Pubblicazioni

MASSA, SOCIETA’ DI MASSA E OPINIONE PUBBLICA

1 – Società di massa e urbanizzazione

Lo studio sociologico degli eventi che hanno segnato le grandi manifestazioni di piazza che, pur trovando un proprio culmine nell’evento conosciuto ai più come G8, ovvero nel vertice delle 8 potenze economiche mondiali tenutosi a Genova nel 2001, va ricercato in una serie di accadimenti altrettanto importanti che costituirono l’anticipazione di quanto sarebbe poi accaduto nella città ligure, non può prescindere dall’analisi approfondita di quegli aspetti che la psicologia e la sociologia collegano tradizionalmente alle masse.

L’insieme di persone che, per ragioni di natura politica, come nel caso in esame, ma non solo, si radunano e divengono un solo elemento, è in realtà una problematica di estremo interesse che le scienze sociali e psicologiche si preoccupano di analizzare da tempo, al fine di comprendere quali meccanismi sottendano all’individuo che, confuso nella massa, lascia che il proprio pensiero, obiettivi, modo di pensare e di agire, possano essere da questa influenzati e, al tempo stesso, costituirne un elemento influenzante.

Sono studi che si incentrano dunque su aspetti molteplici: sull’evoluzione storica che il pensiero della massa ha avuto negli anni, sul contesto nel quale e con il quale si è dovuto raffrontare, sugli spunti offerti a tale proposito dalla politica, dalle culture giovanili, dal movimento dei lavoratori: elementi che hanno fortemente influito, combinandosi tra loro, sulla nascita di quella che può essere definita, a seconda dei casi, cultura o controcultura di massa.

Si rende pertanto necessario in primo luogo un approfondimento che verifichi quelle ipotesi nelle quali è stato, o è tuttora, possibile parlare di massa e cultura di massa, analizzarne le principali problematiche e, non meno importante, rinvenire quegli elementi che, estrapolati dal contesto, oggettivizzati, torneranno a ripetersi nei singoli eventi storici (tra cui rientra oramai a pieno diritto quel caldo agosto di cinque anni fa), determinando le modalità comportamentali delle folle assiepate in luoghi pubblici.

Non poteva allora non iniziarsi questa disamina dal primo e probabilmente più determinante tra i fattori che coinvolgono l’individuo ad un rapporto spesso forzato di convivenza con altri: l’urbanizzazione. La convivenza civile che cioè, sviluppatasi intorno ai grandi poli urbani (le moderne e tentacolari megalopoli cittadine) assume connotazioni tutte particolari[1].

Sono le città, più significativamente: gli agglomerati urbani (ed umani), a costituire il primo e fondamentale elemento alla base dei movimenti di massa, siano essi violenti o non violenti. Sono le città che favoriscono il nascere di un pensiero comune, diffuso attraverso il passaparola, l’incontro in luoghi deputati allo scambio di idee, ma anche la necessaria e talora angusta convivenza che in esse si viene a determinare. Sono le città, in ultima istanza, la causa principale del malessere dell’uomo moderno, il quale talora reagisce coalizzandosi contro l’ambiente non-ambiente nel quale egli vive, percependolo come una costrizione, e, di conseguenza, ribellandovisi.

Nel farlo, cerca e trova l’appoggio necessario dei suoi simili: colleghi di lavoro, costretti anche loro ad orari massacranti e ridotti allo sfruttamento. Negli amici studenti, che dividono lo stesso sapere, lo stesso apprendimento, e dunque danno vita ad un dibattito culturale che, in particolare negli anni Settanta, si porrà obiettivi tutt’altro che semplici: la radicale trasformazione della società.

Ed infine, ma non meno importante, dei propri simili, talora coloro i quali sono in grado di percepire le proprie esistenze con il medesimo grado di insoddisfazione, perché ridotti allo stesso sistema urbano, e dunque “costretti” (o forse, più opportunamente, forzosamente indoti) a rivolgersi con violenza ai detentori del potere, quei centri logistici contro i quali la massa, sia essa frutto o meno dell’urbanizzazione moderna, tradizionalmnte scaglia le proprie accuse, vedendovi la causa dei propri malesseri ed il solo ricettacolo delle proprie insoddisfazioni[2].

In tutto ciò la città costituisce il contesto di base entro il quale il movimento collettivo trova il suo sfogo. Può essere Genova, ma non necessariamente: qualunque città occidentale potrebbe andare bene. Essa è l’emblema del meltin pot culturale e ideologico, dell’incontro e scontro tra razze, religioni, sessi, opinioni, tale da ingenerare tale e tanta confusionarietà che, per necessità a volte, l’individuo cerca simili con i quali coalizzare i propri sforzi ed ai quali allearsi per sentirsi unico, riappropriarsi cioè della propria dimensione personale, che il contesto nel quale vive gli ha negato.

La città, questo è il paradosso, offre all’individuo lo spunto per sentirsi tale, non nella sua unicità (essendogli questo precluso dalle barriere architettoniche e ideologiche che caratterizzano la struttura portante dei grandi centri urbani) ma piuttosto nella sua dimensione collettiva. Una dimensione di cui avverte la forza, l’influenza, e che dunque gli permette di recuperare quell’autocoscienza che altrimenti avrebbe definitivamente perso. 

2 – Società di massa e studi teorici interdisciplinari

Lo studio della massa, quale complesso di soggetti che agiscono contemporaneamente, siano essi parte di uno stesso contesto urbano (come si è appena visto) e vengano dunque influenzati da questo, siano invece soggetti appartenenti a diverse realtà che vengono ad essere accomunati da un particolare evento, o modo di pensare, parte dallo studio dei mezzi di comunicazione di massa[3]. Ovvero quegli elementi che sono in grado di intervenire su questi soggetti, di comunicare e, conseguentemente, di comprenderne (o cercare di comprenderne) le esigenze, le aspettative, i problemi.

Più precisamente, quegli elementi che subiscono un forte, fortissimo condizionamento da parte dell’opinione pubblica (come si vedrà più dettagliatamente con riguarda alla televisione ed alla pubblicità) e dalle aspettative che quella ripone in essi.

Poi, raggiunte le prime conclusioni, la ricerca dovrà spostarsi su un piano diverso, quello cioè dell’interdisciplinarietà. Dovrà cioè soffermarsi su tutti quei profili di connessione tra più settori disciplinari che riguardano, in ultima istanza, appunto le masse.

Un primo elemento è sicuramente quello di tipo storicistico: dove nasce lo studio sulla folla, sui comportamenti da questa tenuti e sulle conseguenze di tali comportamenti? La storia della società umana è costellata da eventi ed accadimenti che hanno come protagonisti le folle. Si pensi agli spettacoli circensi (ma anche a quelli legati al carnevale, contraddistinto dal motto secondo il quale semel in anno licet insanire, giustificando cioè comportamenti anormali delle folle, colte dal delirio per i festeggiamenti che duravano ininterrottamente più giorni) che contraddistinguevano i divertimenti del popolo Romano, oppure, nel Medio Evo francese, l’evento della notte di San Bartolomeo, anche questo esempio tipico del realizzarsi di meccanismi atti ad ingenerare modificazioni nel comportamento individuale[4].

Ma, come è facile immaginare esiste un evento storico che, più di altri, viene comunemente associato al concetto di azione collettiva in tumulti, in cui la folla assume tutte le caratteristiche necessarie per poter essere considerata attore sociale: ovvero la Rivoluzione francese[5].

Sarà proprio a seguito di questo determinante evento storico[6] (unitamente a quelli che derivano dall’esperienza anglosassone, altrettanto significativa per quanto riguarda la progressiva affermazione dei diritti dei singoli nel corso dei secoli successivi) che le folle assumeranno una connotazione propria nello svolgersi degli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi secoli, ed il compito degli studi psicologici e storiografici è appunto quello di ricostruirne i movimenti e, per quanto possibile, le influenze sull’andamento degli eventi presenti e passati.

L’evento costituisce uno “snodo cruciale”[7] per l’affermazione progressiva di alcuni diritti costituzionali fondamentali che, al tempo, venivano riassunti nel celeberrimo motto “Libertè, Fraternitè, Egalitè”. E tutte le fasi più cruente che caratterizzano l’esperienza rivoluzionaria francese sono appunto contraddistinte dalla presenza della folla, dagli eccessi e dalle passioni di questa[8].

Segue alla rivoluzione francese la lunga parentesi napoleonica ed il periodo della restaurazione. Gli studi di tipo storiografico identificano quindi anche in questa fase il risvegliarsi delle coscienze popolari, nel verso di un più forte sentimento nazionalista e della consapevolezza dell’assunta superiorità sociale, economica e politica[9].

Questa fase si connota dunque per elementi di forte rilievo dal punto di vista del ruolo delle folle. Si pensi inoltre al suffragio universale, che può essere interpretato appunto quale conferma del ruolo politico riconosciuto non più ai pochi, gli individui ricchi e di casate nobili, ma alla maggioranza dei soggetti, dando pertanto credito alla funzione essenziale di questi nella vita politica del paese e riconoscendo, inoltre, la rilevanza della pubblica opinione (dei cui sviluppi si parlerà più approfonditamente in seguito)[10].

Agli studi storiografici si affiancano necessariamente quelli di natura sociologica, che intervengano nella definizione anzitutto di quali elementi determinino l’individuo, e più precisamente: l’individuo all’interno di una folla in tumulto, ad assumere comportamenti devianti. A lasciare cioè che siano le passioni e non il raziocinio a dettare il proprio operato.

In secondo luogo identificando alcuni degli elementi che potrebbero contrastare, o piuttosto prevenire, questo tipo di comportamenti, intervenendo in funzione deterrente o punitiva.

Ancora, elementi di assoluto rilievo nello studio interdisciplinare delle masse sono, sicuramente, gli studi di natura psicologica che svolgano riflessioni proprio sul ruolo di queste e su quei fattori che ne possono influenzare l’operato. S’è fatto l’esempio delle masse all’interno della rivoluzione francese, e di come queste avessero assunto proprio tale connotazione: quella cioè di un elemento degno di essere studiato psicologicamente, in quanto riconducibile ad un’unica, seppur frammentaria, volontà, e non più ad un insieme separato di volontà dei diversi soggetti che vi facevano parte.

Infine, ma non meno importante, rileva lo studio degli accadimenti recenti, quello che si verrà ad affrontare soprattutto nell’ultima parte della presente trattazione. Non si tratta di un’indagine di tipo storiografico, non solo perlomeno. Si tratta piuttosto del tentativo di fornire di una chiave di lettura efficace il presente, quando siano le masse a costituirne le indiscusse protagoniste. Un’indagine che dunque, senza l’ausilio degli studi di natura prettamente storiografica, psicologica e sociologica, non potrebbe condurre ad alcun risultato effettivo. 

3 – Riflessioni teoriche sui concetti di massa e folla

E’ possibile riprendere il filo del discorso affrontato nel precedente paragrafo, per chiarire come gli studi teorici e le riflessioni svolte sulla massa e sulla folla, prendano come punto di partenza l’evoluzione storica di queste.

Si è detto già di come la nascita del concetto debba essere fatta risalire alla rivoluzione francese, non tanto in quanto prima rappresentazione delle masse nella storia (ben prima infatti si dimostrano presenti elementi di questo tipo nella narrazione delle vicende storiche) ma, piuttosto, come prima esperienza umana in cui alla massa viene riconosciuto un ruolo autonomo, ed anzi essenziale al fine di determinare l’influenza sugli eventi.

Ebbene, chiarito questo aspetto, gli studi teorici si sono soffermati sui fattori che più da vicino hanno contraddistinto la presa di coscienza del ruolo della folla e dell’individuo inserito in un contesto collettivo, agente all’unisono. Si è visto del diritto al voto, e dunque della rilevanza assunta anche in ambito politico dall’opinione pubblica, il secondo elemento riguarda sicuramente il mondo del lavoro. Anche dal punto di vista della produzione infatti, in corrispondenza con l’inizio del secolo XIX si massifica l’ingresso degli individui[11].

Gli studi sociologici hanno evidenziato come i lavoratori (che, si ricorda, nell’era industriale coinvolgono non solo gli uomini adulti, ma anche donne e bambini) venissero a costituirsi in leghe al fine di rivendicare i propri diritti e migliorare le proprie condizioni sul posto di lavoro. L’esempio più eclatante è costituito dal movimento “luddista”, che arrivò a distruggere i macchinari industriali quale forma di rivendicazione estrema contro lo sfruttamento dei lavoratori stessi[12].

A fronte dunque dell’incertezza legata al lavoro, dovuta al passaggio (dai più avvertito come traumatico) da un’era preindustriale ad una industriale, allo sfruttamento selvaggio che la borghesia perpetrava nei confronti della classe proletaria (classe di massa per eccellenza, che proprio in quegli anni veniva a nascere e fondare le proprie radici[13]), della scomparsa del piccolo artigianato, soppiantato dalle macchine e dal lavoro di fabbrica, la violenza, perpetrata dalle masse, viene concepita come mezzo di riscatto.

Riscatto dalle pessime condizioni di cui s’è detto ovviamente. Ma non solo, anche quale mezzo di rivendicazione salariale. Gli scioperi, le agitazioni e le insurrezioni divengono forme di lotta assidua di tutte le organizzazioni operaie che vanno nascendo sul territorio nazionale, giungendo al culmine nel corso del giugno del 1848 in Francia[14].

Giungendo a periodi a noi più recenti, non può dimenticarsi l’intero decennio di movimenti contro-culturali di massa che è costituito dagli anni Sessanta. Sarà proprio in questo periodo, come hanno rilevato gli psicologi ed i sociologi, che si determinerà la coesistenza di una serie di fattori fondamentali tali da comportare l’assoluto predominio delle masse, dei giovani, ma non solo.

Nelle scuole, nelle università (E dunque nei centri del sapere), per le strade, lungo i cortei, la consapevolezza vissuta sarà unica, quella cioè di un movimento collettivo in grado (questa era, allora, la convinzione radicata e diffusa in tutti i dimostranti) di modificare la realtà oggettiva dei fatti e realizzare una società più giusta ed equa, a misura di uomo[15]. 

4 – I lati positivi dell’emergere delle masse

I teorici dei mezzi di comunicazione si sono occupati spesso dell’impatto dei media sulla qualità e sulla salute della vita sociale, ed i risultati di questi lavori interpretativi hanno portato ad evidenziare, per via mediata, i diversi aspetti positivi del concetto di massa[16].

Si è visto cioè come l’emergere delle masse, pur collegandosi ad eventi critici della storia delle singole nazioni (la rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, il movimento operaio, sono solo alcuni degli esempi che si sono riportati), e spesso connotandosi con episodi di violenza e soprusi perpetrati dalle folle, tuttavia abbia ottenuto anche una serie di fondamentali risultati positivi.

L’emancipazione politica anzitutto. Si tratta di un elemento assolutamente determinante che l’opera dei singoli, per quanto di aiuto in questo senso, non avrebbe però mai realizzato da sola.

Ma anche l’emancipazione sul lavoro, e dunque le vittoriose rivolte sindacali, che hanno portato al miglioramento della posizione di milioni di operai prima, e lavoratori stipendiati più recentemente. La stessa forza sindacale è ancora oggi un tipico esempio di azione di massa, non più violenta, ma pronta ad ottenere le proprie rivendicazioni con metodi altrettanto efficaci: lo sciopero, la serrata, il boicottaggio della catena di montaggio. Si tratta di esempi evidenti in cui l’unione tra più individui, proficuamente realizzata, abbia potuto determinare risultati apprezzabili e non soltanto distruttivi.

Costituisce, inoltre, l’ennesima dimostrazione della necessità per le folle di organizzare la propria azione in ragione degli obiettivi che si intendono raggiungere, al fine di ottimizzare gli sforzi ed evitare inutili violenze.

Ma, arrivando agli episodi più recenti, la forza d’urto del pensiero e dell’azione di massa si è rivelata in tutta la sua prepotente efficacia anche con riguardo agli avvenimenti legati intorno al G8 (di cui si darà conto nell’ultima parte della trattazione).

Si è trattato cioè di una serie di interventi che hanno realizzato lo scopo essenziale di sensibilizzare l’opinione pubblica su tematiche altrimenti poco discusse (la “globalizzazione”, l’inquinamento terrestre, lo sfruttamento di aree piuttosto ampie del globo terrestre, sono solo alcuni degli esempi in questione) ed hanno evidenziato ancora una volta come, pur potendo degenerare in scontri di piazza violenti, possono però essere condotti anche pacificamente, inducendo “l’uomo comune” a riflettere sulla giustezza delle proprie scelte, venendo dunque influenzato dal pensare comune anche se non attivamente impegnato in quello.

In sostanza, e come si vedrà ancora meglio nel successivo paragrafo, l’attività delle masse è stata in grado ed è tuttora in grado di convogliare non soltanto energie distruttive o di rottura. Può, a volte, partire da quelle. Altre volte può finire per determinare esiti violenti di questo tipo.

Ma più spesso, forte di una consapevolezza acquisita con il tempo, ha saputo influenzare un numero crescente di persone, costringendo i comunicatori, quelli che alle masse si rivolgono per trasmettere un messaggio che risulti efficace, a modificare il proprio comportamento ed adeguarsi al rinnovato modo di pensare comune, realizzando il migliore dei risultati possibili: quello cioè del successo ottenuto senza scontri e violenza.

Questa consapevolezza è l’elemento di base dell’opinione pubblica, lo strumento cioè attraverso il quale, l’influenza di cui si diceva è venuta a realizzarsi.

5 – L’opinione pubblica

è venuta ad emergere con chiarezza, nelle pagine precedenti, la figura della massa come un elemento non necessariamente negativo. Pur presentando cioè aspetti di sicura problematicità, l’insieme degli individui può costituire al tempo stesso un incentivo notevole nei confronti degli stessi individui che la compongono.

Ebbene, l’opinione pubblica costituisce, a tale proposito, un elemento emblematico. Tra gli orientamenti[17] che più di altri hanno caratterizzato la ricerca nelle comunicazioni di massa è infatti riscontrabile una tendenza comune: ovvero la consapevolezza del pubblico che si è andata facendo nel corso degli anni sempre più incisiva, costruendo un rapporto con i media (i soggetti istituzionalmente deputati ad influenzare l’opinione pubblica) non più e soltanto passiva, ma anche attiva, bi-direzionale.

La rivalutazione di un ruolo attivo del pubblico ha comportato di conseguenza una rivalutazione del concetto stesso di opinione pubblica, ossia libero convincimento dell’insieme di persone cui viene rivolto il messaggio, appunto il pubblico. Ha investito, inoltre, numerosi aspetti che si legano necessariamente ad esso.

In primo luogo l’aspetto riguardante la ricerca sociale sulle aziende dei media (uno degli ambiti cui, per definizione, si articola l’analisi sociologica delle comunicazioni di massa che sono proprie del pubblico), che, si è rilevato, è stata fortemente influenzata dalla sociologia delle professioni e dalla sociologia del lavoro e delle organizzazioni, finalizzandosi cioè ad un approccio di natura più descrittiva, volta al perseguimento di obiettivi più immediatamente utili dal punto di vista pratico.

In pratica, se in una prima fase della ricerca (antecedentemente agli anni settanta) si era cercato di ricostruire piuttosto l’aspetto legato al profilo sociale, all’atteggiamento nei confronti della professione, nonché il gradimento per l’attività che veniva svolta dai singoli lavoratori, sarà proprio a partire dagli anni settanta che, al contrario, si porrà l’accento sui processi produttivi, in particolare per quanto riguarda l’informazione. Si porrà cioè l’attenzione sul processo che i lavoratori (ma l’indagine può essere estesa ad altri e più ampi settori dell’opinione pubblica) verranno a selezionare l’informazione e sapranno utilizzarla, rendendola, materialmente, notizia[18].

Sempre a tale proposito, le ricerche giungevano allora a definire anzitutto il concetto di “valore-notizia”, ossia del complesso valorizzativi attribuito all’elemento della notizia (o meglio: le caratteristiche proprie di determinati eventi che orientano non solo la selezione, ma anche la trattazione e la presentazione degli eventi stessi, che, come tali, guidano il lavoro di qualsiasi redazione), e dall’altro, alla descrizione delle attività produttive di tipo ripetitivo. Queste ultime in particolare, si ebbe modo di rilevare, erano tali da influenzare necessariamente la notizia in modo discorsivo, di modo che l’opinione pubblica fosse appunto destinata ad incidere notevolmente, attraverso gli schematismi che le erano propri, in particolare se di routine, sulla formazione della notizia in sé[19].

Il secondo aspetto si lega sempre alla ricerca del rapporto tra media ed opinione pubblica, ma, al passo con l’evoluzione dei tempi, si sofferma su aspetti diversi rispetto a quelli propri della professione e del processo produttivo cui questa si collega. Più precisamente, e, per quanto di interesse della trattazione, sicuramente in modo più interessante, rivolge lo sguardo al rapporto che si instaura tra i media come aziende che producono e il più delle volte commercializzano l’informazione di massa ed il pubblico, da intendersi come insieme di segmenti di consumatori che sono i principali fruitori del prodotto informazione[20].

Sotto questo specifico profilo è probabilmente la televisione l’elemento di maggiore significato, per la oramai totale diffusione che questa viene ad avere nei paesi industrializzati, e per la fortissima capacità persuasiva e modellatrice dell’opinione pubblica che questa esercita. Si tratta cioè di analizzare quali strategie le grandi aziende mettono in atto per conquistare il cosiddetto audience, ovvero il massimo gradimento da parte dei suddetti segmenti.

Si tratta di strategie che hanno un forte impatto sull’opinione pubblica, e riflettono inevitabilmente la risposta di questa a tale invasività. Possono essere positivamente accolte, ed allora determineranno il modellarsi, seppur temporaneo, di quella a queste, ma possono anche risultare fallaci, e determinare l’effetto opposto. Le emittenti televisive possono cioè sollecitare l’esposizione e tentare di orientare le scelte dei consumatori-telespettatori, ma non possono certamente controllare il pubblico costringendolo a sintonizzarsi sui propri programmi.

Ed è dunque un aspetto questo che permette di sviluppare un terzo polo di ricerca sui rapporti tra opinione pubblica e fattori contingenti: la pubblicità. Anche questa infatti presenta le stesse caratteristiche ora menzionate per le televisioni. Anche questa cioè, se è efficace, può sollecitare il consumatore ad acquistare un dato bene, ma non sempre riesce, e può determinare l’indifferenza o addirittura l’effetto opposto: la repulsione[21].

Ebbene, la ragione per cui, sia nel primo che nel secondo caso, il comunicatore deve avere sempre presente il possibile fallimento del proprio progetto è dovuta ad un elemento piuttosto semplice, ovvero il fatto che a determinare il comportamento d’acquisto intervengono caratteristiche di personalità, ma anche (e soprattutto) elementi di tipo sociale che né la pubblicità né l’emittente televisiva possono controllare.

Quando cioè l’opinione venutasi a formare su un determinato format (continuando a riferirci al primo esempio, quello della televisione) o ad un prodotto (per ciò che attiene la pubblicità) sono negative, vengono cioè avvertite come tali da un numero di persone sufficiente a poter parlare di massa, o meglio, di opinione pubblica, allora quel messaggio è destinato a fallire. Ecco qui dimostrata la natura biunivoca del rapporto: che trova un’influenza sia del comunicatore, ma anche del comunicato nei confronti di questo, il quale è costretto a doversi adeguare costantemente al primo se non vuole essere surclassato dai concorrenti[22].

Sempre dal punto di vista dello studio della biunivocità del rapporto tra opinione pubblica e grandi sistemi di comunicazione di massa, non si può non citare la ricerca che, in particolare negli Stati Uniti, per molti anni ha portato ad individuare le forme più efficaci attraverso le quali l’opinione sarebbe potuta essere direzionata. In particolare si è venuta a delineare una rappresentazione della realtà sociale proposta dai vari media, con la descrizione dei profili umani in essi presenti, dei valori e dei modelli di comportamento rafforzati o al contrario negati, dei pregiudizi e degli stereotipi relativi a situazioni sociali, eventi, persone, categorie, razze, gruppi ed etnie.

Questi studi hanno consentito di formare una sorta di base empirica sulla quale strutturare una conoscenza non solo più informata, meno ideologica e più realistica, ma svincolata dal concetto tradizionale di cultura di massa come cultura di basso profilo. L’opinione pubblica è invece finalmente assunta a criterio determinante perché espressione di un variegato insieme di soggetti che possono influenzare il messaggio[23].

Lo stesso studio del linguaggio pubblicitario e televisivo e venuto evolvendosi in ragione di questa crescente consapevolezza dell’opinione multiforme del pubblico, in particolare soffermando la propria indagine non sui problemi tradizionalmente legati alla routine della programmazione, ma considerando la televisione a la pubblicità come “propositori” di veri e propri eventi: accadimenti straordinari che implichino livelli di coinvolgimento del pubblico e modalità di fruizione anche esse straordinarie, al punto da poter catturare l’attenzione dell’opinione e favorire il comunicatore che meglio degli altri abbia saputo coinvolgerla[24].

Ed allora si sono studiati gli effetti che un buon messaggio esercita sull’opinione pubblica rispetto ad un non adeguato (non necessariamente “cattivo”, più probabilmente non idoneo a cogliere le esigenze di quella specifica fetta di soggetti), evidenziando anzitutto gli effetti specifici a breve termine che si determinano sulle opinioni, sugli atteggiamenti e sui comportamenti individuali, in una prospettiva caratterizzata dall’egemonia della teoria dei cosiddetti “effetti limitati”[25].

La teoria cioè secondo la quale l’influenza delle comunicazioni di massa su ciascun membro del pubblico (e quindi sulla sua opinione individuale) non è un’influenza diretta, ma al contrario mediata da fattori sia individuali che sociali. Tra questi ultimi verrebbero a situarsi in particolare quelli che mediano i rapporti interpersonali nei gruppi primari di appartenenza e la cosiddetta leadership d’opinione.

Ma già verso la fine degli anni Settanta questa teorizzazione viene parzialmente superata, a favore del riemergere dell’idea della assoluta potestà dei mass media sul pubblico. Ciò per tre ragioni principali. Anzitutto perché si faceva riferimento alla sempre maggiore estensione ed articolazione delle comunicazioni di massa, presenti in modo pervasivo nella vita quotidiana di gran parte della popolazione.

In secondo luogo perché si sottolineava la crisi progressiva della comunicazione comunitaria, in particolare nei grandi agglomerati urbani, con un conseguente possibile indebolimento della funzione di mediazione svolta dai rapporti interpersonali nei processi di influenza.

Infine, in terzo luogo, si veniva delineando nella sociologia delle comunicazioni di massa uno spostamento dell’interesse dagli effetti a breve termine a quelli a lungo termine, ed in particolare, tra questi ultimi, a quelli riferiti ai processi di socializzazione, di formazione e cambiamento del sapere comune, nonché sulla costruzione sociale della realtà[26].

In definitiva allora, il potere del pubblico nei confronti dei mass media si manifesta nel suo essere attivo verso di questo. A prescindere dalle teorie sulla prevalenza assoluta dei mezzi di informazione, quello che, al contrario, emerge con chiarezza oramai da diversi anni è esattamente l’opposto, ovvero la predominanza delle influenze dell’opinione pubblica proprio sul ruolo mediatico dei poli di comunicazione, che non possono fare a meno di considerarne le tendenze[27], o anche i capricci, per poter continuare ad esistere e giustificarsi. 

6 – Analisi empirica dell’opinione pubblica

L’esempio probabilmente più significativo dell’incidenza dei movimenti di massa, in particolare dal punto di vista dell’opinione da questi espressa, si determina probabilmente nel corso del ventesimo secolo.

Quando cioè nel corso degli anni Settanta, giunti a maturazione una serie di fattori complessivi provenienti da diversi settori (quelli cioè derivanti dal mondo del lavoro, ma anche quelli inerenti l’ambito politico e, seppure in misura minore, culturale) si giunse ad ottenere il risultato strabiliante di una mobilitazione globale.

Non erano più solamente le masse operaie a combattere per i propri diritti, né solamente quelle studentesche, ma per la prima volta si mobilitavano assieme, in ragione del fortissimo sviluppo dell’opinione pubblica che cominciava allora ad usufruire dei primi grandi mezzi di comunicazione di massa (in particolare cioè la televisione che si avviava a divenire un diffuso mezzo di comunicazione per tutta la popolazione occidentale)[28].

Quello che qui preme sottolineare, che gli studi di settore hanno confermato, è che lo studio empirico dell’opinione pubblica e dei diversi aspetti di cui questo si compone, può essere uno strumento di estrema significanza per il teorico che voglia interessarsi alla verifica delle conseguenze che l’azione delle folle può determinare nei contesti in cui si trova ad operare. Approfondendo, in proposito, aspetti che saranno oggetto di trattazione in particolare nella seconda parte della tesi: ovvero le ragioni che inducono alla devianza e, soprattutto, i rimedi approntabili contro tali evenzienze.

7 – Opinione pubblica e democrazia di massa

Dunque, in virtù di quanto analizzato e verificato nel corso delle pagine precedenti, può configurarsi una sorta di potere democratico delle masse, realizzato attraverso l’opinione a queste appartenenti.

Non solo l’influenza sulla vita politica, esercitata attraverso l’esercizio di diritto di voto, non solo l’influenza reciproca con i grandi mezzi di comunicazione: le emittenti televisive, i giornali, le radio, ed anche e soprattutto i pubblicitari, non solo, ancora, la piena coscienza della propria valenza ed operatività, tale da scuotere dalle fondamenta un sistema avvertito come iniquo, ma anche, appunto, la possibilità di esercitare attraverso la forza del collettivo, una forma di democrazia della collettività.

Proprio lo strumento dell’opinione pubblica costituisce il punto di massima forza di questo processo di democratizzazione. Lo scambio di informazioni repentino, favorito dalla nascita di nuovi e più veloci mezzi di comunicazione (internet su tutti) consente all’opinione pubblica di apprendere in tempo reale gli accadimenti che la circondano. Le consente, in particolare, di farlo senza la presenza del filtro che qualsiasi organo di informazione necessariamente subisce (dettato da ragioni politiche, ma anche sociali ed economiche). In sostanza le consente di avere un’immagine dei fatti che non sia distorta e che dunque, possa contribuire al formare di un’opinione talmente forte perché basata sulla realtà dei fatti, e della quale dunque i governanti, o più in generale coloro i quali sono destinatari dell’opinione stessa, non possono non tener conto.


[1] In questo senso si rimanda soprattutto alla lettura di LAmaddalena G., Urbanizzazione e partecipazione in una società di massa, Bari, 1977, nella quale si tratteggiano proprio gli aspetti essenziali della nascita di una cultura di massa all’interno delle grandi città, ricettacolo di culture, ideologie, pensieri ed azioni concrete.

[2] Di estrema significanza sono allora le riflessioni che svolgono proposito D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 36: “LA nascita del concetto di società di massa, dove ogni indivduo è in apparenza più libero e meno vincolato ad una società chiusa e fortemente gerarchizzata, induce ad altre riflessioni ed impone una disamina degli elementi che la compongono. Non sempre, infatti, le acquisite libertà civili ed il possibile esercizio dei diritti fondamentali eliminano del tutto le contraddizioni esistenti nella comunità umana. Non di rado anche nelle società più avanzate sotto il profilo di tutela delle posizioni giuridiche fondamentali, si assiste ad esperienze soggettive di alienazione che rendono possibile la nascita di movimenti estremisti finanche a società pluraliste degradate nei costumi e nei valori che rischiano di degenerare a società totalitarie. Le contraddizioni della società consumistica e la vulnerabilit delle elites politiche, non certo armate dei valori platonici per il governo della collettiv ità, comportano speso l’esistenza di gruppi marginali più esposti all’estremismo, cioè meno integrati e meno legati al potere. Tali gruppi si agitano, come nel passato i movimenti rivoluzionari, alla ricerca di una nuova società, di un nuovo modello di vita, di una nuova terra promessa”.

[3] Alla domanda su cosa sono i mezzi di comunicazione di massa tenta di rispondere McQuail D., Sociologia delle comunicazioni di massa, Bologna, 1973, pag. 9: “La domanda posta nel primo capitolo potrebbe sembrare superflua, se non addirittura futile. Tuttavia non è facile trovare una risposta chge vada al di là di un descrizione sommaria della semplice identificazione del fenomeno e nelle risposte che sono state date vi sono molte componenti e varianti…il risultato appartiene ad una determinata categoria del sapere teorico che, come detto, si colloca ad una certa distanza dai media stessi e dalla loro attività…potremmo definire il primo tipo di conoscenza come teoria del senso comune, poiché si riferisce alle idee che tutti abbiamo riguardo ai mass media in virtù sia della nostra esperienza diretta, sia dell’uso che ne facciamo, come parte di un audience o di un pubblico. Ogni lettore di giornale o spettatore televisivo ha una sua teoria implicita, consistente in una serie di idee sul mezzo di comunicazione in questione, e cioè cosa esso sia, a cosa serve, in quale momento della giornata lo si utilizza, come dovrebbe essere letto, come si connota e quali sono le sue relazioni nei confronti di altri aspetti essenziali dell’esperienza sociale…in secondo luogo esiste quella che potremmo chiamare teoria degli addetti ai lavori, e cioè quell’insieme diu idee che i professionisti del settore dei media hanno a proposito dia del fine che della natura del loro lavoro, sia del modo con cui devono essere ottenuti certi effetti. Alcune di queste idee sono di tipo tecnico, altre appartengono a tradizioni e pratiche professionali, norme di comportamento, regole empiriche, le quali determinano l’attività produttiva dei media e danno loro un certo grado di coerenza nel tempo…il terzo tipo di teoria è il più ovvio…e cioè la conoscenza deliberatamente riflessiva dell’osservatore professionale, il quale tenta di generalizzare sulla natura e sulle conseguenze dei mass media, sulla base di prove ed osservazioni”.

[4] Riflessioni simili le svolge, tra gli altri, Corsale M., L’autunno del leviatano, Roma, 1998, pagg. 83 ss.

[5] Rilevano la questione D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 23: “L’evento storico per eccellenza che ha determinato un ruolo preponderante nella folla come attore sociale, soggetto autonomo e strumento di pressione che contribuisce ad incidere sulla vita politica di una nazione, è la Rivoluzione Francese. Da questa il ruolo storico delle folle nel corso del XX secolo si è accentuato dino a trasformare la folla stessa in uno strumento di potere con delle sue particolari caratteristiche che la differenziano, nel modus operandi, dagli individui che la compongono”

[6] Uno studio approfondito sull’evento lo conduce Le Bon G., Psycologie des foules, Alcan, 1926, ove si pongono a raffronto gli eventi storici della rivoluzione con il ruolo svolto all’interno di questi dalle folle. L’autore arriva addirittura a configurare gli aspetti psicologici tipici degli individui che si trovano all’interno dei tumulti e che li animano, ma anche l’effetto opposto, quello cioè dell’influenza che la folla, e la sua incontrollabilità, ha sugli individui che ne fanno parte.

[7] La significativa espressione è usata da questione D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 23 ss. Gli autori sostengono che: “La rivoluzione francese mostra, però, nel suo percorso peculiari caratteristiche…alla Rivoluzione Francese dobbiamo riconoscere di aver causato una serie di esplosioni a catena che impongono di prendere atto delle trasformazioni continue che si verificao negli equilibri sociali, economici e politici che mettono in discussione il cemento della società: il legame sociale.

[8] In questo senso sono rilevanti ancora una volta gli studi svolti da Le Bon G., Psycologie des foules, Alcan, 1926, laddove egli sottolinea il fatto che, appunto, la folla contraddistingua le fasi pù crente della rivoluzione ed accerta come la psicologia che ne guida la dinamica diventi presto addirittura un elemento preponderante della stessa rivoluzione. Questa, sarà utilizzata come una sorta di “clava” contro gli ordinamenti e le istituzioni dell’ancient regime, fino al punto di far capitolare i valori prospettati dalla rivoluzione stessa, a favore di cupidigia, gelosia, superiorità, che divengono presto i veri motori della fola stessa. Quando poi si giungerà ai disordini più cruenti, allora anche inq uesto caso sarà la folla ad aver segnato il passaggio della rivoluzione dalla borghesia agli strati popolari, cessando di essere una dominazione della razionalità sull’istinto e divenendo invece lo strumento dell’istinto per domare la razionalità”.

[9] Può essere utile a questo riguardo l’analisi degli studi svolti da Aubert P., Simoncelli P., Storia moderna, roma, 1999, pagg. 921 ss., ed anche Pombeni P., Introduzione alla storia contemporanea, Bologna, 1997, pagg. 27 ss., il quale sottolinea come per la prima volta l’idea di massa assume una specifica dimensione nella società contemporanea, assumendo un ruolo politico che in passato le era stato sostanzialmente negato”.

[10] Rileva sempre in proposito Pombeni P., Introduzione alla storia contemporanea, Bologna, 1997, pagg. 30: “La presenza della masa come fattore sociale aveva ripercussioni nel campo politico influenzando il comportamento delle organizzazioni e favorendo la nascita di raggruppamenti che volevano sostenere le rivendicazioni di questo nuovo ceto sociale…il comizio ed il corteo divengono parte essenzaile dell’attività politica e strumento primario di diffusione di valori per i propri militanti”.

[11] Interessanti riflessioni vengono svolte al riguardo da D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 28: “Dal punto di vista della produzione, anche l’ingresso nel mondo del lavoro si massificò: donne e bambini furono introdotti nelle nuove catene di montaggio, in condizioni lavorative e igieniche miserevoli, accanto a nuovi macchinari che contribuiscono ulteriormente ad acuire le tensioni tra i lavoratori. Tensioni che sfociarono, talvolta, nella distruzione sistematica degli stessi macchinari da parte di apartenenti ad un movimento denominato luddismo. Di fronte a tale violenza della produzione sull’uomo, si rispose con l’organizzazione e la creazione di leghe, sindacati, società di mutuo soccorso che intervenivano nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore: ma soprattutto si costituì un vero e proprio internazionalizzato movimento di massa operaio che reclamò a voce alta i propri diritti.

[12] In questo senso può allora dirsi che le ideologie, spesso anche violente che questi meccanismi collettivi vennero a determinare creano uno stato di conflitto predominante, tale cioè da trascendere da qualsiasi progetto di società futura, e piuttosto interessato a raggiungere i propri obiettivi attraverso la rivolta, portata avanti da una pluralità di soggetti. Riferimenti interessanti in tal senso possono trovarsi in Vegezzi A., Parenti R., Lineamenti di storia – l’ascesa della borghesia, Zanichelli, 1987, pagg. 551 ss.

Gli autori notano in particolare come le masse dei lavoratori si organizzassero in quegli anni come una classe che non vuole subire passivamente il passaggio dei rapporti lavorativi dell’era preindustriale a quelli caratterizzanti l’era industriale.

[13] Inutile dire che un contributo notevole in tal senso lo fornisce Karl Marx, uno degli ideatori del termine proletariato e massimi studiosi della fenomenologia legata a questa classe sociale. Egli individuò infatti nell’alienazione dell’operaio l’effetto più drammatico della rivoluzione industriale, e ne giustificò la carica rivoluzionaria, accentuata dalle condizioni di sfruttamento in cui gli operai erano posti dalla borghesia capitalista. Celebre dunque il suo appello nel Manifesto del partito comunista, in cui egli incita all’organizzazione di classe, che è necessariamente un’organizzazione di massa, alla conquista del potere politico, all’abolizione del lavoro salariato e della proprietà privata, vera e propria causa determinante le condizioni di sfruttamento del proletariato.

[14] Notano in proposito D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 31: “Nel XX secolo le lotte operaie per gli adeguamenti salariali, per nuove forme di organizzazioni del lavoro nelle aziende, si trasformano in aperta contestazione al sistema dei valori che permea la società occidentale…imponenti manifestazioni di piazza, nuove forme di lotte di massa, riferimenti a contemporanee esperienze rivoluzionarie, da Cuba alla Rivoluzione Culturale Cinese, spingono alla formazione di violente proteste che non riguardano più le sole condizioni lavorative degli operai.

Viene richiamato anche il pensiero di Vegezzi A., Parenti R., Lineamenti di storia – L’età industriale, Zanichelli, 1991, che, a proposito dello sfociare del movimento rivoluzionario di massa negli anni Sessanta, sostengono che, pag. 609: “La ripresa delle lotte operaie, il prorompere della contestazione giovanile, il logoramento della coalizione del centro sinistra traformano la fine degli anni Sessanta in uno dei momenti più convulsi della recente storia italiana, una fase nella quale l’inadeguatezza del sistema politico a recepire e soddisfare le richieste avanzate da strati sempre più ampi della società crea i presupposti di gravissime tensioni”.

[15] Ed anche in questo caso il movimento prende piede dal settore produttivo, quello dei lavoratori, dove si registra un numero crescente di denunce, oltre 14.00 nel solo 1970.

Un’indagine a tale proposito è compiuta in modo esaustivo da proposito D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 31: “La violenza e le rivendicazioni si trasformano durante l’arco di un secolo: dai movimenti di protesta in Italia, nella primavera del 1898, alimentati dalla penuria alimentare, soffocati da una spietata repressione che ha il suo culmine nell’eccidio di Milano (80 morti e 450 feriti), e da una serie di provvedimenti permanenti sull’ordine pubblico restrittivi delle libertà allora riconosciute dallo Statuto albertino. Dallo sciopero politico in Francia, che si diffonde sotto la soggezione del sindacalismo rivoluzionario ispirato da George Sorel, ai tentativi brutali di stroncare, negli Stati Uniti, le organizzazioni operaie attraverso gli investigatori, delatori e crumiri; fino ai movimenti degli anni Settanta del XX secolo che esplodono in violenza organizzata tanto sul piano del terrorismo che della delinquenza comune”.

[16] Nota in realtà in senso critico McQuail D., Sociologia delle comunicazioni di massa, Bologna, 1973, pag. 275: “…i risultati del lavoro sono tanto incerti e discordi quanto le concezioni di quale sia una società sana. D’altra parte i mezzi di comunicazione sono storicamente associati alla disgregazione di forme di vita sociale comunitarie, caratterizzate da legami molto stretti, e allo sviluppo di forme di attaccamento più aperte, fondate sul calcolo e meno intense. La cultura dei mezzi di comunicazione si è sviluppata come cultura metropolitana ed universale piuttosto che locale e particolare. Pertanto, i mezzi di comunicazione hanno dischiuso aree più ampie della vita sociale alla sorveglianza pubblica, se non al controllo e, se lasciati a se stessi, hanno teso a contribuire ad una maggiore libertà, offrendo alternative culturali ed informative più ampie di quelle altrimenti reperibili, anche se le alternative tendono dovunque ad essere sempre le stesse”.

[17] Appare significativo a questo riguardo il richiamo ad un’autore che è intervenuto attivamente su questa problematica, definendone accuratamente i contorni. Ci si riferisce a Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 9: “Se consideriamo gli orientamenti più significativi che hanno caratterizzato la ricerca sociale sulle comunicazioni di massa negli ultimi vent’anni, possiamo ricostruire una tendenza evidente che li accomuna tutti: un’attenzione via via più consapevole per il pubblico, considerato non più come generico aggregato di singoli destinatari sostanzialmente passivi, ma come realtà complessa, differenziata al suo interno e composta da soggetti con un ruolo attivo nel loro rapporto con i media. Questa rivalutazione del pubblico caratterizza non soltanto la audience research, ma anche gli altri ambiti in cui si articola l’analisi sociologica delle comunicazioni di massa, dalle aziende dei media come fonte all’offerta mediante e ai possibili effetti”.

[18] Si veda in particolare Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 9: “La ricerca sociale sulle aziende dei media è stata inizialmente influenzata dalla sociologia delle professioni e dalla sociologia del lavoro e delle organizzazioni, e ha fatto proprio un approccio tipicamente descrittivo nella tradizione della ricerca amministrativa, finalizzata al perseguimento di obiettivi più immediatamente utili dal punto di vista pratico. In una prima fase, le ricerche sugli operatori dei media tentavano di ricostruirne il profilo sociale, l’atteggiamento nei confronti della professione, il livello di soddisfazione per il alvoro svolto, mentre le ricerche sull’organizzazione delle aziende dei media avevano come oggetto d’indagine prevalente le finalità ed il funzionamento degli apparati organizzativi, la divisione del lavoro al loro interno, il rapporto tra organizzazione e lavoratori. Successivamente, a partire dagli anni Settanta, l’interesse dei lavoratori si è spostato sui processi produttivi, in particolare per quanto riguarda l’informazione, con l’avvio di un secondo filone d’indagine del newsmaking: l’attenzione veniva soprattutto rivolta ai criteri e alle procedure in base ai quali certi eventi e non altri vengono selezionati e trasformati in notizie, ovvero ai fattori che determinano la notiziabilità degli eventi stessi. Sul piano empirico le ricerche di newsmarketing si sono prevalentemente dedicate, da un lato, all’individuazione dei cosiddetti valori-notizia e, dall’altro, alla descrizione delle routine produttive”.

[19] Considerazione questa che, a ben vedere, non è propria esclusivamente del mondo giornalistico, che è quello che più da vicino tratta la notizia, lo fa attraverso mezzi ripetitivi ed azioni costanti, ed influenza pertanto l’opinione pubblica. Si potrebbe pensare anche ad ambiti differenti, come è il caso della fiction televisiva, anche in questo caso l’elemento routinario esercita una forte influenza sulla produzione del prodotto mediale.

[20] Soppersiscono al riguardo le considerazioni svolte da Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 10: “Più recentemente, la ricerca sui media come fonte sembra seguire percorsi non più circoscritti alla professione, all’ìorganizzazione, alla dinamica del processo produttivo: lo sguardo della ricerca si rivolge dall’interno all’esterno degli apparati dei mezzi di comunicazione di massa, interrogandosi sul rapporto tra i media come aziende produttrici ed il pubblico come composito insieme di segmenti di consumatori”.

[21] In merito Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 10: “La pubblicità può – se efficace – sollecitare nei consumatori una propensione all’acquisto, ma non è in grado di indurre sempre e comunque un effettivo comportamento d’acquisto. Ciò accade perché a determinare il comportamento d’acquisto intervengono caratteristiche di personalità e fattori sociali che la pubblicità non può controllare.

[22] Questo aspetto è alla base di tutta una serie di studi, che interessano solo marginalmente questa ricerca, sulle tecniche utilizzate dai comunicatori di massa per conquistare fette di pubblico sempre maggiori. Soprattutto per ciò che riguarda l’audience, esistono alcuni studi che dimostrano come questo sia condizione essenziale non solo per la sopravvivenza economica, ma anche per la legittimazione culturale della televisione, ed è al tempo stesso per la televisione una fonte costante di incertezza. Pertanto si studiano le modalità con le quali la televisione tenta di coinvolgere il pubblico, ad esempio coinvolgendolo all’interno dei programmi televisivi. Oppure attraverso le rappresentazioni implicite dell’audience di cui le stesse emittenti sono portatrici, facendo riferimento non solo alle strategie esplicitamente messe in atto per catturarlo, ma anche all’ideazione e creazione dei programmi.

Sul tema si sofferma anche Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 11: “Questo filone mi sembra particolarmente interessante perché può consentire dimettere a fuoco le modalità di una possibile dinamica dialogica, o pseudo-dialogica, nel rapporto tra televisione e pubblico, anche se una ricerca condotta in Italia su questo tema giunge alla conclusione che lo spettatore modello risulta essere ne competente ne incompetente, ma senza qualità, per il semplice fatto che esso sembra risultare sconosciuto a chi fa la tv. Da questa conclusione emerge un segnale forte per le aziende televisive laddove sono interessate, come sembra siano, non solo ad attrarre il pubblico ma anche a stabilire con esso un rapporto dialogico di cui si diceva come è possibile, infatti, catturare un’audience che non si conosce e dialogare a tal fine con essa?”.

[23] Torna sulla questione Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 11:”Per quanto riguarda l’offerta mediale, nell’ambito della communicatio research tradizionale sono state condotte per molti anni soprattutto ricerche di analisi del contenuto, ricerche che rappresentano un filone d’indagine consolidato e assai produttivo negli Stati Uniti e in Europa. Tra queste ricerche, numerose ma non tutte caratterizzate dallo stesso rigore metodologico, ve ne sono comunque molte che hanno conseguito risultati rilevanti, in ogni caso non banali. Sulla base delle indicazioni da esse fornite si è venuta gradualmente delineando la rappresentazione della realtà sociale proposta dai vari media…grazie ad esse, disponiamo oggi di una consistente base empirica per una conoscenza più informata, più realistica e meno ideologica della cultura di massa, psesso oggetto da parte degli intellettuali di un rifiuto preconcetto ed elitario o, al contrario, di un’accettazione populistica e incondizionata. P Pionata.one populistica e incondpreconcetto ed elitario o, al contrario, di un’sso oggetto da parte denza non solo più informatossiamo così considerare la cultura di massa non più come un insieme disordinato e accidentale di elementi diversificati e, spesso, contraddittori, ma come un universo culturale coerente al suo interno, con le sue ricorrenze e le sue tendenziali uniformità.

[24] Si lega a questo discorso quello inerente la ricerca di una migliore qualità del linguaggio e del prodotto. Un’attenzione questa che corrisponde ad un crescente interesse da parte dei settori dei media propensi all’innovazione anziché alla tradizoone. In particolare per quanto riguarda le aziende pubbliche infatti, questo interesse sta ad indicare una tendenza al cambiamento delle politiche editoriali, ispirate oggi principalmente se non interamente alla logica di soddisfazione del consumatore.

Si tratta peraltro di ricerche che, rileva Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 13: “risultano essere particolarmente complicate per un’ampia serie di ragioni. Anzitutto per l’estrema difficoltà nel tentativo di delimitare il concetto stesso di qualità e di stabilire, in base ad esso, standard che possano essere prima adeguatamente definiti e poi effettivamente applicati. Ferme restando le difficoltà, la ricerca ha comunque dato un utile contributo allo studio di questo tema, indagando in particolare la qualità televisiva dal punto di vista dei broadcasters e degli esperti sia critici televisivi che ricercatori, ma anche, soprattutto, dal punto di vista del pubblico”.

[25] Si tratta di una teoria elaborata già a partire dagli anni Quaranta da Paul F. Lazarsfeld e dai suoi collaboratori.

[26] Rileva in proposito Losito G., Il potere del pubblico: la fruizione dei mezzi di comunicazione di massa, Roma, 2003, pag. 14: “Proprio gli effetti a lungo termine dei media sui processi di costruzione sociale della realtà rappresentano, a trent’anni di sistanza, un campo d’indagine ancora sostanzialmente inesplorato sul quale la ricerca dovrebbe applicarsi con maggiore sistematicità. Con le eccezioni della teoria della coltivazione e della teoria dell’agenda setting, non sono state formulate, su questo argomento, teoria con un adeguato sostegno empirico. Il ritardo della ricerca sugli effetti a lungo termine dipende essenzialmente dal fatto che questo tipo di effetti rappresenta un oggetto d’indagine molto più problematico e impegnativo rispetto agli effetti a breve termine di cui la communication research si è tradizionalmente occupata”.

[27] Come si è infatti già ampiamente sottolineato, la prima e più importante espressione del potere del pubblico nel rapporto con i mezzi di comunicazione di massa è dato dalla selettività dell’esposizione: ogni membro del pubblico ha l’occasione di decidere deliberatamente se leggere determinati giornali e non altri, ascoltare un certo tipo di programma radiofonico ansichè un altro, vedere determinati programmi televisivi, acquistare dati prodotti. La ricerca sociale e psicosociale studiano appunto da tempo le modalità e, soprattutto, le motivazioni dell’esposizione selettiva, tentando di dare risposte adeguate alla domanda su cosa determini le scelte di ciascun consumatore di prodotti mediali e per quali ragioni. Ciò con il necessario chiarimento del fatto che in ciascuna azione possono intervenire anche più motivazioni, ciascuna attiva ad un certo livello della personalità, non solo quello cosciente ma anche quello preconscio e quello inconscio.

[28] Significative sono le riflessioni svolte a questo riguardo da proposito D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 32: “La mobilitazione culmina nel maggio francese e si salda al malessere suscitato dai problemi delle varie realtà nazionali (dla movimento contro la guerra del Vietnam negli Stati Uniti, alle lotte operaie in Italia che pongono sotto accusa i falsi miti del miracolo economico). Tutto ciò si unisce alla nuova violenza di gruppo che si manifesta in altri contesti come quelli sportivi nel cui ambito trova la massima espressione nelle violenze da stadio. La violenza della massa non è più strettamente legata alle rivendicazioni salariali ovvero economiche ma si intreccia comunque con tutti i movimenti di contestazione e si ritrova ove essi hanno maggiore visibilità: nelle strade, nelle piazze, etc.”.

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