supplenti. In forza del successivo co. 12, la nomina o la sostituzione del sindaco (o dei sindaci) di minoranza ai sensi dell’art. 2401, co. 1, c.c., ovvero di cui all’art. 2409-duodecies, co. 7, nel caso di società organizzate secondo il modello dualistico, deve avvenire “(…) nel rispetto del principio di necessaria rappresentanza delle minoranze”. È stata opportunamente eliminata quella disposizione contenuta nella precedente versione del documento di consultazione recante la nomina dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, che rimetteva agli statuti la facoltà di derogare al principio di cui all’art. 2401 c.c., potendo prevedere che i supplenti subentrati scadessero insieme a quelli in carica[272].

Gli statuti, in prima battuta, potrebbero prevedere che le liste presentate in sede di nomina dell’intero collegio sindacale siano composte da almeno due candidati (uno effettivo e uno supplente). In caso di decadenza del sindaco effettivo, espressione della minoranza, tale espediente potrebbe utilmente consentire che lo stesso venga sostituito dal sindaco supplente estratto dalla stessa lista.

Qualora, in applicazione del procedimento di cui art. 2401 c.c., non fosse possibile integrare i sindaci di minoranza attingendoli dalla lista originaria dalla quale erano stati tratti i precedenti sindaci di minoranza (effettivo e supplente), si potrebbe, invece, riaprire la procedura di integrazione del collegio attraverso la presentazione di nuove liste di minoranza sulle quali, però, il socio di maggioranza non potrà esprimere il proprio voto.

Siffatto meccanismo potrebbe consentire l’elezione del rappresentante di minoranza, prevenendo, al contempo, eventuali comportamenti disturbatori in sede di sostituzione.

b) I poteri individuali dei sindaci e il potere del collegio di esperire l’azione di responsabilità.

Nel complesso, dunque, l’intervento sull’organo di controllo appare apprezzabile e di maggiore impatto rispetto a quello operato in tema di amministrazione.

In quest’ottica senz’altro positive sono le disposizioni dirette a rafforzare la garanzia che almeno un membro del collegio sia espressione della minoranza; quella che prevede che proprio ad esso debba essere attribuito l’ufficio di presidenza; nonché quelle dirette ad affinare i requisiti di indipendenza di tutti i sindaci ed a fissare limiti al cumulo degli incarichi.

Infatti, in virtù di quanto si è detto con riferimento all’organo amministrativo, è proprio nell’organo di controllo che ha più senso fare entrare rappresentanti della minoranza ed indipendenti, posto che lo scopo della loro presenza come si è visto non può che essere quello di garantire correttezza ed indipendenza del controllo.

Ma i punti di maggiore interesse sono rappresentati dal rafforzamento dei poteri individuali dei singoli componenti del collegio sindacale e dall’attribuzione all’organo nel suo complesso del potere di promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori, potere che costituisce il rimedio estremo cui l’organo di controllo può ricorrere, nell’esercizio del suo generale potere-dovere di vigilanza.

L’attribuzione anche al singolo sindaco del potere di avvalersi di dipendenti della società per lo svolgimento delle sue funzioni, nonché quello di poter convocare il consiglio di amministrazione o il comitato esecutivo per richiedere chiarimenti, rappresentano senza dubbio un passo importante per mettere i sindaci effettivamente in condizione di svolgere la loro funzione di controllo.

Non va infatti dimenticato che una delle principali cause indicate in passato come all’origine dell’inefficacia del collegio sindacale era proprio la sua inadeguatezza strutturale ed organizzativa per svolgere una seria attività di controllo nelle società, carenza di organizzazione cui non si era chiaramente voluto fare fronte seriamente quando, con un intervento di “pura facciata”, in passato si era consentito ai sindaci di avvalersi di ausiliari, ma a loro spese ed oltretutto si era precisato che “l’organo amministrativo poteva rifiutare agli ausiliari e dipendenti dei sindaci l’accesso a informazioni riservate”[273].

L’intervento posto in essere oggi dal legislatore segna invece un passo più deciso nella direzione di un effettivo rafforzamento dell’organo, che oltre a questi poteri individuali vede attribuito anche a due dei suoi componenti il potere di convocare l’assemblea dei soci, nonché al collegio nel suo complesso la legittimazione a promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori.

Questo rafforzamento appare tanto più importante se si pensa che, nel quadro della corporate governance della nostra s.p.a., il collegio sindacale resta comunque l’interlocutore privilegiato dell’organo amministrativo nelle scelte gestionali e, ove ben congegnato e funzionante, ben potrebbe svolgere il ruolo che nei sistemi di common law svolgono gli amministratori indipendenti, ma ciò dipende, come si avrà modo di vedere, anche dall’ampiezza del controllo che gli si attribuisce.

Infatti, rafforzati in questo modo poteri e funzionalità del collegio sindacale è chiaro che l’aspetto determinante per valutare la maggiore o minore utilità dell’organo diventa quello del tipo di controllo che esso è legittimato a svolgere[274].

Per altri invece, nonostante l’oggettiva riduzione delle sue funzioni, nell’ambito della competenza del collegio a valutare l’adeguatezza del sistema amministrativo-contabile e la sua affidabilità nel rappresentare correttamente i fatti di gestione rientrerebbe tutt’oggi il potere dovere di controllare ed esprimere un parere sulla correttezza anche sostanziale della gestione posta in essere dal consiglio di amministrazione e risultante dalla contabilità. rende possibile la verifica dei risultati periodici. Il collegio sindacale si riteneva avesse competenza a valutare l’andamento della gestione nella sua opportunità, nella legalità e nella rilevazione contabile, dunque era opinione diffusa che questo controllo comprendesse, entro certi limiti, anche l’opportunità degli atti di gestione[275]. Come si è detto, il legislatore del 1998 e poi quello del 2003 hanno finito per limitare i compiti di controllo del collegio, confermando la sua competenza a vigilare sulla legalità della gestione, ma sottraendogli la competenza del controllo contabile, oggi affidato in via esclusiva alle società di revisione per le società quotate e ad un revisore esterno per le non quotate[276], circostanza quest’ultima che ha fatto propendere molti commentatori per un abbandono della competenza in ordine al merito degli atti di gestione[277].

Relativamente ai poteri dei sindaci, ma soprattutto alla loro natura, sia la prevalente dottrina sia la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che le funzioni e i doveri dei sindaci vengano espletate secondo il principio della collegialità.

A questa soluzione si perviene attraverso tre strade:

  1. a) gli innumerevoli riferimenti al “collegio sindacale” presenti nel codice civile (artt. 2386, ultimo comma, 2403, comma 1 e 2, 2408, 2425, ultimo comma e 2432)[278];
  2. b) il fatto che l’attuale disciplina dell’organo di controllo delle società di capitali derivi dal R.D. n. 1548/1936 il quale, innovando il precedente Codice del commercio del 1882 (il quale nulla disponeva al riguardo), affermava espressamente nell’art. 4 che “i sindaci costituiscono un collegio[279];
  3. c) la previsione esplicita ed analitica dei poteri individuali dei sindaci ex art. 2403, comma 3, c.c., dal che si desume che la regola generale di funzionamento dell’organo di controllo non sia il principio di autonomia individuale, bensì quello di collegialità.

Come recita lo stesso art. 2405 c.c., i sindaci devono partecipare alle assemblee ed alle adunanze del consiglio di amministrazione, mentre facoltativa risulta la partecipazione alle riunioni del comitato esecutivo[280].

In via preliminare è necessario interpretare il codice civile laddove stabilisce che i sindaci devono “assistere” alle adunanze del consiglio di amministrazione ed alle assemblee. Il termine utilizzato dalla norma codicistica potrebbe far pensare ad una partecipazione passiva dei sindaci, non potendo partecipare alla discussione se non interpellati dagli amministratori (né far risultare eventuali loro dichiarazioni dal verbale)[281].

In questo senso l’assistenza consisterebbe in una semplice presenza fisica alle riunioni collegiali, non essendo riconosciuta nemmeno la possibilità di richiedere informazioni e chiarimenti sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari previsti all’ordine del giorno, secondo quanto stabilito dall’art. 2403 c.c.

Le ragioni di questa posizione potrebbero essere giustificate dall’esigenza di mantenere una netta separazione di ruoli tra amministratori e sindaci, per evitare che, intervenendo attivamente alle discussioni consiliari ed assembleari, formulando proposte o domandando chiarimenti ed informazioni, i sindaci si sovrapporrebbero, di fatto, al consiglio di amministrazione cosicché si verrebbe a creare un unico organo di controllo, formato appunto da amministratori e sindaci, nel quale tuttavia vi sarebbe una notevole disparità dal momento che solo ai primi spetterebbe il potere di voto in merito agli argomenti posti a deliberazione[282].

L’orientamento dottrinale prevalente non è peraltro allineato con tale orientamento, considerando invece l’assistenza dei sindaci alle assemblee, alle adunanze e alle riunioni come un compito attivo in quanto i sindaci in tale sede possono venire a conoscenza non solo di notizie indispensabili per l’esercizio delle loro funzioni, ma anche, partecipando alla discussione e manifestando la loro opinione, impedire che tali organi sociali prendano deliberazioni in contrasto con la legge o con lo statuto, o che comunque possano risultare a danno della società[283].

L’intervento dei sindaci, in altre parole, rientra nella funzione di controllo ad essi attribuita, se varrà ad impedire una cattiva gestione. Inoltre, la tesi della confusione dei ruoli appare estremamente debole se solo si pensa che la sovrapposizione tra sindaci e amministratori potrebbe, di fatto, realizzarsi anche quando i sindaci fossero interpellati dagli amministratori e invitati a formulare osservazioni e proposte (art. 2429, comma 2, c.c.).

I sindaci, pertanto, devono partecipare alle adunanze del consiglio di amministrazione e alle riunioni assembleari nella pienezza delle loro funzioni e dei loro poteri, avendo una funzione preminente di consulenza tecnico-contabile che viene esercitata in particolare sul documento cardine della gestione societaria, il bilancio predisposto dagli amministratori: consulenza che si concreta nella relazione che esso presenta in assemblea.

Bisogna peraltro ricordare che fruitrice del “servizio[284] di informazione e di assistenza tecnico-contabile non è tanto la maggioranza assembleare. Sugli amministratori, che sono sua emanazione, essa è in grado di esercitare, in fatto, controlli ben più penetranti di quelli spettanti, in base alla legge, all’organo sindacale[285]. Chi dovrebbe risultare destinataria dei “servizi” del collegio sindacale è la minoranza: questa, infatti, è estromessa dalla gestione sociale; inoltre,è priva di strumenti di diretta informazione e di diretto controllo sull’operato degli amministratori[286].

La presenza, nella struttura organizzativa della società per azioni, di un organo al quale è affidato il controllo dell’amministrazione è, istituzionalmente, destinata a “compensare” questa mancanza, nel singolo azionista, di poteri di informazione e di controllo.

Gli azionisti di minoranza, privi di un proprio diritto di informazione e di controllo, debbono confidare nella veridicità di quanto riferisce in assemblea il collegio sindacale: l’art. 2407, comma 1, c.c., mira ad infondere loro fiducia rendendo i sindaci “responsabili della verità delle loro attestazioni[287]. Resta, pur tuttavia, il fatto che la tutela dell’interesse della minoranza all’informazione è affidata ad un organo nominato dalla maggioranza e ciò indubbiamente rende equivoca la figura del collegio sindacale e scarsamente efficiente il suo operato.
Nonostante queste doverose osservazioni su tale organo societario, è opportuno ricordare che i sindaci hanno comunque il potere-dovere di impugnare le deliberazioni assembleari e del consiglio di amministrazione. Le prime, in particolare, se risultano non conformi alla legge o all’atto costitutivo ex art. 2377, comma 2, c.c., nonché quelle nulle per impossibilità o illiceità dell’oggetto ex art. 2379 c.c., proteggendo così l’interesse dei soci alla correttezza dell’azione sociale.

Le deliberazioni assembleari possono essere impugnate anche in caso di rinunzia di tutti i soci assenti o dissenzienti, ed anche se la delibera sia stata approvata da tutti i soci[288].

Secondo l’interpretazione prevalente la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari spetta al collegio e non al singolo sindaco. Il collegio sindacale, inoltre, è autonomo nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo per cui può impugnare le delibere assembleari che riconosca illegittime, siano state o meno le stesse impugnate dagli amministratori o dai soci, mentre non le impugnerà se le consideri valide, nonostante siano state impugnate da altri.

Quanto alle delibere del consiglio di amministrazione, il collegio sindacale ha il potere-dovere di impugnare entro tre mesi una simile delibera nell’ipotesi di conflitto di interessi tra amministratori e società ex art. 2391, ultimo comma, c.c. Tale legittimazione spetta al collegio sindacale e non al singolo, come deve sostenersi, in linea di principio, per tutti i provvedimenti in cui i sindaci sono chiamati ad esprimere giudizi e ad adottare decisioni con effetti esterni, volti cioè ad incidere in qualche misura sugli atti sottoposti al loro controllo.
I sindaci, infine, hanno un vero e proprio obbligo di impugnazione, qualora la deliberazione sia stata presa in conflitto di interessi e sussistano gli altri presupposti richiesti dall’art. 2391 c.c., anche in relazione al generale dovere di controllo e vigilanza imposto dal comma 1 dell’art. 2403 c.c.[289]

Una breve considerazione a parte merita l’art. 152 TUIF il quale, colmando una grave lacuna dell’ordinamento generale, legittima il collegio sindacale (e non anche i singoli soci) a denunciare al tribunale le irregolarità ex art. 2409 c.c.

Questo nuovo potere, a prima vista, potrebbe apparire incongruo in considerazione del fatto che i sindaci, quali controllori della gestione della società, disponevano già di poteri apparentemente adeguati alla loro funzione ed il cui esercizio avrebbe potuto prevenire e reprimere le irregolarità rilevate nell’amministrazione della società.

Ma questa impressione sarebbe erronea perché, se un difetto si fosse voluto riscontrare nella disciplina codicistica del collegio sindacale, esso riguarda proprio la scarsa attitudine dei poteri rispetto al fine proprio di un corretto ed efficiente controllo. Secondo il codice civile, infatti, i sindaci dispongono solo di un potere di dialogo con gli amministratori e di un potere di dissuasione, fondato esclusivamente sulla forza delle argomentazioni, ma privo della capacità di correggere la condotta amministrativa stimata scorretta. L’intervento del tribunale, in funzione correttiva delle irregolarità amministrative, avrebbe potuto essere sollecitato dai sindaci in maniera mediata, e cioè per mezzo della rappresentazione della irregolarità sospettata al P.M., al fine di sollecitarne la denuncia da parte sua al tribunale.

A questo stato di cose il D.Lgs. n. 58/1998 ha posto pertanto rimedio.
La norma dell’art. 152, comma 1, attribuisce al collegio sindacale, e non ai singoli sindaci, la legittimazione a presentare al tribunale il ricorso previsto dall’art. 2409 c.c. in presenza di fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori.

Come si può notare, la nuova disciplina non ha fatto altro che estendere la legittimazione prevista dalla norma codicistica per i soci, possessori di almeno un decimo del capitale sociale, e per il P.M., anche al collegio sindacale. Tuttavia, si deve sottolineare la particolare importanza di questa nuova legittimazione in quanto da essa si può agevolmente presumere la maggiore significatività degli elementi che potranno fornire i sindaci al tribunale per fargli valutare l’opportunità dell’intervento sollecitato.

I sindaci, quali controllori della gestione, a differenza dei soci e dello stesso P.M., hanno accesso alla contabilità e alla documentazione aziendale ed hanno il potere di chiedere, anche individualmente, agli amministratori ogni informazione stimata utile al fine del controllo di loro competenza; sono posti, pertanto, dalla legge in una posizione strategica per acquisire ogni informazione sull’attività degli amministratori e per poter esprimere su di essa adeguate valutazioni, all’esito delle quali sceglieranno, fra i vari possibili interventi, quello considerato più efficace.

Al riguardo è opportuno osservare che il ricorso al tribunale, benché non sia posto dalla legge in una scala di valori progressivi rispetto agli altri poteri dei sindaci, deve essere tuttavia considerato come estremo rimedio. Nell’interesse della società, infatti, i sindaci devono cercare di correggere l’irregolarità rilevata o sospettata per mezzo del dialogo con gli amministratori o richiedendo, secondo i casi, l’intervento di una discussione collegiale, in seno al consiglio di amministrazione o in seno all’assemblea, appositamente da loro convocati.
In esito agli accertamenti svolti, il tribunale potrà revocare gli amministratori ed eventualmente anche i sindaci, qualora stimasse che anche questi siano corresponsabili delle irregolarità accertate. Se però revocasse anche i sindaci, il tribunale dovrà nominare un comitato di sorveglianza composto di tre membri, il quale eserciterà il controllo sull’amministratore giudiziario durante la sua gestione.
Questa norma trova precedenti espressioni nel sistema dei controlli delle società di intermediazione mobiliare (SIM) e bancarie, per le quali nei casi di assoggettamento ad amministrazione straordinaria si dispone la nomina del comitato di sorveglianza e risponde alla sentita esigenza di assicurare il controllo anche durante la gestione dell’amministratore giudiziario, la cui nomina da parte dell’autorità giudiziaria non può di per sé essere garanzia di corretta amministrazione.
La legge non indica i compiti del suddetto comitato, ma il fatto che la sua nomina dipenda dalla revoca dei sindaci lascia agevolmente intuire che esso possieda le stesse funzioni dell’organismo revocato[290].

Va poi segnalato l’art. 148- bis, dedicato ai componenti degli organi di controllo in genere, dunque sia ai sindaci che ai membri del comitato di controllo sulla gestione che a quelli del comitato di sorveglianza, nel quale al comma 1 si prevede che la Consob, con regolamento, stabilisca il limite al cumulo degli incarichi di amministrazione e controllo che i componenti degli organi di controllo delle società quotate possono avere[291], nonché al comma 2 si pone l’obbligo per questi ultimi di informare l’Autorità e il pubblico di tutti gli incarichi di amministrazione e controllo da essi rivestiti presso le società di capitali. Lo stesso tema del numero degli incarichi viene affrontato dalla legge, sotto il profilo della trasparenza, anche attraverso una modifica dell’art. 2400 c.c. (dunque applicabile a tutte le s.p.a.), nel quale si prevede che, al momento della nomina e prima dell’accettazione dell’incarico, i sindaci debbano rendere noti all’assemblea gli incarichi di amministrazione e di controllo da essi ricoperti presso altre società.

Da ultimo, deve essere citato l’inserimento del comma 2 dell’art. 2393 c.c., che attribuisce anche ai sindaci il potere di promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori con deliberazione assunta a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti (disposizione anche questa applicabile a tutte le s.p.a.).

Prima di procedere nelle valutazioni, vale la pena ricordare che la legge in questo ambito è intervenuta in modo pressoché uniforme per tutti e tre i sistemi di organizzazione della s.p.a., che appaiono oggi sostanzialmente equiparati nelle tutele.

Gli unici aspetti in cui gli organi di controllo dei sistemi alternativi ancora si differenziano dal collegio sindacale sono legati: al potere per il singolo componente l’organo di controllo di procedere individualmente ad atti di ispezione e di controllo, potere che sia nel sistema dualistico che nel monistico resta nella sola competenza dell’organo nel suo insieme[292]; all’esclusione del potere di convocazione dell’assemblea in capo al comitato per il controllo sulla gestione. Per il resto, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo sulla gestione sembrano essere stati equiparati in tutto e per tutto al collegio sindacale[293].

Nel complesso, dunque, l’intervento sull’organo di controllo appare apprezzabile, soprattutto per il rafforzamento dei poteri individuali del singolo componente, sino ad oggi nella sostanza privo di qualsiasi potere di iniziativa, e per l’attribuzione ad esso della competenza a promuovere l’azione di responsabilità, che costituisce il rimedio estremo cui l’organo di controllo può ricorrere, nell’esercizio del suo generale potere – dovere di vigilanza sulla gestione della società[294]. A differenza di quanto visto in tema di amministrazione, il legislatore è qui intervenuto in modo più mirato per cercare di rafforzare i controlli interni nel loro complesso e ciò è senza dubbio positivo se si pensa che, nel quadro della corporate governance, il collegio sindacale (o il suo omologo negli altri due sistemi) resta comunque l’interlocutore privilegiato dell’organo amministrativo nelle scelte gestionali. Unico rammarico è costituito dall’abbandono di un’ipotesi, prospettata in una delle precedenti bozze succedutesi nei vari passaggi parlamentari, che puntava a fare del collegio sindacale l’organo di riferimento dell’intero sistema dei controlli, attribuendogli anche la responsabilità sul sistema di audit dei conti della società, rafforzando il suo rapporto con il revisore esterno attraverso l’attribuzione del potere di nomina e revoca della società di revisione[295].

c) Nomina del presidente dell’organo di controllo.

Il sistema normativo italiano prevede nuovi strumenti di partecipazione delle minoranze azionarie al governo societario. È stato introdotto l’obbligo del voto di lista anche per l’elezione degli organi di amministrazione ed è stato stabilito che il presidente dell’organo di controllo sia nominato tra i sindaci eletti dalle minoranze[296]. Si tratta di regole innovative, anche nel confronto internazionale. La Consob è chiamata a svolgere un ruolo importante nel definire disposizioni attuative e nel vigilare sul loro rispetto sostanziale, con l’obiettivo di favorire assetti più aperti alla dialettica tra azionisti.

I poteri individuali di cui godono i sindaci, pertanto, hanno certamente carattere eccezionale, concorrendo con i poteri collegiali ed avendo carattere istruttorio, cioè propedeutico alle ulteriori attività di giudizio ed iniziativa.
Quanto al presidente, lo stesso codice civile non è chiaro sui suoi poteri: l’art. 2385, comma 1, dice che quando un amministratore rinunzia al suo ufficio deve comunicarlo in forma scritta al presidente del consiglio di amministrazione e al presidente del collegio sindacale, mentre l’art. 2392, comma 3, stabilisce che la responsabilità degli amministratori verso la società non si estende a quello che, immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale[297]. Non ci sono altri articoli che definiscano ulteriormente i poteri del presidente dell’organo di controllo delle società, ma si può sostenere che chi presiede un organo collegiale dovrà dirigere e convocare le riunioni del consiglio, controllare che sia redatto un verbale delle adunanze e delle deliberazioni e sottoscriverlo, mantenere i contatti con i componenti del collegio e cercare che siano continui i rapporti anche fra di essi.

Il presidente potrà senza dubbio rappresentare l’organo che presiede comunicando le deliberazioni adottate, ma non sarà consentita una delega di tipo generale, come avviene per l’amministratore delegato ex art. 2381 c.c.[298]. In questo senso si è espresso il Tribunale di Milano, escludendo che i poteri spettanti al collegio sindacale nel caso previsto dall’ultimo comma dell’art. 2386 c.c. (mancanza di tutti gli amministratori) possano essere esercitati dal presidente del collegio sindacale, o essere delegati allo stesso[299].

Conclusioni

Negli anni recenti la ricerca comparata si è focalizzata sul modelli tedesco, giapponese e americano. Ciò ha dato l’impressione che l’unica alternativa consista fra il modello del controllo bancario (Giappone e Germania) e il modello della protezione giuridica delle minoranze e dello sviluppo di un robusto mercato del controllo (Stati Uniti).

Rispetto a tali modelli, finora il modello italiano si è posto come un paradosso. In effetti, almeno fino a tempi recenti, l’economia italiana è riuscita ad avere successo, sopportando tuttavia costi enormi indotti dal sottosviluppo delle regole di controllo societario. Per di più il modello italiano, fondato su un’economia dominata da piccole imprese familiari efficienti in grado di sussidiare un settore delle grandi imprese a controllo statale o “dinastico” largamente inefficiente, pare destinato a non sopravvivere ai processi di unificazione europea. E’ quindi assai probabile che il sistema debba cambiare in tempi relativamente rapidi. Da questo punto di vista, due sembrano gli scenari possibili:

  • il sistema bancario verrà aperto alla vera competizione esterna, dando origine ad una necessaria effettiva privatizzazione, e diverrà quindi, sulla base del modello tedesco, il sostegno principale del governo societario;
  • oppure il mercato sarà in grado di generare meccanismi efficienti di autoprotezione degli investitori evolvendo verso il modello americano.

In entrambi i casi, comunque, appare assai probabile che l’intervento politico di design istituzionale debba in tale periodo giocare un notevole ruolo di promozione dei cambiamenti.

Occorre perciò dotare i decisori pubblici degli strumenti giuridici necessari di intervento istituzionale al fine di ridisegnare le regole del governo societario nella direzione del controllo del managerial shrinking e della protezione degli investitori, assicurando il passaggio da un’economia di piccole imprese ad un’economia efficiente di imprese medio-grandi in linea con l’evoluzione dei paesi del G-7.

Il dibattito sulla corporate governance, sviluppatosi nel corso degli anni novanta, viene portato alla luce da diversi fattori. In primo luogo, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, assumono rilievo crescente fenomeni che mettono in discussione il modello anglosassone nella sua versione più ortodossa: l’ondata di ristrutturazioni, l’uso aggressivo della leva finanziaria, la crescente spregiudicatezza delle strategie aziendali con conseguenti clamorosi fallimenti, l’attivismo degli investitori istituzionali.

In secondo ed ultimo luogo, la globalizzazione dell’economia e della finanza e, quindi, il confronto competitivo sempre più diretto tra sistemi-paese, rende più immediata la ricerca dei fattori di differenziazione anche nei diversi modelli di governance.

Il concetto di corporate governance ha varie definizioni in letteratura e nella pratica aziendale, non essendovi ancora un significato univoco accettato dalla dottrina a livello internazionale.

In una accezione ristretta, il termine corporate governance è solito riferirsi al sistema di strumenti e meccanismi da porre in essere affinché gli azionisti non coinvolti nella gestione possano valutare l’operato dei soggetti amministratori al fine di proteggere il proprio investimento, ovvero in maniera da favorire l’allineamento degli interessi del management con quelli degli azionisti; in tal senso l’attenzione si focalizza, quindi, sulle relazioni fra Alta Direzione, Consiglio di Amministrazione e azionisti, tralasciando le relazioni intercorrenti con altri eventuali soggetti portatori di interessi specifici.

Tale concezione, chiaramente influenzata dalla prospettiva della teoria dell’agenzia considerata in senso tradizionale, è predominante nella dottrina anglo-americana.

Anche in parte della dottrina economico-aziendale italiana, il termine corporate governance è spesso utilizzato per evidenziare le caratteristiche della struttura e del funzionamento degli organi di governo e di controllo di un’azienda, le loro interrelazioni ed il loro rapporto con gli organi rappresentativi degli azionisti e della struttura direzionale.

In una concezione di creazione di valore per gli azionisti, una definizione più ampia delinea il sistema di corporate governance come quell’insieme di meccanismi che fanno sì che le attività, le risorse e l’intera organizzazione aziendale siano dirette al fine di perseguire gli obiettivi stabiliti dagli azionisti, nel cui interesse l’attività aziendale deve essere svolta.

Il concetto di corporate governance tende ad avere una valenza più ampia se si prendono in considerazione anche gli altri stakeholders, oltre agli azionisti.

In tal senso, è una definizione secondo la quale la corporate governance è da intendersi il sistema di diritti, processi e meccanismi di controllo istituiti, sia internamente che esternamente, nei confronti della amministrazione di un’impresa al fine di salvaguardare gli interessi degli stakeholder, ovvero l’insieme di meccanismi che esercitano un’influenza rilevante sull’allocazione del potere di direzione e di governo in un’impresa. In un’ottica di creazione di valore per tutti gli stakeholder la corporate governance può essere intesa come tutti gli strumenti per mezzo dei quali gli stakeholder aziendali non coinvolti nella gestione (outside stakeholder), al fine di salvaguardare i propri interessi, possono attuare un processo di controllo nel confronto dell’Alta direzione e di tutti i soggetti che direttamente partecipano all’amministrazione dell’impresa. Più in generale, il termine può essere inteso per indicare l’insieme di relazioni esistenti all’interno del sistema azienda fra l’Alta direzione, gli azionisti, i dipendenti, i creditori, i fornitori ed i clienti.

In conclusione possiamo dire che esistono diversi concetti di corporate governance ed è compito dello studioso economico aziendale di volta in volta di adeguarsi alle realtà aziendali che sono specifico oggetto di ricerca. Il termine assume inoltre un significato diverso da paese a paese.

Peraltro, sulla base di quanto si è osservato, è possibile includere due concetti nell’espressione corporate governance:

  • il concetto di potere;
  • il concetto di efficienza economica.

Il sistema di corporate governance definisce quindi la maniera in cui il primo concetto, il potere, influenza il secondo, l’efficienza economica. Più precisamente, il sistema di corporate governance regola il modo in cui i rischi ed i benefici relativi al processo aziendale di creazione di valore sono allocati fra i diversi soggetti che partecipano all’attività aziendale e costituisce l’insieme di regole, procedure e meccanismi che definiscono il processo decisionale ai massimi livelli aziendali, dando, in maniera più o meno rilevante, ai soggetti coinvolti una “voce” in tale processo, al fine di poter salvaguardare gli interessi e gli investimenti dei medesimi posti in essere nell’impresa. Pertanto, il termine corporate governance definisce il sistema di meccanismi che delinea i diritti ed i comportamenti dei soggetti portatori di interessi specifici, e degli organi in cui essi sono rappresentati. Tale sistema ha, fra i suoi scopi, il fine di ridurre i costi di agenzia e di transazione esistenti fra i suddetti soggetti.


[1] Pugliese, Percorsi evolutivi della corporate governance, Padova, 2008.

[2] Cfr. Schlesinger, Il codice di autodisciplina per le società quotate, Corr. giur., 1999, 1455; Davis, Stein, Institutional Investors, London, Mit Press, 2001, p. xxiii; Marseguerra, Governo delle imprese e mercati finanziari: il ruolo degli investitori istituzionali, in Il Risparmio n. 1, 2000, p. 3

[3] Irace, Il Ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, Milano, 2001.

[4] Carriero, Codici deontologici e tutela del risparmiatore, FI, 2005, V, 297

[5] Maugeri, Regole autodisciplinari e governo societario, Giur. comm., 2002, I, 93.

[6] Reboa, Proprietà e controllo di impresa: aspetti di corporate governancee, Milano, 2001, pp. 105-106.

[7] V. diffusamente Irace, Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, Milano, 2001.

[8] Cfr. Hakansson, The Role of the Corporate Bond Market in an Economy – and in Avoiding Crises, University of California, Berkley, 1999.

[9] Galgano, Regolamenti contrattuali e pene private, Contr.  imp., 2001, 509

[10] Presti, Tutela del risparmio e Codice di Autodisciplina delle società quotate, Analisi giur. dell’economia, 2006, 52.

[11] Per scrupolo si tratteggia in estrema sintesi la vicenda: il gruppo Parmalat aveva falsificato per anni bilanci, così che risultava avere a disposizione cifre in realtà inesistenti. Una volta scoperta questa situazione si verificarono due conseguenze tanto diverse quanto perverse: chi aveva comprato obbligazioni doveva rassegnarsi a perdere il capitale dato a mutuo a Parmalat, perché esso era ormai azzerato. Al limite questi investitori possono oggi ancora sperare nel ritrovamento di qualche tesoro nascosto dai responsabili del gruppo ovvero accontentarsi delle offerte di acquisto da parte delle banche dei loro titoli (20-30% del valore originario delle obbligazioni). Le banche, invece, hanno convertito i crediti che avevano verso Parmalat in azioni della Nuova Parmalat continuando l’attività produttiva della medesima ed ottenendo sin da subito degli ottimi apprezzamenti del titolo da parte del mercato. Se il mercato avesse immaginato il rapido riacquisto di reputazione da parte di Parmalat, probabilmente la vicenda sarebbe stata meno drammatica per il popolo dei piccoli risparmiatori. Sulle responsabilità e collusioni in merito al collasso sta indagando la magistratura.

[12] Cfr. Presti, Tutela del risparmio e Codice di Autodisciplina delle società quotate, Analisi giur. dell’economia, 2006, 49 che parla del codice di autodisciplina come di uno strumento che offre la possibilità di sperimentare nuove soluzioni anche al fine di proporne poi il recepimento.

[13] Questa divisione non deve essere intesa in maniera manichea, dato che il rapporto fra i blocchi delle maggioranze e le minoranze qualificate (investitori istituzionali) muta a seconda delle condizioni di mercato: la minor liquidità degli investimenti azionari riduce la convenienza di uscire da una società da cui ci si attende discreti rendimenti, così che in tale circostanza gli investitori istituzionali tenderanno ad interessarsi maggiormente alla vita della società ed a interagire con il management della società: cfr. Rossi, Le cd. regole di corporate governance sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, Riv. soc., 2000, 11.

[14] Essi non possono derivarsi soltanto da quanto positivamente sancito dalle norme: la mol­teplicità delle situazioni che il governo delle imprese è chiamato ad affrontare e l’ampiezza della discrezionalità che la sfera politica deve necessariamente riservarsi di fronte ad essa fanno sì che la gamma degli obiettivi perseguiti, e le rispettive prio­rità al suo interno, possano significativamente variare anche a normativa costante. Tantazzi, Corporate governance e proprietà azionaria, in Le nuove funzioni degli organi societari verso la Corporate Governance, Milano 2002; Barucci, Messori, Mercato dei capitali e corporate governance in Italia,  Roma, 2006.

[15] Cfr. Gros Pietro, Privatizzazioni e corporate governance, in Le nuove funzioni degli organi societari verso la Corporate Governance, Milano, 2002.

[16] BRESCIA MORRA. Banca e Industria, fine di una separazione. La voce Info 27 Luglio 2007.

[17] Annunciata dal governatore Mario Draghi in occasione della giornata del risparmio 2006, e sostenuta nelle considerazioni finali del 2007.

[18] Dir. 2007/44/CE

[19] Nel passato l’acquisizione di partecipazioni è stata spesso dettata dalla necessità, per le banche, di   risolvere a loro favore i problemi finanziari delle imprese di cui eventualmente erano creditrici (Barucci e Mattesini 2008) e dall’esigenza di sostenere i grandi gruppi industriali durante il processo di privatizzazione. Appare difficile, tuttavia, fare previsioni su questo punto.

[20] BRESCIA MORRA- MATTESINI Banca e industria in Italia verso nuovi rapporti  .NELMERITO.com 29 luglio 2008

[21] Art. l, comma 5, Tuf, il quale stabilisce che “Per i servizi e attività di investi­mento si intendono i seguenti, quando hanno per oggetto strumenti finan­ziari: a) negoziazione per conto proprio; b )esecuzioni di ordini per conto dei clienti; c) sottoscrizione e/o collo­camento con assunzione a fermo, ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; c-bis) collo­camento senza assunzione a fermo, né assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente d) gestione di portafogli; e) ricezione e trasmissione di ordini; f) consulenza in materia di investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione.

[22] Briolni, Articolo 22. Separazione patrimoniale, in Testo unico della finanza. 1. Intermediari e mercati. Commentario diretto da Campobasso, p., 183 ss.; Guguota, Articolo 22. Separazione patrimoniale, in Il testo unico dell’intermediazione finanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, p., 191 ss.; Gaggero, Art. 22. Separazione patri­moniale, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa-Capriglione, t. I, p., 233 ss. Da ultimo per una attenta ricognizione con particolare attenzione all’ipotesi di insolvenza, Cossu, Principio di separatezza nella gestione di portafogli di investimento e in­solvenza della s.i.m., in Banca, borsa tit. cred., 2002, I, 606 ss.

[23] Cfr. Miola, Briolini, Articolo 36, Fondi co­muni di investimento, in Testo Unico della finanza 1. Intermediari e mercati. Com­mentario diretto da Campobasso. Torino 2002 p. 314 ss.; Soda, Articolo 36. fondi comuni di investimento, in Il testo Unico dell’intermediazione finanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, Milano 2000 p. 291 ss.; Pontolillo, Art. 36. Fondi comuni di investimento, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa-Capriglione, Padova 1998 p. 384 ss. Si ritiene che la separazione patrimoniale sia massima nelle gestioni individuali dove il portafoglio di ciascun cliente costituisce patrimonio a sé e possa essere, invece, meno rigorosa nei fondi comuni di investimento o nei fondi pensione in cui vi è una commistione delle risorse conferite da ciascun parteci­pante che consente una maggiore diversificazione ed un accesso ad investimenti remunerativi anche nei casi in cui il conferimento individuale sia limitato. Così, Di maio, Contratti di gestione finanziaria e separazione dei patrimoni, in Diritto dell’economia, Atti dei seminari tenuti nell’auditorium della Cassa Forense di Roma 11 ottobre 2001 – 8 febbraio 2002, a cura di De Tilla, Alpa, Patti, Milano 2002, 565 ss.

[24] Attraverso la separazione patrimoniale si mira, dunque, a costituire una speciale disciplina della responsabilità patrimoniale. Sull’argomento si veda la ricostruzione di Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, Padova 2001.

[25] La separazione patrimoniale nelle gestioni individuali è funzionale a “svolgere una gestione indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati” (art. 21, lett. c, Tuif) in quelle collettive ad “adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti ai fondi” (art. 40 lett. c, Tuif). COSTI, Il mercato mobiliare, Torino 2008 p., 134 ss., il quale, con riferimento alla prestazione dei servizi di investimento, ritiene che la disposi­zione contenuta nell’art. 21, lett. c, Tuif, anticipi le norme sulla separazione patrimoniale (art. 22 Tuif).

[26] Si ritiene, infatti, che sia questo il senso da attribuire alla locuzione “patrimonio separato” escludendo che di separazione possa parlarsi con riguardo agli strumenti finanziari o al denaro che restano sempre di proprietà dei singoli clienti e non entrano, invece, nel patrimonio dell’intermediario. Sul punto, v. anche Briolini Articolo 19. Separazione patrimoniale, in L’Euro­sim, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415. Commentario a cura di Campobasso, Mi­lano 1997, 146 ss..

[27] Cfr.Forestieri, Corporate e investment banking, Milano 2007, p. 73.

[28] Miola, Piscitello, Articolo 17. Criteri generali, in L’Eurosim, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415. Commentario a cura di Campobasso, Torino 2002 117 ss. Sul punto si veda anche la deliberazione Consob 11522/1998 e successive modifiche, art. 28 (relativo alle informazioni tra gli intermediari e gli investitori nella prestazione dei servizi di investimento) e l’art. 60 e ss. (riguardanti gli obblighi di attestazione, di rendicontazione e registrazione).

[29] Le società di investimento a capitale variabile furono istituite con il D. Lgs 25 gennaio 1992, n. 84. I fondi comuni di investimento mobiliare e immobiliare chiusi furono istituiti rispettivamente con L. 14 agosto 1993 n. 344; e L. 25 gennaio 1994, n. 86.

[30] Discorso introduttivo del prof. GUIDO CAMMARANO,Assemblea assogestioni 16 marzo 2006.

[31] IRACE., op. cit., p. 117

[32] Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, cit., p. 28, il quale os­serva che il gestore compie atti di disposizione funzionali all’incremento di un capitale. In questo senso si può dire che sia la ge­stione individuale, sia la gestione collettiva è diretta al compimento di una attività strumentale alla realizzazione di un “programma di investimento”.

[33] Sul concetto di metodo, Panuccio, Saggi di metodologia giuridica, Milano 1995, p. XII ss. della premessa, il quale definisce il metodo come “un mo­dello astratto di procedimento che secondo una regola generale di esperienza si rivela praticamente possibile, indefinitamente reiterabile in condizioni normali, e particolarmente idoneo a conseguire un certo risultato”. L’Autore sottolinea come il metodo non sia in sé una attività, un comportamento concreto, quanto, piutto­sto, sia “una maniera generale di agire, un modus operandi considerato in astratto”. Il metodo, in sostanza, va definito come un modello astratto di attività che deve essere strumentalmente idonea al raggiungimento di un determinato ri­sultato.

[34] Per una definizione del comportamento, Falzea, Comportamento in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, p. 711 ss.; ID., “Manifestazione”, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 135 ss. In termini più generali, ID., “Patto giuridico”, in Enc. dir., XVI, Milano 1967, p. 941 ss.

[35] Panuccio, Saggi di metodologia giuridica, cit., p. XII ss. della pre­messa.

[36] Santoro, Gli obblighi di comportamento degli intermediari mobi­liari, in Rivista delle società, 1994, fasc. 4, p. 791-805, il quale, pur riferendosi specificatamente ai servizi di intermedia­zione mobiliare operati dalle sim, ma con considerazioni che rilevano in termini generali, parla di standardizzazione dei comportamenti, quale precisa individua­zione ex ante di norme procedimentali.

[37] L’orientamento è inteso, come specifica l’A. (790, nota 68) quale “direzione che una sequenza di orienta­menti dell’organismo manifesta verso una determinata situazione”. Sussiste un forte legame tra orientamento e interesse, poiché “l’orientamento conferisce al comportamento l’ufficio di segnale dell’interesse del soggetto”. Nel senso cioè che il comportamento, orientato verso un risultato, sottolinea l’interesse del sog­getto che agisce a quel risultato.

[38] Per una ampia e approfondita trattazione sulle destinazioni del patri­monio, Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova 1996, p. 98.

[39] Oppo, Sui principi generali del diritto privato, in Le ragioni del di­ritto. Scritti in onore di L. Mengoni, III, Milano 1995, p. 2040 ss., il quale sottolinea come, giuridicamente, rilevi non solo il collegamento tra bene e soggetto, ma anche “il collegamento tra bene e atto (o attività), attraverso il quale si determina anche un collegamento funzionale tra beni e si realizza la destinazione o una de­stinazione concreta del bene”. Segnala la possibilità di attribuire “una valenza sistematica unitaria all’ assog­gettamento di una massa di beni ad una destinazione particolare”, sottolineando come la destinazione si ponga quale fattore che incide sulla disciplina dei beni e che fa emergere “accanto alla relazione beni-soggetto titolare, la relazione beni-at­tività”, Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., p. XIII della premessa e, ivi, per ulteriori riferimenti. Sulla rilevanza del collegamento tra beni e attività in termini generali e, in particolare, nell’impresa, si rinvia a Masi, Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli 1985, p. 145.

[40] Sotto tale profilo la partecipazione ad una società da parte di un in­vestitore istituzionale potrebbe sottintendere un rapporto tra comportamento e interesse diverso da quello che comunemente caratterizza la partecipazione di un soggetto che investe per conto proprio. Tedeschi, Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005, p. 211.

[41] Ferro-Luzzi, L’assetto e la disciplina del risparmio gestito, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1998, fasc. 3-6, p. 191-206.

[42] L’art. 5, prevede che la Banca d’Italia e la Consob esercitino i poteri di vigilanza sui soggetti abilitati secondo le competenze stabilite. Esso si discosta dal suo antecedente normativo, l’art. 4 d.lgs. 415/1996, in quanto, trattando di soggetti abilitati, amplia il novero degli intermediari tenuti all’osservanza dei regolamenti (e conseguentemente sot­toposti a verifica). Secondo l’art. 1, comma 1, lett. r) sono soggetti abilitati: le im­prese di investimento, le società di gestione del risparmio, le sicav, gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 107 del Testo unico bancario e le banche autorizzate all’esercizio dei servizi di investimento. L’art. 4 d.lgs. 415/ 1996, invece, si rivolgeva solo alle imprese di investimento, le banche e gli altri soggetti abilitati, in conformità delle disposizioni del decreto stesso. Santoni, Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Testo unico della finanza. 1. In­termediari e mercati. Commentario diretto da Campobasso, cit., p. 39 ss.; Rabitti Bedogni, Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Testo unico dell’intermediazione finanziari. Commentano al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, cit., p. 59 ss.

[43] A norma dell’art. 6, comma 1, Tuif, la Banca d’Italia, sentita la Con­sob, disciplina con regolamento:  a) gli obblighi delle SIM e delle SGR in materia di adeguatezza patrimoniale e il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, le partecipazioni detenibili; b)gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di modalità di deposito e sub deposito degli strumenti finanziari e del denaro di pertinenza della clien­tela; c) le regole applicabili agli oicr aventi ad oggetto: 1) i criteri e i divieti rela­tivi all’attività di investimento, avuto riguardo anche ai rapporti di gruppo; 2) le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio; 3) gli schemi-tipo e le modalità di redazione dei prospetti contabili che le società di gestione del ri­sparmio e le sicav devono redigere periodicamente; 4) i metodi di calcolo del va­lore delle quote o azioni di oicr; 5) i criteri e le modalità da adottare per la valu­tazione dei beni e dei valori in cui è investito il patrimonio e la periodicità delle valutazioni. Per la valutazione dei beni non negoziati in mercati regolamentati, la Banca d’Italia può prevedere il ricorso ad esperti indipendenti e richiederne l’in­tervento anche in sede di acquisizione e vendita dei beni da parte del gestore.

In base all’art. 6, comma 1-bis, Tuif, le disposizioni di cui al comma 1, lettera a), prevedono la possibilità di adottare sistemi interni di misurazione dei rischi per la determinazione dei requisiti patrimoniali, previa autorizzazione della Banca d’Italia, nonché di utilizzare valutazioni del rischio di credito rilasciate da società o enti esterni

[44] A norma dell’art. 6, comma 2, Tuif la La Consob, sentita la Banca d’Italia, tenuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei medesimi, disciplina con regolamento gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di: a) trasparenza, ivi inclusi: 1) gli obblighi informativi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento, nonché della gestione collettiva del risparmio, con particolare riferimento al grado di rischiosità di ciascun tipo specifico di prodotto finanziario e delle gestioni di portafogli offerti, all’impresa e ai servizi prestati, alla salvaguardia degli strumenti finanziari o delle disponibilità liquide detenuti dall’impresa, ai costi, agli incentivi e alle strategie di esecuzione degli ordini; 2) le modalità e i criteri da adottare nella diffusione di comunicazioni pubblicitarie e promozionali e di ricerche in materia di investimenti; 3) gli obblighi di comunicazione ai clienti relativi all’esecuzione degli ordini, alla gestione di portafogli, alle operazioni con passività potenziali e ai rendiconti di strumenti finanziari o delle disponibilità liquide dei clienti detenuti dall’impresa; b) correttezza dei comportamenti, ivi inclusi: 1) gli obblighi di acquisizione di informazioni dai clienti o dai potenziali clienti ai fini della valutazione di adeguatezza o di appropriatezza delle operazioni o dei servizi forniti; 2) le misure per eseguire gli ordini alle condizioni più favorevoli per i clienti;3) gli obblighi in materia di gestione degli ordini; 4) l’obbligo di assicurare che la gestione di portafogli si svolga con modalità aderenti alle specifiche esigenze dei singoli investitori e che quella su base collettiva avvenga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell’Oicr; 5) le condizioni alle quali possono essere corrisposti o percepiti incentivi. Per un commento all’art. 6, Piscitello, Articolo 6. Vigilanza regolamentare, in Testo unico della finanza. 1. Intermediari e mercati. Commentario diretto da  Campobasso, cit., p. 48 ss.; Lanotte, Articolo 6. Vigilanza regolamentare, in Testo unico dell’intermediazione finanziari. Commenta­rio al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, cit., p. 82 ss.; Loizzo, Art. 6. Vigilanza regolamentare, in Commentario al testo unico delle dispo­sizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa-Capriglione, t. I, cit., p. 74 ss.

[45] Sulla ripartizione delle competenze tra le due autorità e il relativo di­battito, Costi, Il mercato mobiliare, cit.,p. 143 ss.; e, con specifico riferimento alle sim, Cera, Le società d’intermediazione mobiliare, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, 1, Torino 1993, 3 ss., p. 113 ss.

[46] Sul risultato ottenuto con il Tuif di razionalizzare la gestione profes­sionale del risparmio e, in particolare, la gestione collettiva, Miola, La ge­stione collettiva del risparmio nel T.u.i.f.: profili organizzativi, cit., p. 299 ss.

[47] Per ottenere l’autorizzazione, la società deve rispettare i presupposti oggettivi stabiliti dagli artt. 34 e 43 Tuif, fissare un capitale minimo, predisporre un programma in cui si illustri l’attività iniziale, le linee di sviluppo, gli obiettivi e le strategie che si intendono attuare per i loro perseguimento, nonché, per quel che riguarda le sicav, lo statuto e l’atto costitutivo. il provvedimento della Banca d’Italia si preoccupa anche di stabilire le norme per il controllo dei requisiti di professionalità e di onorabilità, fissati dal Ministero del Tesoro, e dei requisiti dei partecipanti al capitale della società. Qualora esista un gruppo a cui la società di gestione del risparmio appartiene la Banca d’Italia deve anche valutarne l’idoneità dell’articolazione.

In seguito alle modifiche apportate all’art. 34 Tuif, dapprima dall’art. 8 del d.lgs. n. 274 del 2003 e poi dall’art. 8 del d.lgs. n. 164 del 2007, la Banca d’Italia, sentita la Consob, e alle condizioni richieste dalla medesima norma, autorizza non solo  l’esercizio del servizio di gestione collettiva del risparmio e del servizio di gestione portafogli ma anche  del servizio di consulenza in materia di investimenti

[48] Tedeschi, Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005.

[49] Tedeschi, op.cit.

[50] Tedeschi, op. cit.

[51] L’art. 5 stabilisce che le società di gestione del risparmio abbiano la possibilità di assumere partecipazioni in società del settore bancario, finanziario, assicurativo nonché in società strumentali, cioè in società che esercitano in via esclusiva o prevalente attività non finanziarie, ma che hanno carattere ausiliario dell’ attività delle società di gestione del risparmio, come per attività di studio, ri­cerca, analisi economica e finanziaria, gestione di immobili e di servizi informatici (art. 3 lett. e). È invece esclusa la possibilità di acquisire interessenze in società che operano in settori non finanziari. Le partecipazioni detenute non possono ec­cedere il 50% del patrimonio di vigilanza.

[52] Sulla definizione di investitori qualificati si rinvia a Tedeschi, op. cit., dove anche alcune considerazioni circa l’uso delle diverse espressioni di operatori qualificati, investitori professionali e investitori qualificati.

[53] Tale articolo stabilisce che il patrimonio del fondo è investito in: stru­menti finanziari quotati in un mercato regolamentato; strumenti finanziari non quotati in un mercato regolamentato; depositi bancari di denaro; beni immobili e diritti reali immobiliari; crediti e titoli rappresentativi di crediti; altri beni per i quali esiste un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale.

[54] Tedeschi, op. cit. È, pertanto, previsto un limite all’investimento in strumenti finanziari di uno stesso emittente o in parti di uno stesso oicr, nella misura del 5% del totale delle attività. Tale limite è però elevato: al 15% a condizione che si tratti di strumenti finanziari quotati e il totale degli strumenti finanziari degli emittenti in cui il fondo investe più del 5 % delle proprie attività non superi più del 40% del totale delle attività del fondo me­desimo; al 35%, quando gli strumenti finanziari sono emessi o garantiti da uno Stato aderente all’OCSE o da organismi internazionali di carattere pubblico di cui fanno parte uno o più Stati membri dell’Unione Europea; al 100% quando gli stru­menti finanziari sono emessi da uno Stato aderente all’OCSE, purché tale facoltà sia contemplata nel regolamento di gestione del fondo e il valore di ciascuna emis­sione non superi il 30% del totale delle attività del fondo; al 10%, nel caso di investimento in parti di OICR rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 85/611 CEE, limite ulteriormente elevato al 20% se il regolamento del fondo preveda di investire esclusivamente in parti di oicr.

[55] I fondi aperti non possono essere in­vestiti in misura superiore al 20% del totale delle attività in depositi presso un’u­nica banca, riducibile al 10% nel caso di depositi presso la banca depositaria del fondo. I depositi in banche dello stesso gruppo non possono eccedere il 30% delle attività del fondo. Questa disposizione si applica, anche ai fondi chiusi, mentre non si applica ai fondi armonizzati a cui è fatto divieto di investire in depositi bancari.

[56] Tedeschi, op. cit..

[57] L’art. 2, lett. a) del d.m. 21 novembre 1996, n. 703, regolamento re­cante norme sui criteri e sui limiti di investimento delle risorse dei fondi pensione e sulle regole in materia di conflitto di interessi, stabilisce che il fondo pensione operi in modo che le proprie disponibilità siano gestite in maniera sana e pru­dente avendo riguardo agli obiettivi di diversificazione degli investimenti; effi­ciente gestione del portafoglio; diversificazione dei rischi; contenimento dei costi e massimizzazione dei rendimenti. A tal fine i successivi artt. 4 e 5 dispongono precisi limiti per l’investimento del patrimonio del fondo e precisi vincoli per de­terminate operazioni.

[58] I fondi aperti sono fondi speculativi caratterizzati dalla necessità di avere sempre la liquidità necessaria alla liquidazione della quota che può essere richiesta in ogni momento dal sottoscrittore. I fondi chiusi, invece, liquidano le quote alla scadenza e ciò consente durante la vita del fondo il compimento di scelte di investimento profondamente diverse.

[59] Tra coloro che, per tale ragione, non considerano i fondi pensione come organismi di investimento collettivo, Ferrara, Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano 1999, p. 828, nt. 1; Costi, Il mercato mobiliare, cit., p. 196, il quale, pur precisando che la funzione dei fondi pensione è previdenziale e non di investitore istituzionale, tuttavia considera che la loro attività di gestione delle ri­sorse, traducendosi normalmente in operazioni di investimento e disinvestimento mobiliare, li rende investitori istituzionali di grande rilevanza.

[60] In realtà, attraverso la suddivisione degli investimenti tra titoli diversi ed emessi da emittenti diversi, può essere diminuito solo il rischio specifico, che dipende dalle caratteristiche peculiari dell’ emittente, mentre il rischio sistemico, che è connesso alle fluttuazioni del mercato, non può essere ridotto attraverso la diversificazione del portafoglio

[61] Distingue tra finalità specifiche e finalità generali dell’ attività di vigi­lanza Rabitti-Bedogni, Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Te­sto unico dell’intermediazione finanziari. Commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, cit., p. 66. Si sostiene, infatti, che esistono due gruppi di scopi: un primo gruppo di finalità definite specifiche che riguardano la trasparenza, la correttezza dei comportamenti, la sana e prudente gestione; un se­condo nucleo di finalità generiche che, invece, sarebbero quelle di tutela degli in­vestitori, della stabilità del buon funzionamento del sistema finanziario. Si discute se le finalità specifiche siano obiettivi strumentali rispetto alle finalità generiche le quali avrebbero solo una portata programmatica, mentre il valore precettivo della norma riguarderebbe solo le prime. Sulla portata del dibattito, Santoni, Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Testo unico della finanza. 1. Inter­mediari e mercati, cit., p. 42 ss.

[62] Gli ampi poteri regolamentari della Consob riguardano anche la disci­plina delle procedure dei servizi prestati e, dunque, la previsione di regole rela­tive al sistema di controllo interno destinato a monitorare la regolarità dei servizi prestati, la indicazione di disposizioni riguardanti la tenuta degli ordini impartiti e le operazioni effettuati in modo da poterne verificare la corrispondenza (art 6, comma 2, lett. a). Inoltre, la disciplina regolamentare della Consob deve preoccu­parsi di disciplinare il sistema di flussi informativi in modo che l’intermediario, da un lato tenga al corrente il cliente delle operazioni, ma, dall’ altro, eviti interfe­renze tra i suoi diversi comparti (art. 6, comma 2, lett. b).

[63] Rabitti-Bedogni, Articolo 21, comma 1, lett. a e b. Criteri generali, in Il testo unico dell’intermediazione fi­nanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, cit., p. 169 ss.; Vella, Articolo 40. Regole di comportamento e diritto di voto, in Testo unico della finanza. 1. Interme­diari e mercati. Commentario a cura di Campobasso, cit., 357 ss.; Zizzi, Articolo 40. Regole di comportamento e diritto di voto, in Il testo unico dell’inter­mediazione finanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, cit., p. 309 ss.; Alpa, Art. 21. Criteri generali, in Commentano al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa-Capriglione, cit., p. 212 ss.

[64] Santoro, Gli obblighi di comportamento degli intermediari mobiliari, in Riv. soc., 1994, 791 ss., il quale sviluppa due considerazione: ove l’ordi­namento speciale presenti delle lacune soccorrerà l’applicabilità diretta dei prin­cipi generali (spec. 793 ss.); le norme speciali sono specificazione dei principi ge­nerali relativi agli obblighi di comportamento di chi agisce per conto altrui (spec. 799 ss.); Cera, L’attività di intermediazione mobiliare e la disciplina contrattuale, in Banca, borsa tit. cred., 1994, I, p. 23 ss.

[65] Per quanto riguarda i criteri a cui le imprese di investimento e le ban­che debbono attenersi nella prestazione dei servizi, l’art. 21 Tuif, oltre all’obbligo di comportarsi con diligenza correttezza e trasparenza, impone di acquisire le in­formazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adegua­tamente informati. Il primo comma di tale articolo, così come sostituito dall’art. 4 del d. lgs. n. 164 del 2007, così testualmente recita: Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità ei mercati; b) acquisire, le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività.

[66] Cera, L’attività di intermediazione mobiliare e la disciplina contrat­tuale, cit., 23 ss.; Annuniziata, Regole di comportamento degli intermediari e ri­forme dei mercati mobiliari: l’esperienza francese, inglese e italiana, Milano 1993. Sul punto v. anche Costi, Il mercato mobiliare, cit., p. 125, il quale, pur rite­nendo che i criteri generali dettati dal Tuif in materia di prestazione di servizi di investimento, siano in qualche misura ripetitivi di norme di diritto comune, tuttavia, ritiene che la loro esplicita previsione dovrebbe favorire sia l’attività di vigi­lanza sia il successo di eventuali azioni risarcitorie da parte dei clienti; Di maio, La correttezza nell’attività di intermediazione mobIliare, in Banca, borsa e tit. cred., 1993, I, p. 289 ss. Per una più ampia indagine che attribuisce a chi esercita un’attività professionale i cosiddetti “obblighi di protezione”, Castronovo, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto, Scritti in onore di Mengoni, I, Milano 1995, p. 147 ss.; Scogliamiglio, Sulla responsabilità dell’impresa bancaria per violazione di obblighi discendenti dal proprio status, in Giur. it., 1995, IV, p. 356 ss.; Venuti, Le clausole generali di correttezza, diligenza e trasparenza nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziano, in Europa dir. priv., 2000, p. 1049 ss.

[67] Masi, Articolo 92. Punto di trattamento, in Testo Unico della Fi­nanza. Commentario diretto da Campobasso, II, Emittenti, Torino 2002, p. 750 ss.; Di maio, La correttezza nell’attività di intermediazione mobiliare, cit., 289 ss., il quale, riferendosi all’ attività di intermediazione mobiliare, sostiene che l’assetto tradizionale, per cui la professionalità è attributo della diligenza e in­sieme con questa caratterizza la perizia del soggetto che agisce in relazione all’ at­tività svolta e la correttezza indica la qualità del comportamento che si esige da un uomo medio, vada rivisto. Infatti, in un sistema in cui oggetto della disciplina è l’attività di intermediazione mobiliare, anche la correttezza acquista una valenza professionale, nel senso che la correttezza richiesta non è più solo collegata all’uomo medio, ma all’intermediario autorizzato in relazione alla specifica attività da esso svolta (spec. 292); Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 207 ss.

[68] ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, Giappichelli –Torino, 2008.

[69] Il primo comma dell’art. 13 Tuif, così come modificato dal d.lgs. n. 37 del 6.02.2004, così recita: I soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso Sim, società di gestione del risparmio, Sicav, devono possedere i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza stabiliti dal Ministero dell’economa e delle finanze, con regolamento adottato sentite la Banca d’Italia e la Consob.

[70] A seguito del d.lgs. n. 37 del 6.02.2004, l’art. 13 Tuif è rubricato Requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza degli esponenti aziendali.

[71] Santoro, Gli obblighi di comportamento degli intermediari mobiliari, cit., 799 ss., il quale sottolinea come “tale processo evolutivo porti a re­gole sempre più complesse e dettagliate per il cui rispetto si istituisce un con­trollo pubblico con la funzione di compensare il venire meno della fiducia tra le parti del singolo rapporto, per soppiantarla con una “fiducia” nel buon funziona­mento del sistema”.

[72] Per un commento generale alla nuova disciplina della gestione in monte . si rinvia a Tonelli, Le società di gestione del risparmio, in AA.VV., Intermedia­ri finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, p. 15 e ss.; AA.VV., Commenti sub art. 33 e seguenti, in Il testo unico della intermediazione finanziaria, a cura di Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p. 275 e ss.; AA.VV. (Ferro Luzzi, Lener, Annunziata, Bisogni, Desiderio, Galante, Ristuccia, Sepe, Tofanelli e Zannotti), Testo unico delle dispo­sizioni in materia di mercati finanziari, in Quaderni di documentazione e ricerca di Assogestioni, n. 21, 1998, p. 95 e ss.; AA.VV., Commenti sub art. 33 e seguenti, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, tomo I, p. 349 e ss.; Recine, La gestione collettiva del risparmio, in AA.VV., Il testo unico dei mercati finanziari, Quaderni della Gazzetta giuridica Giuffrè – Italia Oggi, Milano, 1998, p. 39 e ss; Galante – Lener, Prime riflessioni sulle società di gestione del risparmio, in AA.VV., La riforma del mercato finanziario e delle società quotate, Milano, 1998, p. 530 e ss.; Lener, La SGR nel regolamento Consob di attuazione del T.U.F., in Le società, 1998, p. 1123 e ss.; Galante, La gestione collettiva alla luce dei regolamenti Consob e Banca d’Italia, in Le società, 1998, p. 1131 e ss.; Bisogni, I modelli organizzativi della SGR nella prestazione del servizio di gestione collettiva, in Le società, 1998, p. 1137 e ss.; Battigaglia Pantano, Società di gestione del risparmio: il provvedimento emanato dalla Banca d’Italia, in Le so­cietà, 1998, p. 1130 e ss.; Mongiello, La società di gestione del risparmio (la nuova figura del “gestore unico”), in Contratto e impresa, n. 3, 1999, p. 1458 e ss.

[73] In tema Soda, Commento sub art. 33, cit., p. 279, e Mongiello, La società di gestione del risparmio (la nuova figura del “gestore unico”), in Contratto e impresa, n. 3, 1999, cit., p. 1464 e ss.

[74] Sanguinetti, Forte, Le società di gestione del risparmio: novità legislative, prodotti, modalità di controllo dei limiti di contenimento del rischio, regole di comportamento, performance attribution, segnalazioni di vigilanza, Milano 2004; Sepe, Il risparmio gestito,Bari 2000.

[75] Ciò è possibile evincere dal combinato disposto dell’art. 1, comma 1, lettere n) e m). Tonelli, Le società di gestione del risparmio, cit., p. 33, con riferimento all’ipotesi di Sicav che deleghino alle Sgr poteri di gestione relativamente all’intero loro patrimonio, ai sensi dell’art. 43 comma 7 del TUF, ritiene la fattispecie non riconducibile a fenomeni di delega di gestione, né di gestione collettiva in senso pieno, bensì “la vicenda dell’ affidamento dell’ in­carico ad altro intermediario potrebbe essere piuttosto avvicinata (e comunque con tutte le riserve connesse alla diversità di fattispecie), all’articolazione del servizio nella “promozione” ecc., e nella “gestione” di cui all’art. 1, lett. n)”

[76] Cfr. Rabitti Bedogni, Commento sub art. 33, in AA.VV., Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, cit., p. 357 e Mongiello, La società di gestione del risparmio (la nuova figura del “gestore unico”), cit., p. 1469.

[77] Come è stato efficacemente sottolineato, Mongiello, La società di gestio­ne del risparmio (la nuova figura del “gestore unico” ), cit., p. 1468, nota n. 30, se “nel vigore della previgente legislazione, a seconda della struttura del fondo si definivano i tipi di investimento effettuabili ed i limiti ad essi connessi, con l’emanazione del TUF, è invece a seconda dell’oggetto dell’investimento e quindi del comparto in cui il fondo si specializza, che si definiscono i casi in cui lo stesso debba assumere una particolare struttura”.

[78] La Banca d’Italia non ha ancora provveduto ad individuare le attività connesse e strumentali consentite alle Sicav, profilo questo già restrittivamente regolato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 84 del 1992, contrariamente a quanto fatto per le Sgr (cfr. provv. del 1.07.1998, cap. II, in G.U. n. 160 del 11.07.1998).

[79] Sul punto Costi, Il mercato mobiliare, in AA.VV., Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore, 1997, Torino, p. 806 e ss.

[80]Cfr. per tutti, Costi, op. ult. cit., p. 787.

[81] Con la necessità di dover seguire il procedimento autorizzativo di cui all’art. 34 T.U.

[82] Cfr. art. 18, comma 2 e art. 33 comma 2 del T.U. Ciò ovviamente non esclude che qualora una società di gestione del risparmio che svolge solo attività promozionale ed amministrativa intenda dedi­carsi alle gestioni individuali (e non anche a quelle collettive) debba comunque dimostrare all’autorità di vigilanza in sede autorizzatoria il possesso di compe­tenze tecniche e risorse adeguate per l’attività gestoria.

[83] Per i rilievi critici a tale previsione sono contenuti nel provv. del 20.09.1999 (in G.U. n. 230 del 30.09.1999). Dubbio poi resta anche se le società di gestione del risparmio di tipo speculativo possano o meno ricevere deleghe di gestione relative a patrimoni (che non siano di loro istituzione) diversi dai fondi speculativi.

[84] Vedi sempre il provv. della Banca d’Italia del 20 settembre 1999, secondo il quale le società di gestione del risparmio possono assumere parteci­pazioni nel settore bancario, finanziario e assicurativo, nonché quelle di natura strumentale, mentre resta esclusa la possibilità di acquisire interessenze in socie­tà che operano in settori non finanziari.

[85] Si tratta, in linea di massima, delle stesse attività considerate strumentali per le Sim, sulla base del previgente regolamento del 2 luglio 1991 (art. 4), con l’inserimento della amministrazione di immobili ad uso funzionale e l’esclusio­ne dell’ attività di formazione e addestramento del personale.

[86] Nello stesso senso Tonelli, Le società di gestione del risparmio, cit., p. 18, il quale estende le sue perplessità anche alla prestazione di servizi accessori connessi all’emissione e al collocamento di strumenti finanziari, non considerando tuttavia che le società di gestione del risparmio possono offrire fuori sede (e quindi collocare) quote e azioni di OICR. In particolare, l’Autore, censura la liberalità ritenuta eccessiva ed inconsueta verso le società di gestione, stigmatizzando il rischio di un incremento “di situazioni di conflitto di interes­si del quale, in verità, non si sentiva affatto bisogno, considerato il livello, elevatissimo, già presente nell’ operatività del gestore unico”.

[87] In particolare, il testo unico conferma la separazione della disciplina dell’offerta fuori sede, intesa come modalità operativa per lo svolgimento dei servizi finanziari, da quella della sollecitazione del pubblico risparmio, attività quest’ultima che, in aderenza alle previsioni comunitarie (direttiva 93/22/CEE), ha perso la qualifica di autonomo servizio d’intermediazione mobiliare, in pre­cedenza riconosciutagli dall’art. 1, comma 1, lett. f), della legge n. 1 del 1991 (Zitiello, Decreto Eurosim: la disciplina degli intermediari e delle attività, in Le società, 1996, p. 1015). Del resto già in passato era stato segnalato come l’art. 1/18 ter, della legge n. 216 del 1974, nel definire il concetto di sollecitazione del pubblico risparmio facesse “uso di categorie non interamente omogenee tra loro” e, in particolare, che il riferimento a “ogni forma di collocamento porta a porta, a mezzo circolari e mezzi di comunicazione di massa in genere” inducesse a porre l’attenzione “non tanto alla nozione di collocamento, quanto alle locuzioni indicate in corsivo, le quali stanno ad indicare le tecniche e gli strumenti materiali estesamente impiegati nella sollecitazione del rispar­mio” (Ferrarini, I modi della sollecitazione del risparmio, in Banca borsa e tit. di cred., 1991, p. 16). Il testo unico, sulla scia del decreto Eurosim, ribadisce pertanto che l’offerta fuori sede di servizi e strumenti finanziari, siano propri o di terzi, non costituisce un servizio d’investimento a sé stante, ma solamente una tecnica di distribuzione degli stessi, una modalità con la quale realizzarne il collocamento (questo sì da considerarsi servizio d’investimento), dandone una definizione unitaria e ad ampio spettro, tale da coprire ogni forma di promozione e collocamento presso il pubblico di strumenti finanziari o di servizi d’investi­mento. Sul punto, ormai pacifico, cfr. per tutti Patroni Griffi, Il decreto Eurosim e l’offerta fuori sede di strumenti finanziari e di servizi d’investimento, in Giur. comm., 1997, p. 5 e ss.; Pagnoni, Commento sub art. 30, in AA.VV., Commen­tario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, Padova, 1998, p. 323 e ss. Sul piano interpretativo si è posto il problema se la “mera promozione” integri la fattispecie in esame ovvero se l’espressione “pro­mozione e collocamento” vada unitariamente intesa, argomentandosi convincen­temente per la prima soluzione nonché in quale rapporto si collochi la “mera promozione” di prodotti e servizi finanziari con la pubblicità finanziaria. In dottrina vi è infatti chi ritiene che la promozione e il collocamento che integrano il concetto di offerta fuori sede siano cosa ben distinta dalla mera pubblicità finanziaria: i primi si svolgono all’interno di un rapporto diretto e personale, volto a stimolare la propensione all’acquisto del singolo investitore, la seconda si caratterizza per la sua destinazione in incertam personam e per il suo carattere prevalentemente informativo (in tal senso, con riferimento ai servizi finanziari AA.VV., Il diritto del mercato finanziario alla fine degli anni ottanta, a cura di Costi, Milano, 1990, p. 297; mentre con riferimento alla disciplina bancaria TALENTINO, Commento sub art. 116, in AA.VV., Commenta­rio al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova, 1994, p. 586). Da altri, si afferma invece la natura sollecitatoria della pubblicità, incen­trandone il dato comune nella promozionalità del messaggio, considerato che “come ormai pare acquisito, la pubblicità è diretta più a persuadere che a informare” (con riferimento alla pubblicità finanziaria così Ferrarini, op. cit., p. 28, mentre con riferimento alla normativa bancaria Gaggero, Commento sub art. 116, in AA.VV., Disciplina delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Capriglione, Padova, 1995, p. 390). Sul punto pare preferibile la tesi che tende a mantenere distinta l’attività promozionale rivolta alla conclusione di contratti rispetto a quella meramente pubblicitaria, se non altro poiché lo stesso testo unico nel disciplinare all’articolo 32 la promozione e il collocamento mediante tecniche di comunicazione a distanza di servizi d’investimento e strumenti fi­nanziari, espressamente ripropone la distinzione tra tali tecniche e la pubblicità.

[88] L’argumentum a contrario è di Rabitti Bedogni, Commento sub art. 33, in AA.VV., Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di inter­mediazione finanziaria, cit., p. 355, pur se l’art. 30, comma 4, si riferisce all’of­ferta fuori sede di “servizi d’investimento” e non anche di strumenti finanziari. Tonelli, op. ult. cit., p. 21, nota 11, ritiene invece che la norma in questione non contempli le società di gestione del risparmio (e gli intermediari finanziari ex art. 107 TUB), in quanto questi soggetti non possono essere autorizzati alla prestazione del servizio di collocamento.

[89] L’art. 31, comma 3 (poi divenuto art. 30 comma 3) del testo approvato in via preliminare il 19 dicembre 1997, prevedeva infatti che l’offerta fuori sede di strumenti finanziari potesse essere effettuata “dalle società di gestione del risparmio e dalle Sicav, limitatamente alle quote di partecipazione e alle azioni emesse da OICR propri”. La specificazione di “propri” è venuta meno in con­formità al parere reso dal Senato (relatore Polidoro) l’11 febbraio 1998, che tuttavia non enuncia le ragioni della modifica.

[90] Quella promozionale – amministrativa e quella concretamente gesto­ria.

[91] Sia poi l’uno o l’altro l’istitutore del fondo.

[92] E ciò per evidenti ragioni di tutela della clientela stessa, considerata la responsabilità solidale che assumono nei suoi confronti gestore e società promo­trice. Il ragionamento può essere esteso anche al soggetto delegato alla gestione ex art. 33, in virtù della responsabilità che a lui fa capo anche con riguardo alla clientela.

[93] Limita la sua attenzione solo a questo secondo profilo Tonelli, op. ult. cit., p. 22 e ss. il quale, sottolinea che, il problema non si pone quando la società di gestione del risparmio si dà quale oggetto sociale la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio o quello proprio delle società promotrici, in quanto l’offerta fuori sede di quote di OICR ben può essere definita come una modalità di esecuzione dell’attività di promozione, istituzione e organizzazione del fondo comune d’investimento.

[94] In G.U. 17 luglio 1998 n. 165, suppl. ord. n. 125.

[95] In G.U. 10 marzo 2000, n. 58.

[96] Negli stessi termini anche Di Carlo – Guffanti, Commento alla delibera 12409/2000, in Le società, n. 5/2000, p. 630. Contra però Patroni Griffi, L’offerta fuori sede, in AA.VV., Intermediari finanziari, mercati e società quo­tate, Torino, 1999, p. 247 e ss. che non ritiene decisivo il testo dell’art. 55 del regolamento Consob, quanto piuttosto il differente tenore della norma primaria rispetto quella previgente.

[97] Sul punto si veda Rabitti Bedogni, Commento sub art. 33, cit., p. 360. Cfr. anche art. 53 del regolamento Consob n. 11522 del l luglio 1998, cit. (come modificato dalla delibera 12409/2000).

[98] C’è invece chi ritiene che sulla base dell’art. 53 del regolamento Consob n. 11522 la delega di gestione possa essere riferita alla totalità del patrimonio dell’OICR, Bisogni, I modelli organizzativi della SGR nella prestazione del servizio di gestione collettiva, in Le società, 1998, p. 1140; e ABI, Circolare del 28 dicembre 1998, Serie tecnica n. 144, p. 21. Ma vedi Regolamento Banca d’Italia, 2 luglio 1998, cit., cap. VII, sez. II, par. 3, secondo il quale devono essere previsti “i settori e/o i mercati in cui il delegato è chia­mato a operare”.

[99] Sul punto vedi Regolamento Banca d’Italia, 2 luglio 1998, cit., cap. VII, sez. II, par. 3.

[100] Secondo B.I., “costante” secondo Consob.

[101] In altri punti, oltre quello della tempistica del flusso informativo, la norma­tiva secondaria emanata da Banca d’Italia e Consob (Regolamento Banca d’Italia, 2 luglio 1998, cit., cap. VII, sez. II, par. 3 e art. 53 del regolamento Consob n. 11522 del l luglio 1998, cit.) non appare pienamente sovrapponibile. In particolare, le disposizioni Banca d’Italia prevedono che: la delega non deve avere carattere esclusivo, non sia necessaria una durata determinata, debbano essere disciplinate le modalità di esercizio della funzione di controllo da parte del delegante e della banca depositaria. Nella regolamentazione Consob è invece richiesto che la delega abbia durata determinata (fatta salva la rèvoca immediata) e sia formulata in modo da assicurare il rispetto delle disposizioni in materia di conflitto d’interessi con riferimento a soggetto delegante e delegato. Viene poi espressamente esclusa la necessità per il delegante di impartire periodicamente istruzioni nel caso di delega i cui atti esecutivi siano subordinati al preventivo assenso del delegante.

[102] Cfr. Soda, Commento sub art. 33, cit., p. 281.

[103] Cfr. AA.VV., Testo unico delle disposizioni in materia di mercati finan­ziari, in Quaderni di documentazione e ricerca di Assogestioni, n. 21, cit., p. 96 e ABI, Circolare del 28 dicembre 1998, Serie tecnica n. 144, p. 10 e 11, ove si chiarisce che la linea di demarcazione tra il ruolo del delegante e quello del delegato nelle gestioni individuali attiene non già alla percentuale di portafoglio che può essere delegato (c.d. limite quantitativo della delega), bensì alle attività delegabili o meno (c.d. limite qualitativo della delega) e che la delega può essere conferita solo a soggetti autorizzati a prestare il servizio di gestione individuale, anche se esteri, purché omologhi alle nostre Sgr, se dediti al contempo alla gestione in monte.

[104] Soda, op. ult. loc. cit.

[105] Rabitti Bedogni, op. ult. cit., p. 360.

[106] Per la riconducibilità della fattispecie prevista dall’art. 43, comma 7, ad ipotesi di articolazione organizzativa del servizio unitario di gestione e non di delega in senso stretto.

[107] Antonucci, Le società d’investimento a capitale variabile, in AA.VV., Intermediari finanziari, mercati e società quotate, Torino, 1999, p. 107 e ss. ove anche un’attenta analisi della compatibilità dell’art. 53 del regolamento Consob con i principi di cui all’art. 43, comma 7 del T.U. L’autrice segnala anche i rischi di illegittimità dell’art. 43, comma 7, ove questo fosse interpretato nel senso di disporre una riserva a favore delle Sgr italiane per il ruolo di soggetto delegato al patrimonio delle Sicav.

[108] Cfr. Assogestioni, La disiciplina delle gestioni patrimoniali: SGR, Fondi comuni e SICAV, in Quaderni di documentazione e ricerca, n. 23, 2000, p. 275 ss.

[109] Sul punto Angelici, Attività e organizzazione : studi di diritto delle società, Torino 2007.

 il quale sottolinea la ricaduta della riforma introdotta dal testo unico sul ruolo dell’assemblea nelle società quotate, destinata a divenire, secondo l’autore “una stanza di compensazione” nella quale si ratificano accordi tra management e grandi investitori istituzionalizzati.

[110] Sul punto Preite, Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Le privatizzazioni in Italia a cura di Marchetti, Milano 1995, p. 255 ss.

[111] Avanza dubbi in proposito Angelici, Attività e organizzazione : studi di diritto delle società p. 222

[112] In tal senso Angelici, Attività e organizzazione : studi di diritto delle società p. 219.

[113] Il ricorso alla minaccia di avvalersi di “strumenti di rottura” da parte degli investitori istituzionali è noto all’esperienza statunitense degli ultimi anni ed ha costituto oggetto di riflessioni in dottrina. Sul punto soprattutto Coffee, Liquidity versus control: The istitutional invento ras corporate monitor, in Columbia Law Review 91(1991), pp. 1618 ss.; Pound, The rise of the political model of corporate governance and corporate control, in New York University Law Review 68(1993) p. 1007. Nella dottrina italiana cfr. Enriques, Nuova disciplina delle società quotate e attivismo degli investitori istituzionali, fatti e prospettive alla luce dell’esperienza anglosassone, in Giur. comm. 1998, I, p. 680 e ss.

[114] Studio condotto da Assogestioni, maggio 1999, a cura di Maugeri.

[115] Costi, Risparmio gestito e governo societario, in Giur comm,, 1998, I, p. 313 ss.

[116] Quest’ultima ipotesi pone in astratto il problema di stabilire se, e entro quali limiti si applichi alla società di gestione, la disposizione dettata dall’art. 2373 c.c. In realtà un’analisi attenta del fenomeno gestorio dimostra che al gestore di patrimoni, per la stessa natura dell’attività esercitata, non può applicarsi la norma codicistica sul conflitto (e il connesso dovere di astensione) se non nell’ipotesi limite di conflitto tra interesse dell’emittente e interesse della società di gestione del risparmio ( es. in deliberazioni concernenti negozi che vedano i due soggetti come parti correlate o contrapposte, ovvero relative ad operazioni che investano la società controllante: la SGR).

[117] Sul complesso delle attività che svolgono i predetti soggetti è previsto il controllo della Banca d’Italia e della Consob.

[118] Gualtieri, I fondi comuni di investimento in Italia: performance, costi, visibilità e flussi di sottoscrizione e riscatto, Bologna 2006.

[119] Per strumenti finanziari derivati si intendono: a) i contratti “futures” su strumenti finanziari, su tassi di interesse, su valute, su merci e sui relativi in­dici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; b) i contratti di scambio a pronti e a termine (swaps) su tassi di inte­resse, su valute, su merci nonché su indici azionari (equity swaps), anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; c) i con­tratti a termine collegati a strumenti finanziari, a tassi d’interesse, a valute, a merci e ai relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il paga­mento di differenziali in contanti; d) i contratti di opzione per acquistare o ven­dere gli strumenti indicati nelle precedenti lettere e i relativi indici, nonché i con­tratti di opzione su valute, su tassi d’interesse, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; e) le combinazioni di contratti o di titoli.

[120] La Banca d’Italia, ha specificato che i fondi aperti (della specie) che in­tendano qualificarsi come “armonizzati” (rientranti cioè nel campo di applica­zione della direttiva 85/611/CEE) sono tenuti a riprodurre un indice la cui com­posizione rispetti le regole di frazionamento del portafoglio previste dalla richia­mata direttiva.

[121] Assogestioni, con la Circolare 1276 del 2 agosto 2002 ha chiarito che per i fondi armonizzati valgono le limitazioni previste dalla direttiva 85/611 CEE. In particolare l’investimento in parti di altri OICR aperti armonizzati è consen­tito entro il limite complessivo del 5% del totale delle attività del fondo acqui­rente ed entro il limite del 10% del totale delle quote o azioni dell’OICR oggetto d’acquisto. Quanto all’investimento del patrimonio di un fondo armonizzato in parti di OICR chiusi, tale investimento è consentito a condizione che le parti dell’OICR di tipo chiuso siano quotate e che la composizione del portafoglio dell’OICR chiuso acquistato, quale risulta dalle previsioni regolamentari, sia compatibile con la politica d’investimento del fondo acquirente. Agli investimenti in questione si applica il limite di concentrazione del 5% del totale delle attività del fondo acquirente. Per quanto attiene all’investimento del patrimonio di un fondo aperto armonizzato in parti di OICR non armonizzati non quotati, questa Associazione, anche in considerazione del futuro recepimento della direttiva 2001/108/CE, intende sottoporre all’Autorità di vigilanza uno specifico quesito sul punto, stante l’impossibilità di risolvere la questione per le vie brevi. Com’è noto la direttiva 85/611/CE consente l’acquisto di parti di altri OICR di tipo aperto entro il limite complessivo del 5% del totale delle attività del fondo acquirente ed entro il limite del 10% del totale delle quote o azioni dell’OICR oggetto d’acquisto. Con la direttiva 2001/108/CE che modifica la direttiva 85/611/CE (di seguito: la Direttiva) gli OICR armonizzati potranno invece investire le loro attività in parti di altri OICR armonizzati e/o in parti di altri organismi di investimento collettivo di tipo aperto che investono anch’essi in attività finanziarie liquide e che operano in base al principio della ripartizione dei rischi (di seguito: OICR aperti non armonizzati), fino al 100% del totale delle attività del fondo acquirente, ma alle seguenti condizioni: – gli OICR aperti non armonizzati oggetto di investimento siano autorizzati in base ad una legislazione che ne preveda la soggezione a regole di vigilanza considerate dalle autorità competenti per il fondo armonizzato acquirente equivalenti a quelle stabilite dalla legislazione comunitaria. Deve inoltre risultare sufficientemente garantita la cooperazione tra le autorità; – il livello di protezione garantito ai sottoscrittori di quote di OICR aperti non armonizzati sia equivalente a quello previsto per i sottoscrittori di quote di un OICR armonizzato e in particolare le norme concernenti la segregazione degli attivi, i prestiti, concessi e assunti, e le vendite allo scoperto di valori mobiliari e di strumenti del mercato mobiliare siano soggetti a regole equivalenti a quelle previste dalla direttiva 85/611/CE; – l’operatività degli OICR aperti non armonizzati sia oggetto di relazioni semestrali e annuali che consentano una valutazione delle attività e delle passività, del reddito e delle operazioni compiute nel periodo di riferimento; – i regolamenti (o gli statuti) degli OICR aperti non armonizzati oggetto di potenziale acquisto devono prevedere che non oltre il 10% delle attività degli stessi OICR sia investito in quote di altri OICR armonizzati o di altri OICR aperti non armonizzati. – l’investimento complessivo in uno stesso OICR (armonizzato o aperto non armonizzato) non superi il 20% delle attività del fondo acquirente; – l’investimento in OICR aperti non armonizzati non superi il 30% delle attività del fondo acquirente. Il recepimento in Italia delle modifiche apportate alla Direttiva renderà quindi possibile con la figura del fondo armonizzato ciò che attualmente è consentito in Italia con il fondo aperto non armonizzato. Tuttavia, rispetto alla disciplina nazionale diverse sono le condizioni e i limiti d’investimento in parti di OICR aperti non armonizzati. Ed infatti, rispetto alla disciplina nazionale, la considerazione autonoma dell’investimento in parti di OICR aperti non armonizzati (a prescindere dalla quotazione o meno dell’OICR), consente, da un lato, l’ampliamento delle possibilità d’investimento in parti di OICR aperti non armonizzati non quotati, essendo tale investimento ammissibile entro il limite complessivo del 30% del totale delle attività del fondo acquirente ed il limite di concentrazione del 10% (e non già del 10% e del 5% come per la disciplina italiana); dall’altro comporta la limitazione dell’inves­timento complessivo in parti di OICR aperti non armonizzati quotati, essendo l’investimento possibile solo entro il limite complessivo del 30%, sebbene entro un limite di concentrazione più elevato del 20%.

[122] I warrant e i diritti di opzione connessi ad operazioni sul capitale delle società emittenti non sono considerati strumenti finanziari derivati. Tuttavia, il loro valore va a incrementare la posizione nel titolo cui danno diritto. Peraltro, si segnala che ai sensi dell’articolo 28 (Informazioni tra gli intermediari e gli inve­stitori), comma 3 del vigente Regolamento CONSOB n. 11522/1998: “Gli inter­mediari autorizzati informano prontamente e per iscritto l’investitore appena le operazioni in strumenti derivati e in warrant da lui disposte per finalità diverse da quelle di copertura abbiano generato una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni. Il valore di riferimento di tali mezzi si rideter­mina in occasione della comunicazione all’investitore della perdita, nonché in caso di versamenti o prelievi. Il nuovo valore di riferimento è prontamente comu­nicato all’investitore. In caso di versamenti o prelievi è comunque comunicato all’investitore il risultato fino ad allora conseguito.

[123] Con Circolare n. 2524/99/C del 4 ottobre 1999, Assogestioni ha speci­ficato che la nuova disciplina afferma tre principi che costituiscono il riferimento principale per la valutazione di ammissibilità di ogni operazione in strumenti de­rivati o in titoli strutturati. Il rispetto operativo dei limiti di impegno deve essere integrato, comunque, da una più ampia e approfondita analisi della correttezza delle operazioni poste in essere. Il paragrafo 4.1 del nuovo Regolamento stabili­sce che: l) l’utilizzo di strumenti derivati è consentito a condizione che il regola­mento del fondo ne definisca i criteri di utilizzo e le finalità perseguite; 2) l’uti­lizzo di strumenti derivati non può in alcun caso alterare il profilo di rischio in­dicato tra gli obiettivi del fondo espressi nel regolamento; 3) l’utilizzo di strumenti derivati non può configurarsi come vendita allo scoperto. Le finalità e i cri­teri di utilizzo degli strumenti derivati che devono essere definiti nel regolamento del fondo si possono riferire ad almeno tre tipologie fondamentali: a) la copertura dei rischi, ossia la riduzione della sensibilità del valore del portafoglio alle flut­tuazioni dei prezzi degli strumenti finanziari detenuti. L’utilizzo di strumenti de­rivati si configura come una vendita delle attività finanziarie detenute in portafo­glio e un riposizionamento sulla liquidità; b) la gestione efficiente di portafoglio, che può configurarsi ad esempio nella rapida modifica delle caratteristiche di du­ration di un portafoglio obbligazionario qualora la compravendita dei titoli so t­tostanti risulti più lenta e onerosa a causa delle condizioni di liquidità e di diffi­coltà operativa; in generale l’efficient portfolio management si configura come una modifica del profilo di rischio che non ha l’obiettivo di ridurre la volatilità del valore di portafoglio, bensì quello di adeguarla ai cambiamenti repentini delle condizioni di mercato e che quindi è propedeutica al più graduale riposiziona­mento del portafoglio titoli. In quest’ambito si può ulteriormente precisare che, in ordine all’impiego di varie tipologie di contratti “swap”, i flussi debitori devono essere coperti da attività finanziarie detenute in portafoglio mentre i flussi creditori devono essere congruenti con le politiche di investimento del fondo; c) la gestione speculativa, ossia l’applicazione di un moderato grado di leva finanziaria (che come si argomenterà più avanti trova una delimitazione ben precisa nell’ambito del calcolo degli impegni ed è pari allo 0.10 puntuale). La finalità più propriamente speculativa si riferisce sostanzialmente alla possibi­lità di aumentare la volatilità attesa del portafoglio, al fine di ottenere un extra rendimento su quelle attività che appaiano palesemente sottovalutate.

[124] Il limite massimo agli impegni assunti attraverso l’utilizzo di strumenti derivati è pari al valore del patrimonio netto del fondo. Il limite si configura come un divieto incondizionato di superamento e l’utilizzo di strumenti finanziari non può in nessun caso determinare impegni eccedenti il patrimonio netto. Al di­vieto generale segue la determinazione di un secondo limite agli impegni, pari al 10% del patrimonio netto del fondo, il cui superamento non è vietato in via ge­nerale, bensì è condizionato alla disponibilità nel portafoglio del fondo per l’am­montare di impegno eccedente il limite stesso di: I) titoli o altre attività che il fondo si è impegnato a consegnare o che sono atti a generare i flussi di cassa de­bitori degli strumenti derivati; 2) disponibilità liquide o titoli di sicura e rapida liquidabilità il cui valore corrente sia almeno pari a quello degli impegni assunti in eccedenza. AI fine di comprendere la logica che sottende la duplice determina­zione dei limiti agli impegni, è importante approfondire il concetto di leva finan­ziaria e introdurre una distinzione presente anche in regolamentazioni di altri paesi e nella Direttiva 85/611. Il divieto generale di assumere impegni eccedenti il patrimonio netto del fondo si configura come un divieto a levereggiare “econo­micamente” il fondo, ossia a creare una potenziale posizione di indebitamento e quindi una potenziale situazione di insolvenza. La condizione applicabile agli im­pegni eccedenti il 10% del fondo si configura invece come un limite alla possibi­lità di levereggiare “finanziariamente” il fondo, ossia a generare un profilo di ri­schio che moltiplica la volatilità tipica del portafoglio di investimento. A titolo esemplificativo si può affermare che la leva economica ha luogo qualora un por­tafoglio includa anche una componente debitori a fronte della quale si procede ad investimenti in titoli volatili. Se il valore della componente attiva scende, la componente di indebitamento che grava il fondo potrebbe non essere onorata. Viceversa una leva puramente finanziaria è realizzabile per mezzo dell’acquisto di un’opzione “call” su un titolo quotato per l’intero ammontare del patrimonio netto del portafoglio. Infatti l’acquisto di una opzione “call” non può mai com­portare l’insolvenza del fondo (il fondo avendo acquisito un diritto), ma la vola­tilità del valore del fondo risulterebbe necessariamente pari ad un multiplo dell’e­quivalente volatilità di un investimento diretto delle disponibilità del fondo nel titolo sottostante all’ opzione. I due limiti agli impegni determinano dunque rispettivamente il limite alla leva economica e alla leva finanziaria che il fondo può porre in essere. Infatti il primo limite incondizionato vieta ogni forma di indebitamento “implicito” mentre il secondo limite condizionato determina la leva finanziaria massima (pari a 1.1 del valore nominale del fondo, senza riguardo alla composizione del portafoglio), disponendo che a fronte di impegni eccedenti il 10% si debbano detenere attività a rischio nullo (nella definizione del Regolamento, in attività “di rapida e di sicura liquidabilità”, ossia strumenti del mercato monetario o obbligazionario a breve termine il cui value-at-risk è quasi nullo).

[125] Il Regolamento del 20 settembre 1999, precisa che gli strumenti deri­vati e le componenti derivate dei titoli strutturati si riflettono sulla posizione complessiva per singolo emittente sulla base del valore del fattore delta se si tratta di opzioni o sulla base del peso nell’indice azionario di riferimento se si tratta di future o contratti di “swap”, Viceversa il peso delle singole componenti per singolo emittente degli indici obbligazionari non devono essere ricondotte al calcolo dei limiti di concentrazione dei rischi. La ratio della norma va ricercata nelle modalità di costruzione e revisione degli indici, che consentono una identi­ficazione agevole del peso dei singoli emittenti per i portafogli azionari mentre si richiederebbe una analisi gravosa qualora la posizione per singolo emittente do­vesse essere calcolata anche per i portafogli obbligazionari.

[126] Ai sensi del D. Lgs. 58/98, articolo 1 lettera k), il fondo aperto è “il fondo comune di investimen­to i cui partecipanti hanno diritto di chiedere, in qualsiasi tempo, il rimborso delle quote secondo le modalità previste dalle regole di funzionamento del fondo”.

[127] Per ulteriori approfondimenti cfr. Colavolpe, Il capitale minimo delle sgr dedicate ai fondi mo­biliari chiusi di venture capital, Società, 2002.

[128] La nuova disciplina ammette un’ideale scissione delle tre attività tipiche di gestione del risparmio, vale a dire la promozione, l’istituzione e l’organizzazione, stabilendo implicitamente l’esistenza di SGR promotrici, SGR di gestione e SGR integrate; queste ultime promuovono, istituiscono e gesti­scono contemporaneamente uno o più fondi. Cfr. Sgranga, I fondi azionari chiusi in Italia tra opportunità e ostacoli allo sviluppo, in Quaderni Monografici Rirea, 2003, n. 15.

[129] Denominata banca depositaria.

[130] Il regolamento della Banca d’Italia del 20/9/99 dispone che, ferme restando le valutazioni di ca­rattere generale riguardanti la situazione tecnica della banca che intende svolgere la funzione di de­positaria, l’assunzione dell’incarico è subordinato al possesso dei requisiti di seguito indicati. Deve essere: al una banca italiana; una banca con sede in altro Stato membro dell’Unione Europea, avente una succursale in I­talia. In tal caso le funzioni di banca depositaria devono essere esercitate direttamente dalla succursale italiana; l’ammontare del patrimonio di vigilanza non deve essere inferiore a 100 milioni di euro; la banca deve avere maturato una esperienza adeguata all’incarico da assumere; l’assetto organizzativo deve essere idoneo a garantire l’efficiente e corretto adempimento dei compiti ad essa affidati.

[131] Il regolamento Banca d’Italia del 20/9/99 ricorda che l’art. 36, comma 4 del TUF prescrive alla banca depositaria, alla SGR promotrice ed alla SGR gestore (se diversi) l’obbligo di agire, nell’eser­cizio delle rispettive funzioni, in modo indipendente e nell’interesse dei partecipanti. Tenuto conto della delicatezza delle funzioni svolte dalla banca depositaria, si richiama l’attenzione sulla necessità che l’operato della stessa sia costantemente informato a tali principi. In tale quadro, l’incarico di depositaria non può essere conferito qualora il presidente del CdA, l’amministratore delegato, il direttore generale o i membri del comitato di gestione della SGR o della SICAV svolgano anche una delle seguenti funzioni presso la banca che intende assumere l’incarico: presidente del CdA, amministratore delegato, direttore generale; dirigente responsabile delle strutture organizzative della banca che svolge funzioni di banca depositaria.

[132] Ai sensi del D. Lgs. 58/98, articolo 1 lettera n), la gestione collettiva del risparmio è il servizio che si realizza attraverso: la promozione, istituzione e organizzazione di fondi comuni d’investimento e l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti; la gestione del patrimonio di OICR, di propria o altrui istituzione, mediante l’investimento avente ad oggetto strumenti finanziari, crediti, o altri beni mobili o immobili.

[133] Ai sensi del D. Lgs. 58/98, articolo 1 lettera i), la Sicav è “la società per azioni a capitale variabi­le con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni”.

[134] La Commissione Nazionale per la società e la Borsa (Consob) è un ente pubblico, istituito con legge n. 216/74, che ha il compito di esercitare il controllo sulle borse valori e sulle società aventi titoli quotati e di vigilare sulle informazioni divulgate da tutti coloro che si accingono a sollecitare il pubblico dei risparmiatori.

[135] Per una trattazione delle operazioni di LBO si rinvia Forestieri, Corporate e investiment banking, Milano, 2007.

[136] A titolo d’esempio, rientrano in questa casistica gli investimenti effettuati da Permira & Associati nei settori della logistica, dei prodotti da bar e quelli relativi al settore dell’odontoiatria.

[137] Ancora Permira & Associati nel settore della cantieristica da diporto. Si tenga a mente che in questi casi l’operazione di investimento si configura come MBO (Management Buy-Our).

[138] A titolo d’esempio si segnalano gli oltre 130 investimenti sostenuti in circa vent’anni di attività da parte di Sofipa (oggi Capitalia Sofipa SGR).

[139] A questo proposito è stata significativa l’esperienza di assunzione di partecipazioni in medie imprese, volta all’uscita attraverso il collocamento dei titoli sul mercato nell’arco temporale di due – tre anni, svolta dalla divisione Banca d’affari della Banca Commerciale Italiana durante la seconda metà degli anni Novanta.

[140] I fondi specializzati negli interventi di ristrutturazione sono quasi tutti di area anglosassone, soprattutto negli Stati Uniti (per esempio, la divisione Resfrucruring & Turn around di Wachoria Corp.). Negli anni Novanta in Italia è da segnalare l’esperienza che la Comit ha avuto insieme a Bain, Cuneo & Associati e altri operatori per la costituzione di un fondo chiuso con questa specializzazione, che è stato attivo per bre­ve tempo.

[141] L’operazione classica prevede l’apporto di capitale nella sola forma di rischio (equit finance); nella realtà, molte operazioni vengono costruite su un apporto congiunto di equity e di debito, facendole asso­migliare, da un punto di vista tecnico, a operazioni di LBO.

[142] È questo un elemento peculiare che distingue questa tipologia di operazione da quella di MBO/MBI.

[143] Orientativamente, a partire da 50 milioni di euro di fatturato annuo per un’azienda industriale.

[144] Per l’investitore finanziario questo è un primo passaggio fondamentale nella gestione della proposta di investimento, perché attraverso esso si decide se spendere o meno i soldi necessari per i successivi appro­fondimenti sulla target (per esempio, lo svolgimento della due diligence).

[145] Un esempio di patto parasociale è dato dalla rappresentanza che è riservata al socio di minoranza nel consiglio di amministrazione dell’azienda partecipata.

[146] Solitamente i crediti verso clienti il magazzino e le banche a breve.

[147] Ovviamente la convenienza al ricorso all’IPO sul mercato azionario è influenzata dalla congiuntura dei prezzi delle azioni che è presente al momento della dismissione.

[148] Prezzo di cessione della partecipazione, condi­visione degli obiettivi aziendali di sviluppo, regolamento dei rapporti tra gli azionisti, costruzione della struttura finanziaria dell’operazione.

[149] Cosiddetto closing dell’operazione.

[150] La disciplina stabilisce, dunque che la competenza in materia di organizzazione spetta allo Stato di origine, ma su tale normativa prevale quella che è dettata in tema di comportamento dallo Stato ospitante quando questa sia incompatibile con la prima. Si pone perciò, un problema di coordinamento qualora uno Stato abbia introdotto nel proprio ordinamento regole rigide relative alla separazione tra attività, Miola , Articolo 21. Criteri generali, in Testo Unico della finanza. 1. Intermediari e mercati. Commentario diretto da Campobasso, Torino, 2002, 158 ss., spec. 172. Evidenziano già il problema, Ferrarini , L’attuazione della direttiva comunitaria sui servizi di investimento. Temi e problemi, in Riv. Soc., 1995, 623 ss., spec. 635 s., il quale, da una analisi delle regole comunitarie e, in particolare dell’art. 10 della direttiva, evince che la disposizione “per un verso afferma che la competenza principale dello Stato d’origine in materia di separatezza incontra dei limiti nelle regole di condotta dello Stato ospitante; per altro verso, riconosce che anche lo Stato in cui il servizio è prestato può disciplinare la materia della separatezza, ma sotto l’esclusivo profilo delle regole di comportamento. L’esatto confine tra competenza (principale) dello Stato d’origine e competenza (concorrente) dello Stato ospitante non è chiara …”; Annunziata, Intermediazione mobiliare e agire disinteressato: i profili organizzativi interni, in Banca, borsa tit. cred., 1994, I, 634 ss., spec., 664 ss. Per un’attenta disamina della ratio della norma contenuta nell’art. 21, lett. c), T.U.I.F., Miola, Articolo 21. Criteri generali, in Testo Unico della finanza. 1. Intermediari e mercati. Commentario diretto da Campobasso, Torino, 2002, 158 ss., il quale sottolinea come, secondo la direttiva, il legislatore abbia eliminato la disciplina prevista nella legge 1/1991 volta ad una minuziosa separazione tra le varie attività di intermediazione e le connesse responsabilità di gestione. La ragioni risiede nel fatto che la vecchia norma induceva un pregiudizio in termini di concorrenzialità delle imprese italiane poiché comportava una ridotta conoscenza delle occasioni offerte sul mercato e la perdita dei vantaggi connessi alla polifunzionalità dell’intermediario. Pertanto la direttiva e poi in Italia la l. 425/1996 e il T.U.I.F. (e, conformemente, il regolamento Consob 11522/1998, art. 27, comma 1), prendendo atto che alla polifunzionalità dell’intermediario è connaturata la presenza del conflitto di interesse, hanno previsto una normativa che disciplina tale situazione e la rende trasparente attraverso una adeguata informazione. Sul punto anche Recine , Articolo 21, comma 1, lett. c, d, e. Altre regole di comportamento, in Il testo unico dell’intermediazione finanziaria, commento al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1998, 179 ss., spec. 182.

[151] Miola , Articolo 21. Criteri generali, cit., il quale ricorda che la situazione di conflitto è determinata sia dallo svolgimento concorrente, da parte dell’intermediario, di altri servizi di investimento, sia da rapporti di gruppo. Sul punto, Annunziata , Conflitto di interessi e rapporti di gruppo nell’attività di gestione di patrimoni, in I gruppi di società, cit., 613 ss., Vella , Intermediazione finanziaria e gruppi di imprese: i conglomerati finanziari, in I gruppi di società. Atti del Convegno internazionale di studi, Venezia, 16-17-18 novembre 1995, vol. III, p. 2306 ss., Cavazzuti , Conflitti di interesse e informazioni asimmetriche nella intermediazione finanziaria, in Banca, imp. soc., 1989, 357 ss., Enriques , Lo svolgimento di attività di intermediazione mobiliare da parte delle banche: aspetti della disciplina privatistica, in Banca, borsa tit. cred., 1996, I, 635 ss.

[152] A tale proposito l’art. 27 del regolamento Consob 11522/1998, obbliga alla preventiva informazione sulla natura ed estinzione dell’interesse nell’operazione. Il criterio dell’equo trattamento è, invece, stato variamente interpretato, con ciò intendendosi sia la realizzazione di una parità di trattamento, sia l’attuazione del principio di equità volto ad integrare le obbligazioni nascenti dal contratto secondo quanto disposto dall’art. 1374 c.c.; Recine , Articolo 21, comma 1, lett. c, d, e. Altre regole di comportamento, cit., 183. La regola generale contenuta nell’art. 21, comma 1, lett. c), che vale per tutti i servizi di investimento, è in particolare

[153] Per una considerazione sulla casistica più probabile Tonelli, Le società di gestione del risparmio, in A. Patroni Griffi, M. Sandulli, V. Santoro (a cura di), Intermediari finanziari, mercati e società quotate, Torino, 1999, p. 90.

[154] Fondo comune, portafoglio di investimento, ecc.

[155] Artt. 48, comma 1, lett. c) e 49 del regolamento Consob 11522/1998. La Banca d’Italia, invece, richiede che la separazione patrimoniale, sia attuata anche sul piano contabile. Il punto 2, sez. II, cap. VII, del regolamento della Banca d’Italia 1 luglio 1998, stabilisce, infatti, l’obbligo per l’intermediario di adottare strumenti idonei a distinguere “gli strumenti finanziari e il denaro di pertinenza delle singole gestioni tra di loro e da quelle delle sgr”.

[156] A norma del quale occorre individuare, tra l’altro, le regole da osservare in materia di conflitto di interessi compresi quelli eventuali attinenti alla partecipazione dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive dei fondi pensione ai soggetti gestori.

[157] Russo , Gli amministratori dei Fondi pensione. Natura dell’incarico ed ipotesi di conflitto di interessi, in Dir. Banca merc. Fin., 1998, 176 ss., Ventoruzzo , La disciplina regolamentare in materia di fondi pensione, in Riv. Soc., 1997, 1201 ss., Giordano U.M., Gli schemi di convenzione per la gestione delle risorse dei fondi pensione: prime osservazioni anche alla luce dell’esperienza inglese, in Dir. Banc., 1999, 101 ss.

[158] Ventoruzzo , La disciplina regolamentare in materia di fondi pensione, in Rivista delle società, 1997, 1210 ss.

[159] Con riferimento al sistema monistico, il comma 3 dell’art. 147 ter, prima di precisare che almeno uno dei membri del consiglio di amministrazione deve essere espresso dalla lista di minoranza, fa salvo quanto già previsto dall’art. 2409 septiesdecies, il che già non è chiaro, posto che tale articolo richiama il comma 1 dell’art. 2399 c.c. la cui applicazione al comitato per il controllo sulla gestione delle società con azioni quotate è esplicitamente esclusa dall’art. 154 T.U.I.F.. Nel secondo periodo si aggiunge poi che nelle società che adottano quello stesso tipo di organizzazione “il membro espresso dalla lista di minoranza deve essere in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza determinati ai sensi dell’art. 148, commi 3 e 4”, e che il difetto dei requisiti indicati determina la decadenza dalla carica. A completamento dei distinguo, il secondo periodo del comma 4 del medesimo art. 147- ter, precisa che detto comma non si applica alle società organizzate secondo il sistema monistico, per le quali rimane fermo il disposto del citato art. 2409- septiesdecies, comma 2, c.c. (di nuovo un richiamo all’art. 2399 comma 1, c.c.). In sintesi, dunque, alle società organizzate secondo il sistema monistico si applicano tutte le nuove regole introdotte per il sistema di amministrazione tradizionale, fatta salva quella che impone ai consigli di amministrazione composti da più di sette membri che almeno uno di essi possieda i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci. Va comunque ricordato che nel sistema monistico si richiede, come regola generale, che il membro espresso nella lista di minoranza debba necessariamente, al di là del numero dei componenti, essere in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza stabiliti per i sindaci dall’art. 148, commi 3 e 4; tale membro, però, andrà necessariamente a comporre il comitato per il controllo interno sulla gestione e dunque presterà la propria attività nell’ambito nell’organo di controllo e non in quello di amministrazione in senso stretto, all’interno del quale non è quindi garantita in nessun caso la presenza di un membro dotato dei requisiti di indipendenza.

[160] La differenza nel caso di adozione del sistema dualistico, ma stranamente non quella nel caso di adozione del sistema monistico, è stata messa in luce da un primo commentatore Tombari , Nelle società più garanzie alle minoranze, in Risparmio. Guida pratica alla nuova legge, opuscolo allegato a Il Sole-24 Ore del 12 gennaio 2006.

[161] Marchetti, Osservazioni sui profili societari della bozza del T.U.F., in Riv. Soc., Milano, 1998, p. 140.

[162] Come noto, la riforma del diritto societario del 2003 ha operato una netta distinzione delle rispettive attribuzione degli organi delegati e dei consiglieri senza delega, la quale ha inciso anche sul regime di responsabilità dei diversi amministratori. Del resto uno degli obiettivi dichiarati della riforma era quello di intervenire in modo da evitare quello che era stato definito l’ingiustificato ampliamento giurisprudenziale della responsabilità, configuratosi in vigenza delle norme abrogate, e proprio a tale principio ha risposto l’eliminazione dell’inciso di cui al previgente art. 2392 comma 2, c.c. che poneva indistintamente in capo a tutti i membri del consiglio di amministrazione un dovere generale di vigilanza sull’andamento della gestione sociale, da cui discendeva, in caso di inosservanza, la responsabilità in solido degli amministratori. Da qui il dubbio che tale generale obbligo non gravi più sull’intero consiglio e tanto meno sul singolo amministratore, privo di ogni potere individuale. Per un esposizione sintetica ma puntuale in chiave operativa della questione sia consentito rinviare a Panzironi, La responsabilità civile degli amministratori di s.p.a., nella monografia di Diritto e Pratica delle Società n. 3/2005, p. 16.

[163] In verità, il legislatore del 2003 sembra invece avere adottato una visione dell’organo amministrativo orientata secondo un modello di c.d. collegialità pura, nell’ambito del quale al singolo amministratore non è attribuibile alcun potere individuale di vigilanza e ciò anche in considerazione delle oggettive limitazioni che, in concreto, tale vigilanza inevitabilmente incontra a fronte della complessità della struttura organizzativa societaria e dell’impossibilità pratica del singolo amministratore di svolgere un effettivo controllo.

[164] Si tratta della proposta di bozza unificata presentata dalle due Commissioni Finanza e Attività produttive della Camera, il 6 aprile 2004, la quale dedicava il primo articolo proprio agli amministratori eletti dalle minoranze ed alle funzioni del presidente del consiglio di amministrazione, attribuendogli questo nuovo ruolo.

[165] Marchetti, Osservazioni sui profili societari della bozza del T.U.F., in Riv. Soc., Milano, 1998, p. 140.

[166] Rossi., intervista in Il Sole 24 Ore, 16/01/1998, Milano.

[167] Marchetti , Osservazioni sui profili societari della bozza del T.U.F., in Riv. Soc., Milano, 1998, p. 140.

[168] Massamormile , Minoranze e autonomia statutaria, in Riv. Soc., Milano, 2001, marzo/giugno, p. 613.

[169] Marchetti , Osservazioni sui profili societari della bozza del T.U.F., in Riv. Soc., Milano, 1998, p. 140.

[170] Mazzoni, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm., 1998, p. 485/I.

[171] Mazzoni, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm., 1998, p. 485/I.

[172] Marchetti , Osservazioni sui profili societari della bozza del T.U.F., in Riv. Soc., Milano, 1998, p. 140.

[173] Marchetti , Tavola rotonda, in La riforma delle società quotate, Atti del convegno di studio, Santa Margherita Ligure, 1998, p. 329, Quaderni di Giur. Comm., Milano.

[174] Angelici , Le minoranze nel T.U.F.: tutela e poteri, in Riv. Dir. Comm., 1998, p. 207/I.

[175] Montalenti , Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm., 1998, p. 329/I.

[176] Ambrosini , Nomina del collegio sindacale nelle società quotate, in Riv. Soc., Milano, 1999, n° 5, p. 1103/II.

[177] Irace , Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, Milano, p. 95.

[178] Irace , Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, Milano, p. 95.

[179] Non un semplice interesse speculativo, come quello, eventualmente, attribuibile a chi non è azionista da almeno sei mesi. Tatozzi , La tutela delle minoranze azionarie nella disciplina delle Società quotate, in Dir. Pratica Soc., 1999, n° 10, p. 17.

[180] Irace , Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, Milano, p. 95.

[181] Legge del 06/02/1996, n. 52, per quanto concerne i poteri delle minoranze, integrazione dei “criteri che rafforzassero la tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza”.

[182] Visentini , Osservazioni sulla recente disciplina delle società per azioni e del mercato mobiliare, in Riv. Soc., Milano, 1998, p. 172/I.

[183] Buonocore , La riforma delle società quotate, Atti del convegno di studio, Santa Margherita Ligure, 1998, in Quaderni di Giur. Comm., Milano, p. 3.

[184] La Consob stabilisce con regolamento le modalità di esercizio del voto e di svolgimento dell’assemblea. Vedi regolamento Consob n. 11971 del 14.5.1999 e successive modifiche e integrazioni.

[185] Buonocore , La riforma delle società quotate, Atti del convegno di studio, Santa Margherita Ligure, 1998, in Quaderni di Giur. Comm., Milano, p. 3.

[186] Minervini , Le società quotate nel T.U.F., in Riv. Dir. Civ., 1998, p. 27/II.

[187] Irace , Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, Milano, p. 95.

[188] Irace , Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, Milano, p. 95.

[189] La nuova dimensione dell’azionariato diffuso e la presenza degli investitori qualificati, consentono potenzialmente, di per sé, le aggregazioni necessarie ad attivare i poteri della minoranza. Essendosi, poi, dimostrate insufficienti ed inefficaci altre metodologie, quali l’endotutela pubblica, la tutela individuale, la tutela patrimoniale e l’exit, la soluzione del risparmio gestito, forse era l’unica a poter conciliare interessi diversi. L’intermediario professionale permette di aggregare una vasta platea di investitori, raggiungendo determinate soglie partecipative di capitale sociale. Tale gruppo, per di più, non manifesterà il suo dissenso con conflitti diretti in una assemblea, ma con segnali preventivi, segnali di sfiducia, tiepidezza nell’investimento, inizio di disinvestimento, più appropriati per raggiungere determinati obiettivi, limitando un impatto negativo sulla stessa società, che si ripercuoterebbe, poi, sui risparmiatori. Bedogni Rabitti, L’autoregolamentazione e il ruolo degli investitori istituzionali nei rapporti con la corporate governance, in Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?, Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Milano, 2002.

[190] Minervini , Le società quotate nel T.U.F., in Riv. Dir. Civ., 1998, p. 27/II.

[191] Minervini , Tavola rotonda, in La riforma delle società quotate, Atti del convegno di studio, Santa Margherita Ligure, 1998, p. 345, Quaderni di Giur. Comm., Milano.

[192] Bianchi , Enriques , Corporate governance in Italy after the 1998 Reform, in sito Internet “ssrn.co”, tratto da Irace , Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, Milano, p. 95.

[193] Toccando soglie del cinquantasette per cento di diffusione delle quote di capitale del mercato.

[194] Marchetti , Abuso delle minoranze e loro carica eversiva, in Il Sole 24 Ore, 17/01/1998, Milano.

[195] Non pochi fattori riconducibili alle materie del diritto societario e del diritto dei mercati finanziari, accanto naturalmente a fattori di altra natura tra i quali figurano quelli di natura fiscale, amministrativa, politica, ecc., rendono possibile che un uomo di genio sorto dal niente sviluppi le proprie intuizioni imprenditoriali, fino a trasformarle in una delle più grandi multinazionali, come ad esempio, è la Microsoft: v., Bedogni Rabitti , L’autoregolamentazione e il ruolo degli investitori istituzionali nei rapporti con la corporate governance, in Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?, Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Milano, 2002.

[196] Si fa riferimento, in particolare, alla materia degli obblighi informativi, rispetto ai quali, se le comunicazioni ed i documenti informativi sono eccessivi si rischia di creare confusione nei destinatari dei comportamenti cui sono tenuti i soggetti obbligati. Con riguardo all’aspetto della “semplicità d’uso” della produzione normativa secondaria, dunque, il bilancio non appare particolarmente positivo e servirebbe appunto qualche intervento correttivo e di coordinamento, magari diretto a varare dei minitesti unici delle norme secondarie.

[197] Profondamente diversa, quindi, risulta la logica cui si è fatto ricorso in sede di delega per la riforma del diritto societario rispetto alla logica a fondamento del Codice Preda.

[198] Si pensi per far riferimento all’ipotesi, più eclatante, del coinvolgimento dei lavoratori subordinati nell’azionariato della società per la quale prestano la loro opera.

[199] v., Bedogni Rabitti , L’autoregolamentazione e il ruolo degli investitori istituzionali nei rapporti con la corporate governance, in Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?, Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Milano, 2002.

[200] Il valore della partecipazione dovuta in portafoglio può dipendere da quale sarà la proposta all’ordine del giorno di un’assemblea ordinaria o straordinaria dagli amministratori nominati, dalla approvazione o dal rigetto di un progetto di fusione o di scissione.

[201] Rubrica così modificata dall’art. 4 del D.Lgs. n. 164 del 17.9.2007.

[202] Articolo inserito dall’art. 5 della l. n. 262 del 28.12.2005.

[203] Percentuale oggi pari al 2,5 % mentre prima era del 10%, secondo l’ultima modifica dell’art. 2367 c.c. e l’abrogazione dell’art. 124 del TUIF avvenuta nel 2004.

[204] Le parole: “e deve risultare iscritto da almeno sei mesi nel libro dei soci per la medesima quantità di azioni” sono state soppresse dall’art. 3, comma 12 del D.Lgs. n. 303 del 29.12.2006.

[205] Le precedenti parole: “La Consob può stabilire” sono state sostituite dalle parole: “La Consob stabilisce” dall’art. 4 della l. n. 262 del 28.12.2005.

[206] Vedi delibera Consob n. 12317 del 12.1.2000.

[207] Si rinvia, per i fondi pensione, al D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 6, comma 5, lett. a), nonché al D.M. 21 novembre 1996, n. 703.

[208] Ciò è conforme alla disciplina dettata dalla direttiva 85/611 CEE, che impedisce agli OICVM di acquistare azioni con diritto di voto tali che gli consentano di esercitare una influenza notevole sulla gestione della società emittente (art. 25); Costi, Risparmio gestito e governo societario, in Giurisprudenza commerciale, 1998, parte I, pp. 316 ss.

[209] Si rinvia al D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 6, comma 5, lett. a), nonché al D.M. 21 novembre 1996, n. 703 e alle disposizioni contenute nel Provvedimento Banca d’Italia 20 settembre 1999.

[210] Lener , Assemblea, patti parasociali e il ruolo degli investitori istitu­zionali, in La riforma del diritto delle società nella prospettiva del risparmio gestito. Atti dell’incontro di studio organizzato da Assogestioni, Milano 15 maggio 2002, 31 ss., il quale mette in evidenza la possibilità di presentazione di una lista di mi­noranza per le cariche sociali concertata tra investitori istituzionali. Per sottoli­neare l’auspicato coinvolgimento degli investitori istituzionali anche nelle società non quotate si sottolinea che il nuovo art. 111-octies delle disposizioni transitorie stabilisce che “Sono investitori istituzionali destinati alle società cooperative quelli costituiti ai sensi della legge 25 febbraio 1985, n. 49, i fondi mutualistici e i fondi pensione costituiti da società cooperative”.

[211] Sulla presenza, e la diversa ingerenza nell’organizzazione societaria, di più categorie di azionisti, Ferri , La tutela delle minoranze nelle società per azioni, in Dir. e prat., 1932 e ora in Scritti Giuridici, vol. 3°, t. I, 12 ss., il quale, già in epoca anteriore alla codificazione, sottolinea come “l’evoluzione rapida dell’organismo-giuridico società, l’introduzione delle azioni fra i titoli quotati in borsa, l’elevatezza dei dividendi ripartiti tra i soci hanno portato a partecipare alle società categorie diversissime di persone le quali considerano la partecipa­zione sociale come mezzo di proficuo investimento di capitali o addirittura come uno strumento di speculazione: categorie di persone che pertanto non hanno un interesse diretto e spesso nemmeno la competenza per partecipare alla gestione degli affari … (omissis)”. Nell’ambito della società si distinguono pertanto due ca­tegorie di soci: “da un lato gli azionisti imprenditori, legati all’impresa sociale da un interesse diretto e che, per questo, partecipano attivamente alla gestione degli affari e si preoccupano seriamente dell’andamento della società; dall’altro i soci non imprenditori legati all’impresa sociale soltanto da un interesse indiretto, in quanto cioè da essa dipende il raggiungimento dei fini di carattere speculativo e delle ragioni di investimento propostesi, e, per lo più, disinteressati ed estranei alla gestione della società”.

[212] Mazzoni, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, cit., 487, il quale partendo dalla considerazione che l’interesse alla valorizzazione del proprio investimento è un interesse comune agli azionisti di minoranza, ne evidenzia la tendenziale coincidenza con l’interesse sociale e l’interesse generale, “condiviso da tutti i partecipanti al mercato mobiliare, a che lo stesso funzioni correttamente”. Osserva così l’A. che si può giungere ad una distinzione tra soci di maggioranza e soci di minoranza attraverso una prospettiva di mercato anziché di diritti e poteri all’interno della società. Ciò significa che mentre per gli azionisti di comando la quotazione dei titoli in borsa può anche essere solo un mezzo parziale alla valorizzazione del proprio investimento rispetto al loro fine complessivo di valorizzazione globale “posto che una cospicua componente di tale valorizzazione globale può essere costituita da benefici extra-mercato”, per gli azionisti di minoranza, invece, il mercato rappresenta sia il mezzo sia il fine della valorizzazione dei propri investimenti; Utset M.A., Disciplining Managers: Shareholder Cooperation in the Shadow of Shareholder Competition, in Emory L.J. 44 (1995) 71 ss.

[213] La posizione fino ad ora assunta dal singolo azionista resta immu­tata. Nel quadro così delineato, e nonostante le associazioni di azionisti, il singolo azionista è destinato a rimanere, ancora una volta, spettatore. Già non molti anni dopo l’entrata in vigore dell’attuale codice civile si considerava che “la sottoscri­zione delle azioni da parte di un singolo risparmiatore non è in funzione della vo­lontà di partecipare all’esercizio collettivo di una attività economica, ma è in funzione della volontà di realizzare un proficuo investimento dei propri risparmi che consenta, oltre ad una remunerazione adeguata, la conservazione del valore originariamente investito. Il singolo azionista continua a non considerare la gestione come un fatto suo proprio: essa lo riguarda soltanto per l’incidenza che può avere sulla regolarità del dividendo e sulla conservazione del valore capitale”, e dunque i poteri sociali a lui attribuiti non valgono “né come mezzi di gestione né come mezzo di controllo: più che attraverso le assemblee o mediante l’esercizio dei poteri sociali, egli controlla la bontà delle operazioni sulla base dei dividendi percepiti e delle quotazioni di borsa” (così Ferri , Potere e responsabilità nell’e­voluzione della società per azioni, in Riv. Soc., 1956, 39. L’A. sostiene che “l’affectio societatis, intesa come volontà di esercitare una attività in comune, manca nelle grandi so­cietà, mentre rimane, nonostante la struttura capitalistica, nelle società di minor mole”; sul punto anche Ferro-Luzzi, I contratti associativi, Milano, 2001, 13 ss.). Ancora oggi, perciò, il singolo azionista è maggiormente tutelato attraverso la possibilità dell’exit.

[214] Ferri, Potere e responsabilità nell’evoluzione della società per azioni, cit., 39; Gambino ., Tutela delle minoranze, in La riforma delle società quotate, a cura di  Bonelli, , Buonocore, Corsi,  Costi,  Ferro-Luzzi,  Cambino, Jaeger,  Patroni Griffi. Atti del convegno di studio, Santa Margherita, 2000, 135 ss., spec. 137, il quale distingue gli specifici interessi degli inve­stitori istituzionali dall’interesse generico del piccolo azionista al lucro e alla con­servazione del valore della partecipazione e dall’interesse del gruppo di controllo.

[215] Ossia tutti gli investimenti effettuati nelle varie imprese, diversificandone il portafoglio.

[216] Grison R.J., Kraakman R., Reinventing the Outside Diredor: An Agenda for Institutional Investon, in 13 (1990) Stanford L Rev., 863 ss., secondo i quali la crescita degli investitori istituzionali può risolvere il tradizionale pro­blema della partecipazione degli azionisti alla corporate governance; Preite , Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, cit., 521 ss.

[217] Cortesi, Lazzarotti , Lo “shareholder activism” e la tutela delle minoranze azionarie, in Riv. Dott. comm., 1996, 803 ss.

[218] Weigmann, I fondi mobiliari come azionisti, in Riv. soc., 1987, 1089 ss., spec., 1103. Prendendo spunto da uno studio sull’evoluzione del capita­lismo, effettuato negli Stati Uniti (Clark R.C., The Four Stages of Capitalism: Re­flections on Investment Management Treaties, in 94 (1981), Harvard L. Rev., 561; Weigmann , I fondi mobiliari come azionisti, Rivista delle Società, n. 32 (1987), fasc. 5, 1102), si può, quindi, affer­mare che dalla fase di scissione tra il potere imprenditoriale e l’azionariato (che, tuttavia, in Italia, come si è detto, non è stata così netta come negli Stati Uniti, si è passati velocemente alla fase in cui vi è un ulteriore distacco tra chi decide di risparmiare e chi decide dove investir quel risparmio. Con il T.U.I.F. è iniziata l’ulteriore fase in cui la ge­stione del risparmio viene delegata agli investitori professionali (terzo stadio) e ci si avvia, velocemente, verso quella in cui anche la decisione di quanto risparmiare è sottratta agli individui e rimessa ai contratti collettivi (quarto stadio), come nelle ipotesi dei trattamenti pensionistici volontari e delle assicurazioni vita e in­fortuni, le cui pattuizioni vengono inserite negli accordi di lavoro. Le prime due fasi, quella in cui sussiste ancora una dialettica costruttiva tra chi gestisce e chi controlla la gestione e quella della scissione tra proprietà e controllo sarebbero, infatti, definitivamente superate. Si è comunque considerato che la forte crescita degli investitori isti­tuzionali potrebbe portare alla fine della separazione tra proprietà e controllo.

[219] È, pertanto, da questa prospettiva che si devono osservare i diversi poteri e diritti attribuiti alle minoranze qualificate. In particolare la possibilità di coalizzarsi ed esercitare, più efficacemente, il diritto di voto, di esprimere, con il voto di lista, un amministratore (e sottolineare così l’importanza della composizione dei diversi interessi in seno all’organo gestorio) e la facoltà di eleggere uno o più sindaci.

[220] Cappugi , I profili economici e giuridici inerenti all’applicazione del riformato istituto del voto per delega, in AA.VV., Assemblea degli azionisti e nuove regole del governo societario, Padova 1999, 91 ss.

[221] Libonati , Il ruolo dell’assemblea nel rapporto tra azionisti e società quotate, intervento Convegno “L’assemblea e gli azionisti”, Milano 18 ottobre 2000 e ora in Riv. soc., 2001, 86 ss.

[222] Con l’emanazione del Testo unico in materia di intermediazione fi­nanziaria (D.Lgs. 58/1998), i nuovi assetti del governo societario vengono discipli­nati attraverso il collegamento della disciplina societaria con le regole di mercato.

[223] Si veda per tutti, Ascarelli , Riflessioni in tema di titoli azionari e società tra società, in Saggi di diritto commerciale, Milano 1955, 219 ss., spec. 238 ss. (e già in Banca, borsa til. cred., 1952, I, 385 ss.) ove si legge che l’azione rap­presenta “i diritti e i poteri dell’azionista nella collettività sociale, e perciò, in de­finitiva, in relazione ai beni della società”.

[224] Oppo , Maggioranza e minoranze nella riforma delle società quo­tate, in Riv. dir. civ., 1999, II, 231 ss., spec. 239. L’A. sottolinea come si privilegi, per la tutela degli azionisti risparmiatori, l’affidamento del loro interesse a investitori o gestori istituzionali, la cui azione “è spesso, e anche doverosamente, volta alla tutela dell’interesse di mercato, anche di breve periodo e in connessione con una pluralità di gestioni; alla tutela di un simile interesse, più che all’efficienza e al controllo della gestione sociale in una prospettiva imprenditoriale anche fu­tura”. Da ciò si rileva che nelle mani dei gestori professionali di patrimoni mobi­liari, le azioni si trasformano da beni di secondo grado a beni di terzo grado; Libonati , Il ruolo dell’assemblea nel rapporto tra azionisti e società quotate, cit., 90 s.

[225] Libonati , Titoli di credito e strumenti finanziari, Milano 1999, 158 ss.

[226] Ai sensi dell’art. 810 c.c. sono beni, le cose che possono formare og­getto di diritto. Per una analisi del valore formale della nozione di bene e in par­ticolare sulla considerazione che non rutti i beni sono cose “poiché l’oggetto del diritto non necessariamente presuppone una entità materiale”, si rinvia a Salamone , Unità e molteplicità della nozione di valore mobiliare, Milano, 1995, 90 ss. e ivi per ulteriori riferimenti.

[227] Ascarelli , Riflessioni in tema di titoli azionari e società tra società, in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955, 240. In una prospettiva più ampia e, sotto certi aspetti, diversa, Salamone , Unità e molteplicità della nozione di valore mobiliare, cit., 100 ss. il quale consi­dera bene di “secondo grado” solo il bene che assicuri la soddisfazione di un interesse propter ius e di natura strumentale, nel senso, cioè, che si realizza solo at­traverso una tecnica di protezione strumentale (spec. 111).

[228] Ascarelli , Riflessioni in tema di titoli azionari e società tra società, in Saggi di diritto commerciale, cit., 240. L’A. evidenzia anche che “la possibilità di identificare poi (data la personifìcazione della collettività) una titolarità della colletività (che esclude quella del membro) non porta (e non può portare) a una creazione di nuovi beni, ma solo ad una disciplina della gestione degli stessi …” (spec. 239); Salamone , Unità e molteplicità della nozione di valore mobiliare, cit., 104.

[229] Da ciò l’affermazione di parte della dottrina, secondo cui “l’esercizio di tutti i poteri che derivano all’investitore istituzionale dallo status di socio cessa di essere libero per diventare vincolato all’adempimento della funzione che l’inve­stitore deve svolgere”, Così, Costi , Risparmio gestito e governo societario, in Giurisprudenza commerciale, 1998, parte I, 320.

[230] Così Ferro-Luzzi, L’assetto e la disciplina del risparmio gestito, cit., 196; Oppo , Maggioranza e minoranze nella riforma delle società quotate, cit., 239.

[231] Urset, Disciplining Managers: Shareholder Cooperation in the Shadow of Shareholder Competition, cit. 76; sul problema della coalizione, Coffee J.C. jr., Unstable Coalitions: Corporate Governance as a Multi-Player Game, in 78 (1990) Geo. L.J., 1495 ss.

[232] Attraverso il riconoscimento di taluni diritti e l’attribuzione di taluni poteri di intervento, non si intende, infatti, consentire agli investitori istituzionali una interferenza continua nella gestione, ma una attività di sorveglianza e di mo­nitoraggio. Sul punto Preite , Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Le Società, 1993, 488, nt. 27 e nt. 519 ss., il quale, già durante il dibattito che ha preceduto la riforma, riteneva opportuno riservare agli investitori istituzio­nali un ruolo di sorveglianza e non di controllo. L’A., distinguendo la nozione di controllo, inteso in generale come potere di determinare la condotta in forza del proprio pacchetto azionario o di altri vincoli contrattuali, dalle possibili più speci­fiche nozioni di controllo sui singoli atti degli amministratori, intende il controllo in questa seconda accezione, “anche in assenza di potere di sostituzione degli am­ministratori, il potere di sindacato su singoli atti accompagnato da una sanzione comminatoria e quindi dal potere di impedire l’atto o di revocarlo” (per tale defi­nizione già Patroni Griffi , Il controllo giudiziario sulle società per azioni, Na­poli, 1965, 32). Per sorveglianza intende invece, il “potere di richiedere o anche procurarsi direttamente (p. es. tramite ispezioni) informazioni sulla gestione, tali da consentire di verificarne la conformità con gli interessi cui essa debba essere funzionale”. Le ragioni della preferenza attribuita alla sorveglianza risiedono nella considerazione che si ritengono più probabili situazioni di conflitto di interesse, rispetto a singoli atti di gestione, da parte degli investitori istituzionali, piuttosto che da parte di amministratori esecutivi professionali (ciò vale in quanto nella proposta di riforma formulata dall’A. si auspica l’affidamento del governo della società a soggetti più idonei delle coalizioni imprenditori-capitalisti e cioè ad am­ministratori esecutivi professionali indipendenti e sottoposti alla minaccia di sca­late, oppure sorvegliati da amministratori non esecutivi), e nella considerazione che le decisioni gestionali complesse sono difficilmente sindacabili ex ante o im­mediatamente dopo il loro compimento se non da soggetti (appunto gli ammini­stratori esecutivi) che abbiano tutto il know how disponibile sull’impresa e sul contesto in cui opera. Usano il termine controllo nel senso di influenza o di potere di monitorag­gio Herman E.S., Corporate Control Corporate Power. A Twentieth Century Fund Study, Cambridge 1981; Stapledon , Institutional Shareholders and Corporate Governance. Oxford 1996, 239 ss. Sulla necessità di distinguere tra intitutional voice e institutional control, Black B.S., Agents Watching Agents: The Promise of Institutional Investor Voice, UCLA Law Review, 1992, 811 ss., il quale, tuttavia, sottolinea come la linea che divide la sorveglianza dal controllo è piuttosto sfocata, poiché una forte sorveglianza è inevitabilmente accompagnata da un potenziale abuso del controllo. Sostiene, invece, che sia più appropriato il termine “disciplinare” (il mana­gement) piuttosto che quello di “monitorare” Rock E.B., The Logic and (Uncer­tain) Significance of Institutional Shareholder Activism, Georgetown Law Journal 445, 468-70, 1991, 453, perché la sorve­glianza effettiva implica che si faccia qualcosa per contrastare i risultati negativi della gestione e non un semplice monitoraggio.

[233] Utset M.A., Disciplining Managers: Shareholder Cooperation in the Shadow of Shareholder Competition, 44 Emory L. J. 71, 1995, 91, il quale evidenzia come il problema si sviluppi essenzialmente in un mercato considerato non perfettamente efficiente.

[234] La dottrina anglosassone, tende a contrapporre l’activism, nel senso di capacità di far sentire la voice, intesa come “any attempt at all to change, rather than to escape from, an objectionable state of affairs”, ossia di usare tutti i diritti, o meglio i poteri, riconosciuti al fine di impegnarsi nei meccanismi decisio­nali, alla passivity, intesa quale mancanza di interesse del socio alla gestione so­ciale, dovuta il più delle volte agli elevati costi necessari per attivarsi, e quale pre­ferenza per l’exit, la vendita delle azioni nel caso di disaccordo con le scelte di gestione. A. Hirschmann, Exit, Voice and Loyalty: Responses to Declin in Firms, Organizations and States, Cambridge Ma. 1970, 30 ss.; Black B.S., Agents Watching Agents: The Promise of Institutional Investor Voice, cit., 816.

[235] Nei paesi in cui gli investitori istituzionali sono presenti da più anni, si è constatato che essi attuano due tipi di monitoraggio: uno diretto che consiste nell’analizzare le informazioni che provengono dalla società e in generale dal mercato, nel partecipare alle assemblee, e contribuire al loro regolare svolgimento, nel indicare taluni shareholder proposal e nel dialogare con i mana­gers; uno indiretto che consiste, invece, nell’operare attraverso i comitati di inve­stitori o attraverso l’appoggio degli amministratori non esecutivi. È possibile di­stinguere anche tra un intervento generale e uno più specifico, intendendo con il primo l’ingerenza volta ad imporre una generale linea politica che si applichi a tutte le società o ad una particolare categoria di società; con il secondo, in­vece, l’intervento particolare che tende a risolvere un problema che nasce in capo ad una singola società o ad un gruppo di società. Sul punto, Davis­ , Steil , Institutional Investors, Cambridge, Ma. London 2001, 287 ss.; Davis­ E.P., Intitutional Investors as Corporate Monitors in UK, in Comparative Corpo­rate Governance. Essay and Materials, a cura di H.J. Hopt – E. Wymeersch, Ber­lin-New York 1997, 47 ss., spec. 54 ss.; Romano, Less is More: Making 1nsti­tutional Investors Activism a Valuable Mechanism of Corporate Governance, in 18 (2001) Yale J. Reg. 174 ss., ove una particolare attenzione ai fondi pensione e una indagine sulle ragioni di un impatto minimale dell’attivismo sui risultati della gestione delle imprese. E ancora sui limiti e le prospettive dell’attivismo degli azionisti investitori istituzionali nei paesi in cui si sono maggiormente affer­mati, Lipton , Corporate Governance in the Age of Finance Corporatism, in 136 (1987) U. Pennsylvania L. Rev., 1 ss., il quale sostiene che nonostante le barriere legali, le barriere economiche, i con­flitti di interessi, la “passività” degli investitori istituzionali non è inevitabile e attraverso diversi strumenti tra cui il voto, le proposte assembleari, le nomine negli organi questi posso o monitorare efficacemente la gestione dell’impresa.

[236] Gordon J.N., Kornhauser L.A., Efficient Markets, Costly Information, and Securities Research, in 60 (1985) N.Y.U.L. Rev., 761 ss., spec. 794.

[237] Le esperienze di altri ordinamenti, spesso anche la proposizione delle azioni possedute rende difficile il disinvestimento attraverso la cessione delle azioni in borsa, perché questa rischia di causare un ribasso delle quotazioni e di creare delle fluttuazioni dell’intero mercato azionario. Sul punto, in realtà, sembra potersi osservare che, in Italia, i limiti al possesso azionario, imposti legislativamente, e la politica di diversificazione del portafoglio rende improbabile che un singolo investitore istituzionale investa ingenti somme in una singola società. Tuttavia, anche quando gli investitori non detengono ciascuno una quota cospicua, la vendita da parte degli stessi comporta un fenomeno a catena per cui gli altri azionisti (istituzionali e non) vendono perché interpretano l’atteggiamento dei primi come un segnale di crisi. La difficoltà della dismissione può derivare anche dalla considerazione che in un mercato in cui operino in larga misura gli investitori istituzionali la vendita e l’acquisto delle partecipazioni azionarie avviene prevalentemente gli uni con gli altri (si vedano le osservazioni di Cadbury, The Response to the Report of the Committee on the Financial Aspects of Corporate Governance, in Perspective on Corporate Governance, a cura di Macmillan Patfield F., London, 1995, p. 27).

[238] Es. i servizi di interesse pubblico devono avere parametri più elevati delle attività di interesse privato.

[239] Basato su un Consiglio di Sorveglianza e un Consiglio di gestione.

[240] Basato su un unico organo amministrativo, il Consiglio di Amministrazione, al cui interno deve essere nominato un comitato preposto al controllo sulla gestione.

[241] Ad esempio il modello dualistico è stato adottato da meno di 150 società per azioni e quello monistico da un numero ancora inferiore.

[242] Laddove, anche in realtà importanti non si ritrovi la figura dell’amministratore unico.

[243] Il disegno di legge recante disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, approvato recentemente dalla Camera, pre­vede l’introduzione nel T.U.I.F. di un nuovo articolo, il 147-ter, riguardante, tra l’al­tro, la nomina di un amministratore espressione della lista di minoranza che ab­bia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, nep­pure indirettamente con la lista risultata prima per numero di voti. Una prima e interessante riflessione si trova in Olivieri , Amministratori indipendenti am­ministratori di “minoranza” e tutela del risparmio, intervento alla giornata di stu­dio. Controlli sulla gestione societaria e tutela del risparmio, Roma, Università degli studi di Tor Vergata 7 marzo 2005 disponibile sul sito www.economia.uniroma2.it, il quale si interroga sia sui rapporti tra amministratore di minoranza e amministratore indipendente, figura già diffusa nella prassi e ora prevista dallo stesso art. 147-ter, sia sulla mancata previsione del voto di lista nel sistema duali­stico uno dei modelli di amministrazione e controllo introdotti dalla riforma orga­nica del 2003.

[244] L’art. 2368 c.c. prevedendo che “per le nomine alle cariche sociali l’atto costitutivo può stabilire norme particolari”, è stato interpretato nel senso dell’ ammissibilità del voto di lista piuttosto che di altri meccanismi, non neces­sariamente di tutela della minoranza, che avrebbero posto problemi di sovranità dell’assemblea e della sua unitarietà. Lemme, Il voto di lista, in Riv. dir. comm., 1999, I, 357 ss.; Costi, Privatizzazioni e diritto delle società per azioni, cit., 92, il quale nell’evidenziare che “la necessità di introdurre strumenti di tu­tela delle minoranze, come evidentemente è il voto di lista, ben può porsi, ed anzi sembra presentare un’urgenza anche maggiore, nelle società nelle quali non sussistano limiti all’ entità delle partecipazioni”, collega l’obbligatorietà della pre­visione nelle sole società privatizzate con limite del possesso azionario alla considerazione che “il legislatore è partito, evidentemente, dal presupposto che lo stato e gli altri enti pubblici … (omissis) … nell’ipotesi in .cui intendano realizzare un assetto di azionariato diffuso, devono assicurare la diffusione del potere an­che attraverso il voto di lista … (omissis) … “. Pertanto, sia la disposizione del li­mite del possesso, sia quella relativa al voto di lista “sono norme speciali che in­tendono accompagnare alcune grandi società pubbliche verso il diritto comune, dal pubblico al privato. E per loro natura sono norme· destinate a cadere quando questo periodo di transizione possa dirsi ragionevolmente concluso”. Sul punto si veda anche Montalenti P., Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, cit., 338. In generale, Minervini , Gli amministratori di società per azioni, Milano 1956; Bonelli , Gli amministratori di società per azioni, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, Torino 1985, 427 ss.; Id., Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985, spec. 56 ss.

[245] Un meccanismo proprio del sistema anglosassone che si avvicina al voto di lista, sebbene non coincida con esso, è rinvenibile nell’americano cumula­tive voting, il quale permette di esprimere una pluralità di voti per un singolo candidato, in modo che ciascun candidato possa essere eletto da voti che rappre­sentano meno della maggioranza delle azioni. Sulle ragioni che hanno reso raro l’utilizzo del cumulative voting, Easterbook EH., Fischel D.R, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge: Harvard University Press, 1991, 63 ss. Segnala brevemente taluni effetti distorsivi del voto cumulativo Lemme G., Il voto di lista, in Riv. Dir. Comm., 2000, 358 ss.

[246] Lemme G., Il voto di lista, cit., 371.

[247] Per una indagine sui diversi meccanismi che accompagnano la scelta della tecnica del voto di lista, Matteini , Voto di lista: una piccola riforma o una previsione inutile, nota a Trib. Roma 18 marzo 1996 (ord.), in Foro it., 1997, I, 3436 ss.; Anello, Rizzini Bisinelli, Una prima applicazione delle norme sul voto di lista nel caso Imi, nota a Trib. Roma 18 marzo 1996 (ord.), in Soc., 1996, 834 ss.

[248] Sottolinea che, in mancanza di una prescrizione legislativa sul tipo di voto di lista che deve essere adottato, gli statuti, data la delicatezza dell’argomento, debbano essere quanto più precisi possibile, Libonati , La “faticosa” accelerazione delle privatizzazioni, cit., 50 ss.

[249] Vale a dire, ai sensi dell’art. 2325 bis c.c., per le società con azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante.

[250] Per il riconoscimento che l’azione spetta, originariamente, alla società e solo in via sostitutiva ai soci di minoranza che vantino i requisiti indicati dalla legge, v. anche Auletta, sub art. 2393 bis, in Sandulli e Santoro (a cura di), La riforma delle società. Società per azioni. Società in accomandita per azioni, Torino, 2003, 488 s.

[251] La circostanza che l’azione di responsabilità promossa dalla minoranza finisca per reintegrare il patrimonio sociale ha indotto, nell’affrontare il tema analogo della natura dell’azione di minoranza nelle società quotate, a richiamare la categoria dell’azione surrogatoria, prevista in termini generali dall’art. 2900 c.c. Ma tale richiamo, oltre ad essere inutile, dal momento che l’istituto in esame trova già un soddisfacente inquadramento nel fenomeno della sostituzione processuale (a cui è del resto riconducibile la stessa azione surrogatoria), appare fuorviante in quanto genera la tendenza ad applicare, senza che ve ne sia una effettiva ragione, principi elaborati in tema di art. 2900 c.c., come quello dell’inerzia del creditore originario e cioé, nel nostro caso, della società. Sul tema, cfr., ad ogni modo, per il riconoscimento, sia pure solo parziale, dell’operatività di principi validi per l’azione surrogatoria, Campobasso, sub art. 129 T.U.F., in Campobasso (a cura di), Testo unico della finanza, II, Torino, 2002, 1072; Riscossa, sub art. 129, in Cottino (a cura di), Corporate governance. La nuova disciplina delle società quotate in mercati regolamentati, in Giur. it., 1998, 1761 s., ed ora in La legge Draghi e le società quotate in borsa, Torino, 1999, 171; mentre, per una diversa impostazione, che nega la possibilità del richiamo all’azione surrogatoria, v. Meo, Le società con azioni quotate in borsa, in Tratt. Rescigno, XVII, Torino, 2002, 194 ss.; Picciau, sub art. 129 T.U.F., in Marchetti e Bianchi (a cura di), La disciplina delle società quotate, Milano, I, 1999, 1013.

[252] Rinviando ad Ambrosini, sub art. 2407 c.c., in questo Commentario, par. 1 ss., 912 ss., per approfondimenti sulla responsabilità dei sindaci, può essere qui opportuno ricordare che, ai sensi del 2° co. dell’art. 2407 c.c., i sindaci “sono responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”. È dunque normale che l’azione di responsabilità esercitata contro gli amministratori sia congiuntamente esercitata pure contro i sindaci.

[253] Tra gli aspetti più significativi della disciplina dell’azione di responsabilità nell’ambito del modello dualistico, va annoverato il fatto che l’azione contro i consiglieri di gestione può essere promossa non solo dalla società o dai soci, ai sensi degli articoli 2393 e 2393 bis c.c., ma anche, secondo quanto dispongono il 2° co. dell’art. 2409 decies c.c. e la lett. d) del 1° co. dell’art. 2409 terdecies c.c., a seguito di deliberazione del consiglio di sorveglianza. In argomento, senza che ci si possa soffermare in questa sede, v., ad ogni modo, Breida, sub art. 2409 decies, par. 1 ss., 1133 ss., e Id., sub 2409 terdecies c.c., in questo Commentario, par. 11 e 12, 1191 ss.; v. Schiuma, sub art. 2409 decies c.c., in Sandulli e Santoro (a cura di), La riforma delle società. Società per azioni. Società in accomandita per azioni, Torino, 2003, 683 ss.; Providenti, sub art. 2409 decies c.c., in Lo Cascio (a cura di), La riforma del diritto societario Società per azioni. Amministrazione e controlli (artt. 2380-2409 noviesdecies c.c.), Milano, 2003, 361 ss.

[254] Riservando a Cagnasso, sub art. 2476 c.c., in questo Commentario, par. 1 ss., 1875, nonché a Parrella, sub art. 2476 c.c., in Sandulli e Santoro (a cura di), La riforma delle società. La società a responsabilità limitata, Torino, 2003, 121 ss., e a Di Amato, sub art. 2476 c.c., in Lo Cascio (a cura di), La riforma del diritto societario. Società a responsabilità limitata (artt. 2462-2483 c.c.), Milano, 2003, 197 ss., l’esame della materia, è importante mettere in luce già qui che nelle società a responsabilità limitata, ai sensi del 3° co. dell’art. 2476 c.c., l’azione di responsabilità contro gli amministratori può essere “promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi”. In base al 5° co. dello stesso articolo, l’azione può però essere oggetto di “rinuncia o transazione da parte della società, purché vi consenta una maggioranza dei soci rappresentante almeno i due terzi del capitale sociale e purché non si oppongano tanti soci che rappresentano almeno il decimo del capitale sociale”.

[255] Così Panzani, L’azione di responsabilità ed il coinvolgimento del gruppo di imprese dopo la riforma, in Soc., 2002, 1479.

[256] Nel senso che in tali casi non si applica la normativa di cui all’art. 2393 c.c. , con la conseguenza, ad esempio, di non necessitare della previa autorizzazione dell’assemblea dei soci, v. Cass., 6 marzo 1999, n. 1925, in Mass. Foro it., 1999, 284, in Foro it., 2000, I, 2299, con osservaz. di Silvetti, in Soc., 2001, 808, con nota di Salvato, in Giur. it., 2000, 770, con nota di Guidotti, in Corr. giur., 1999, 1396, con nota di Perrone, e in Giur. comm., 2000, II, 167, con nota di Abriani, riguardante il caso dell’azione diretta a conseguire la consegna alla società di somme indebitamente trattenute dall’amministratore; Cass., 9 luglio 1987, n. 5989, in Mass. Foro. it., 1987, 1018, e in Giur. comm., 1989, II, 208, con nota di Scognamiglio, avente ad oggetto una azione promossa dalla società contro un amministratore per indebita sottrazione di beni sociali da parte di quest’ultimo; Trib. Milano, 3 ottobre 1991, in Soc., 1992, 361, con nota di Taurini.

[257] Sulla questione, che esula dall’economia del presente commento, v., per una panoramica sulla articolata risposta offerta dalla giurisprudenza civile nonché sulle varie teorie, Galgano, Diritto commerciale. Le società, 13a ed., Bologna, 2003, 325, e Il nuovo diritto societario, in Galgano (diretto da), Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec., Padova, 2003, 281 s.; Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, Torino, 2002, 342 ss., nonché, più in generale, sull’intera tematica, Abriani, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Milano, 1998. É comunque da rilevare che, da ultimo, la Suprema Corte, innovando rispetto al suo precedente orientamento, ha riconosciuto l’applicabilità degli artt. 2392 e 2393 c.c. agli amministratori di fatto: v. Cass., 6 marzo 1999, n. 1925, in Mass. Foro it., 1999, 284, in Foro it., 2000, I, 2299, con osservaz. di Silvetti, in Soc., 2001, 808, con nota di Salvato, in Giur. it., 2000, 770, con nota di Guidotti, in Corr. giur., 1999, 1396, con nota di Perrone, e in Giur. comm., 2000, II, 167, con nota di Abriani. Tale estensione trascina con sè il rischio di paradossali effetti limitativi rispetto alla possibilità per la società di far valere il diritto al risarcimento del danno subito, dal momento che, in accordo al nuovo orientamento, la proposizione della domanda risarcitoria da parte della società dovrebbe essere autorizzata dall’assemblea a norma dell’art. 2393 c.c. anche se rivolta contro un amministratore di fatto. D’altro canto, però, sembra corretto aderire all’impostazione secondo cui lo “statuto” dell’amministratore di fatto non può essere ricostruito tramite “una meccanica trasposizione delle regole dettate con riferimento alla responsabilità degli amministratori regolarmente nominati”, sicché parrebbe potersi affermare che nei confronti degli amministratori di fatto l’azione di responsabilità sia proponibile dall’organo amministrativo pure in assenza della deliberazione autorizzativa dell’assemblea (così Abriani, Dalle nebbie della finzione al nitore della realtà: una svolta nella giurisprudenza civile in tema di amministratore di fatto, in Giur. comm., 2000, II, 207 s., il quale sottolinea come “a chi abbia esercitato le funzioni gestorie in violazione delle regole imperative che delineano la struttura organizzativa della persona giuridica non sono infatti riferibili le ragioni – connesse, com’è noto, al delicato equilibrio esistente tra gli organi della società di capitali – che hanno indotto il legislatore a subordinare alla valutazione discrezionale della maggioranza assembleare l’esercizio dell’azione sociale”). Inoltre, solo ammettendo l’equiparazione all’amministratore regolarmente nominato, l’amministratore di fatto potrà essere assoggettato all’azione di minoranza ora prevista dall’art. 2393 bis c.c., da cui resterebbe altrimenti immune.

[258] La norma, al pari di quella dettata per le società aperte, è ovviamente inderogabile. Diversamente, non avrebbe senso che il legislatore abbia previsto che lo statuto non possa ridurre al di sotto del quinto la percentuale richiesta nelle società chiuse per l’esercizio dell’azione di minoranza. Sul punto può essere interessante osservare che la legge delega, ex art. 4, 2° co., lett. a), n. 2), imponeva limiti all’autonomia statutaria solo in relazione all’azione di minoranza nelle società facenti ricorso al mercato del capitale di rischio. Ma il legislatore delegato ha giustamente ritenuto opportuno salvaguardare la posizione dei soci di minoranza anche nelle società chiuse.

[259] La questione è stata oggetto di uno specifico quesito, formulato alla lett. m) del parere approvato dalle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze della Camera il 12 dicembre 2002, con cui è stato chiesto al Governo di valutare l’opportunità di una norma analoga a quella contenuta nell’art. 129 T.U.F. La mancata introduzione nel testo definitivo del D.Lgs. n. 6 del 2003 del requisito dell’iscrizione da almeno sei mesi nel libro soci segnala che la commissione di riforma non ha ritenuto ragionevole mantenere tale limitazione. Il dibattito, come si è detto, era stato molto vivace in passato ed aveva condotto dottrina e giurisprudenza dominanti a considerare illegittimo il sistema dello scrutinio segreto e le s.p.a. a non adottarlo (quasi) mai come regola statutaria, proprio a fronte dell’incertezza cui una tale disposizione poteva condurre. Nel senso dell’illegittimità dello scrutinio segreto cfr., tra le altre, Trib. Milano 11 settembre 1989, in Giur. comm., 1990, II, pag. 825; Trib. Bologna 4 aprile 1995, (decr.) in Le Società, 1995, pag. 1226; e Trib. Roma, orientamenti, in Riv. Not., 1997, pag. 91. Contra: App. Trieste 15 gennaio 1992 e Trib. Udine 3 dicembre 1992, tutti in Giur. Comm., 1994, II, pag. 495. Va comunque segnalato che già in passato alcuni autori ritenevano legittimo l’utilizzo dello scrutinio segreto proprio per la nomina alle cariche sociali; in questi termini cfr. Asquini, In tema di voto segreto e di altre questioni, in Giur. Mer., 1970, I, pag. 498. Nel senso, invece, che il voto segreto fosse illegittimo anche per la nomina alle cariche sociali si erano espressi Grippo, L’assemblea nella società per azioni, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, Impresa e lavoro, Tomo II, Torino 1985, p. 385; Sacchi, L’intervento e il voto, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1994, p. 85; Serra, L’assemblea: procedimento, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Vol. III, Torino 1994, rist. 2000, p. 180 e Scutto, Considerazioni in tema di voto segreto nelle società di capitali, in n. G.C.C., 1992, II, pag. 417. Tra i primi commenti sulla disposizione contenuta nella legge n. 262/2005 cfr.: Tombari U., cit., il quale ritiene comunque che i problemi posti possano essere, almeno parzialmente, risolti in via interpretativa; e la circolare Abi n. 52 del 3 gennaio 2006, recante “Riforma del diritto societario. Legge n. 262/2005 Disposizioni per la tutela e la disciplina dei mercati finanziari” p. 2, dove pure si segnalano difficoltà applicative.

[260] Così, con riferimento agli ordinamenti anglosassoni, v. Enriques, Nuova disciplina delle società quotate e attivismo degli investitori istituzionali: fatti e prospettive alla luce dell’esperienza anglosassone, in Giur. comm., 1998, I, 696 ss.

[261] Non bisogna dimenticare che la giurisprudenza ha ritenuto, assumendo una posizione a dire il vero scarsamente condivisibile, che la delibera assembleare che autorizza l’esercizio dell’azione non ponga limiti oggettivi alla stessa, che dunque può essere fondata anche su fatti diversi da quelli imputati dall’assemblea agli amministratori: in questo senso, v. Trib. Milano, 17 ottobre 1988, in Giur. it., 1990, I, 2, 48; Trib. Milano, 9 novembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, 967, con nota di Preite.

[262] Per tale opinione, v. Salafia, Amministrazione e controllo delle società di capitali nella recente riforma societaria, in Soc., 2002, 1469.

[263] Per la possibilità dei soci di minoranza di intervenire nell’azione di responsabilità promossa dalla società, v., in relazione all’analogo problema postosi con riguardo all’art. 129 T.U.F., Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, Torino, 2002, 327.

[264] La possibilità di autonoma impugnazione costituisce una importante novità. La giurisprudenza ha infatti sempre ritenuto che l’interventore adesivo dipendente ex art. 105, 2° co., c.p.c. non fosse legittimato, come tale, a proporre autonoma impugnazione contro la sentenza sfavorevole alla parte da lui adiuvata, ma potesse solo aderire all’impugnazione di quest’ultima o impugnare congiuntamente ad essa: in questo senso, v., tra le molte, Cass., 23 ottobre 2001, n. 13000, in Mass. Foro it., 2001, 1053, e in Giust. civ., 2002, I, 2230; Cass., 1° ottobre 1999, n. 10894, in Mass. Foro it., 1999, 1089; Cass., 16 ottobre 1998, n. 10237, in Mass. Foro it., 1998, 1065; Cass., 20 ottobre 1997, n. 10252, in Mass. Foro it., 1997, 1021.

[265] Sono considerate condizioni dell’azione la legittimazione e l’interesse ad agire o a contraddire. L’eventuale mancanza delle stesse, rilevabile anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo, impone al giudice l’adozione di una pronuncia di mero rito con la quale dichiarare la carenza d’azione. La sopravvenienza nel corso del processo delle condizioni dell’azione, eventualmente assenti al momento della proposizione della domanda, consente però che la causa venga decisa nel merito.

[266] In questo senso, v. Nazzicone, sub art. 2393 bis c.c., in Lo Cascio (a cura di), La riforma del diritto societario Società per azioni. Amministrazione e controlli (artt. 2380-2409 noviesdecies c.c.), Milano, 2003, 206 s. Per la conclusione che non basti a consentire la decisione di merito il fatto che i requisiti legittimanti sussistessero al momento della proposizione della domanda, quando essi siano venuti meno successivamente, v. anche Auletta, sub art. 2393 bis, in Sandulli e Santoro (a cura di), La riforma delle società. Società per azioni. Società in accomandita per azioni, Torino, 2003, 487. s, il quale, traendo tutte conseguenze della ricostruzione del requisito in esame come condizione dell’azione, soggiunge che la titolarità del quorum può anche sopravvenire in corso di causa, in quanto non ne sia stata previamente rilevata e dichiarata la mancanza, permettendo così la pronuncia di una sentenza sul merito della causa. L’opinione secondo cui la titolarità della quota deve persistere sino alla pronuncia della sentenza, costituendo una “condizione dell’azione”, era già stata affermata in relazione all’azione sociale di minoranza nelle società quotate ex art. 129 T.U.F., da Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, Torino, 2002, 327; Riscossa, sub art. 129, in La legge Draghi e le società quotate in borsa, Torino, 1999, 170; Picciau, sub art. 129 T.U.F., in Marchetti e Bianchi (a cura di), La disciplina delle società quotate, Milano, I, 1999, 988 ss.; Meo, Le società con azioni quotate in borsa, in Tratt. Rescigno, XVII, Torino, 2002, 191 ss., per il quale è del resto razionale che l’azione non possa sfociare in una pronuncia nel merito quando la minoranza, scendendo sotto la quota minima prevista per l’esercizio dell’azione, dimostri di non essere più in grado di costituire centro di imputazione di interessi rilevanti. Contra, v. però Campobasso, sub art. 129 T.U.F., in Campobasso (a cura di), Testo unico della finanza, II, Torino, 2002, 1070, secondo cui non è possibile risolvere il problema in esame solo sulla base di principi processuali di valore oltretutto solo tendenziale ed a cui parere “la postulata necessità della permanenza della titolarità del cinque per cento delle azioni fino alla chiusura del giudizio non solo non trova alcun conforto nella lettera e nella ratio della norma, ma anzi trova indicazione contraria nella mancata previsione dell’obbligo di deposito delle stesse per il tempo del giudizio”.

[267] L’attribuzione in capo alla Consob è stata dettata dalla necessità di modificare il sistema precedente, che vedeva scarsamente utilizzata la nomina dei sindaci da parte delle minoranze.

[268] Anche nella relazione illustrativa al decreto si precisa peraltro che la previsione del voto di lista mira a garantire l’effettiva estraneità dalla compagine di maggioranza dei sindaci espressione delle minoranze.

[269] In modifica del Regolamento Emittenti, la Consob ha inserito un nuovo titolo (V-bis) recante “Organi di amministrazione e controllo”. La Sezione III del titolo in esame si apre con la disposizione che definisce i rapporti di collegamento esistenti tra uno o più soci di riferimento e uno o più soci di minoranza.

[270] In più passaggi il Regolamento Consob manifesta un’accentuata propensione a garantire l’effettiva elezione del sindaco espressione di minoranza. Con particolare riferimento alle previsioni in merito all’elezione del sindaco di minoranza, si osserva che, nel caso in cui alla scadenza del termine sia stata depositata una lista ovvero solo liste presentate da soci che risultano collegati tra loro, ai sensi dell’art. 144-quinquies RE, la società dispone la proroga del termine per ulteriori 5 giorni e il dimezzamento dell’eventuale quorum statutario (art. 144-sexies, co. 5, RE). Nell’ambito della procedura di consultazione Confindustria aveva criticato tale scelta, ritenendo eccessiva da parte di Consob la definizione di modalità volte a garantire l’effettiva nomina del sindaco di minoranza.

La Consob, tuttavia, non solo ha mantenuto tale impostazione, ma le modifiche apportate poco aiutano a chiarire alcune delle perplessità emerse nell’ambito della procedura di consultazione.

[271] Infatti, come ha chiarito la stessa Consob, le ipotesi annoverate nell’art. 144-quinquies RE non sono esaustive e l’eventuale accertamento di fattispecie ulteriori in sede di impugnativa giudiziaria può avere affetti destabilizzanti per consigli e collegi eletti sulla base della nuova procedura. Di tal che, la dichiarazione circa la sussistenza del collegamento potrebbe risultare utile a prevenire o ridurre il rischio di un eventuale contenzioso.

[272] Per quanto apprezzabile la versione definitiva assunta da Consob nel Regolamento, sarebbe in ogni caso opportuno adottare, anche a livello statutario, opportuni meccanismi che consentano di mantenere la rappresentanza della minoranza in seno al consiglio anche in caso delle sue dimissioni.

[273] Sistema ancora in vigore per le s.p.a. non quotate, cfr. art. 2403-bis c.c. Questa disposizione era stata anche trasfusa nel TUIF all’art. 151, dall’art. 9.80, comma 1, lett. b. D.Lgs. n. 6/2003, come modificato dall’art. 3.1 D.Lgs. n. 37/2004.

[274] Sul punto va subito detto che gli interventi posti in essere dal legislatore prima nel 1998, e poi in modo generalizzato nel 2003, hanno in parte limitato le potenzialità dell’organo di controllo, così come si era via via sviluppato dal codice del 1942 in poi.

[275] L’art. 2403 c.c., prima della riforma del 2003 così recitava: “Doveri del collegio sindacale. – Il collegio sindacale deve controllare l’amministrazione della società, vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo ed accertare la regolare tenuta della contabilità sociale, la corrispondenza del bilancio alle risultanze dei libri e delle scritture contabili e l’osservanza delle norme stabilite dall’art. 2426 per la valutazione del patrimonio sociale. Il collegio sindacale deve altresì accertare almeno ogni trimestre la consistenza di cassa e l’esistenza dei valori e dei titoli di proprietà sociale o ricevuti dalla società in pegno, cauzione o custodia. [… Omissis].

[276] Salva la possibilità di deroga prevista dalla legge per le società “chiuse”.

[277] Già il D.Lgs. n. 58/1998 aveva attribuito la funzione di controllo contabile alla sola società di revisione, limitando l’intervento del collegio sindacale al dovere di vigilare: “a) sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; b) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione; c) sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo contabile nonché sull’affidabilità di quest’ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione”. Successivamente, con la riforma del 2003, il legislatore ha sostanzialmente equiparato le funzioni del collegio sindacale nelle società chiuse a quelle previste per le società “aperte” e quotate, modificando di conseguenza anche l’art. 2403 c.c. e prevedendo che anche nelle società chiuse il controllo contabile venisse affidato ad un revisore esterno.

[278] Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti – Consiglio Nazionale Ragionieri e Periti Commerciali, I Principi di comportamento del collegio sindacale nelle società controllate da società con azioni quotate nei mercati regolamentati, 19 ottobre 2000.

[279] Corsi F., Il collegio sindacale, in La riforma delle società quotate, (a cura di)  Monelli,  Buonocore,  Corsi, Costi, Ferro-Luzzi,  Gambino. P.G. Jaeger e A. Patroni Griffi, Milano, 1998, Domenichini , Il sistema dei controlli, Convegno di studi – Alba, 21 novembre 1998, Dalla riforma Draghi alla riforma delle società non quotate in Le Società, 1999.

[280] Costi , Note sul diritto di informazione e di ispezione del socio, in Riv. soc., 1963.

[281] Salanitro , L’invalidità di deliberazioni di assemblee di società per azioni, Milano, 1958

[282] Cavalli , I sindaci, in G.E. Colombo – G.B. Portale, Trattato delle società per azioni, Torino, 1988

[283] Salafia , I nuovi soggetti legittimati al ricorso ex art. 2409 c.c., secondo l’art. 152, D.Lgs. n. 58/1998, in Le Società, 2001

[284] Cottino , Diritto commerciale, 1976

[285] Tra l’altro, il capitale di comando possiede per naturale disposizione la capacità di valutare, anche sotto l’aspetto tecnico-contabile, l’operato degli amministratori. Giuliani, Sulla sostituzione e integrazione del collegio sindacale, Riv. not., 1969

[286] Caratozzolo , I nuovi principi di comportamento per i sindaci delle società quotate: un primo commento, in Le Società, 1999

[287] Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2, Torino, Utet, 2000

[288] Ad esempio, si potrebbe avere una deliberazione approvata all’unanimità da un’assemblea non preceduta da convocazione, alla quale abbiano partecipato tutti i soci, ma non tutti gli amministratori ed i sindaci; oppure una deliberazione approvata da tutti i soci, ma senza riunione. Locatelli , La relazione del collegio sindacale al bilancio di esercizio nelle società quotate, in Dalla riforma Draghi alla riforma delle società non quotate, in Le Società, 1999

[289] Brunelli , Il libro del lavoro, in Commentario al Codice Civile italiano, 1956, Minervini ., Le funzioni del collegio sindacale, in Corti Bari, Lecce, Potenza, 1965.

[290] Anche la Consob, secondo quanto prevede l’art. 152, comma 2 TUIF, può denunciare al tribunale le irregolarità nell’adempimento dei doveri sindacali, qualora nutra fondati sospetti sulla loro sussistenza. La norma in esame, in particolare, dispone genericamente che oggetto della denuncia della Consob sono tutte le irregolarità attinenti all’adempimento dei doveri sindacali, senza distinzione del soggetto destinatario del dovere irregolarmente assolto o non assolto. Salafia , Il collegio sindacale nelle società quotate, in Le Società, 1998

[291] Limiti che, a norma di legge, devono essere stabiliti dalla Consob “avendo riguardo all’onerosità e alla complessità di ciascun tipo di incarico, anche in rapporto alla dimensione della società, e al numero e alla dimensione delle imprese incluse nel consolidamento, nonché all’estensione ed all’articolazione della sua struttura organizzativa”.

[292] Merita, infatti, attirare l’attenzione sul fatto che gli artt. 151 bis e 151 ter, che hanno ampliato i poteri individuali sia dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione che del consiglio di sorveglianza, si sono limitati ad estendere al singolo componente l’organo di controllo il solo potere di chiedere informazioni agli amministratori, precisando peraltro in entrambi i casi che le notizie debbono essere fornite a tutti i componenti l’organo di controllo (si confrontino i primi commi degli artt. 151, 151 bis e 151 ter, per coglierne le differenze), mentre hanno lasciato il potere di procedere ad atti di ispezione e controllo, nonché quello di scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate all’organo nel suo insieme, salvo la possibilità di delega (cfr. gli artt. 151 bis, comma 4, e 151 ter, comma 4).

[293] Restano naturalmente alcune piccole differenze applicative alle quali, per esigenze di sintesi, non si è fatto esplicito riferimento in questa sede, che comunque non modificano nella sostanza i principi generali applicabili nei diversi sistemi.

[294] Sul punto cfr. anche Visentini , Ruggiero , La nuova legge di tutela del risparmio. Prime riflessioni, in Diritto e Pratica delle Società n. 1/2006, p. 6.

[295] In questi termini Visentini , Ruggiero , La nuova legge di tutela del risparmio. Prime riflessioni, in Diritto e Pratica delle Società n. 1/2006, p. 6.

[296] La novità è costituita dall’aver esteso l’ambito di applicazione della disposizione sull’incompatibilità e indipendenza, includendo anche il caso del legame con gli amministratori della società e i soggetti di cui alla lett. b) dello stesso art. 148, comma 3; e comprendendo anche il riferimento ad altri rapporti di natura professionale che ne possono compromettere l’indipendenza.

[297] Colombo , L’impugnativa del bilancio certificato, in Riv. soc., 1982.

[298] Tedeschi , Il collegio sindacale, in Il Codice Civile – Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1992

[299] La novità di rilievo è appunto l’avere esteso al singolo componente del collegio sindacale la possibilità di esercitare tali poteri.

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