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LE FOLLE ED IL LORO CARATTERE STRUTTURALE

1 – Psicologie delle folle

Appare chiaro, in ragione delle considerazioni svolte nella prima parte della trattazione, come l’emergere dell’elemento massa, se analizzato alla luce dell’evoluzione storica, ma anche sociale (in sostanza, avvalendosi di metodi comparativistici e non settoriali: che abbiano a riguardo tutti i diversi ed eterogenei elementi di natura endogena ed esogena che vengano a doversi considerare in un’indagine che miri ad approfondire la tematica, anziché affrontarla solo superficialmente) necessiti di essere studiato, in via preliminare, dal punto di vista psicologico.

Ed anche come, successivamente, lo stesso abbisogni di un costante riferimento alle tematiche di natura psicologica che configurano l’individuo come tale, in qualità di elemento posto alla base di qualsiasi figurazione collettiva, e poi, tramite questo, la folla stessa e le pulsioni cui va soggetta in ragione della connotazione psicologica o attitudinale degli individui stessi, secondo lo schema bi-direzionale già approfonditamente trattato con riguardo al rapporto tra individuo e mezzi di comunicazione di massa[1].

Proprio le risultanze a cui una tale impostazione potrebbe condurre costituisce, infatti, l’elemento di partenza per una serie di conclusioni di estrema rilevanza. Lo studio psicologico delle folle consentirà, anzitutto, di prevenire il verificarsi di evenienze che sfuggano al controllo dei tutori dell’ordine. Non sempre, è da specificarsi, l’esito violento costituisce una conseguenza inevitabile all’assembramento tra più soggetti, anzi si vedrà come gli studi sociologici[2] abbiano evidenziato notevoli differenze proprio a questo riguardo. Ma, al tempo stesso, il poter agire in via preventiva costituisce sempre e comunque un fattore che coloro ai quali viene affidato il compito di vigilare sul quieto vivere civile, le forze dell’ordine in particolare, primi soggetti chiamati ad intervenire per sedare gli animi di una folla in tumulto, non possono permettersi di trascurare.

Da qui l’esigenza di avere sempre chiari, a prescindere dal contesto, dalla rilevabilità o meno di fattori contingenti atti ad esercitare una qualche influenza sul comportamento collettivo (tipico l’esempio dei leaders, veri e propri motori delle pulsioni passionali che configurano una folla in agitazione, di cui si dirà meglio e più approfonditamente più avanti), dalla minore o maggiore pericolosità dell’evento, i meccanismi psicologici che sottendono ai singoli individui e, per il loro tramite, alla “logica collettiva”[3] cui essi si uniformano.

Ma lo studio psicologico della folla consente di raggiungere anche ulteriori (ed altrettanto importanti) risultati. La possibilità di individuare, ad esempio, quali elementi contribuiscono a trasformare un evento a rischio in un evento effettivamente pericoloso per il mantenimento dell’ordine pubblico. Quali elementi, cioè, determinano più di altri lo stravolgersi degli eventi, a quali condizioni ed in ragione di quali fattori determinanti. La devianza infatti, come si vedrà meglio più avanti, assume un proprio connotato di natura espressamente collettiva[4].

Esiste allora, ci si chiede, un’azione collettiva deviante? Certamente sì. L’individuo infatti, come spiegano le principali teorie antropologiche, agisce e si comporta per lo più seguendo forme di apprendimento imitativo[5]. Cioè osserva, elabora, e matura le basi per un comportamento proprio. Normalmente, com’è ovvio, ciascun soggetto segue in forma di imitazione quello che fanno gli individui accanto a lui ma tiene anche in considerazione le norme giuridiche e sociali che dettano i presupposti del convivere civile.

Tuttavia, quando inserito in un diverso contesto, quello della folla, nel quale la rilevanza di queste regole venga posta in secondo piano (ed anzi sia completamente e volontariamente trascurata), nel permanere della logica dell’imitazione egli si troverà ad avere una verifica delle proprie pulsioni emotive, e dunque sarà propenso ad assumere un comportamento deviante, che assumerà, complessivamente inteso, la configurazione di “devianza collettiva”.

La folla avrà, allora, esercitato una forte influenza sui freni inibitori del soggetto, arrivando a delineare delle linee comportamentali estremamente differenti rispetto a quelle che caratterizzano l’individuo che agisca isolatamente[6].

Ma gli studi in atto porteranno ad evidenziare anche la possibilità di scoprire quali altri fattori, se esistenti, siano in grado di placare gli animi ed eventualmente consentire agli stessi di trovare un naturale deflusso, piuttosto che rendere necessario l’intervento in funzione coattiva delle forze dell’ordine.

Anche a questo proposito infatti, è appena il caso di richiamare le conclusioni raggiunte in precedenza, per cui l’opinione comune, e per il tramite di essa l’agire collettivo, quello cioè proprio di una folla, possono anche svolgere una funzione positiva.

Se adeguatamente contenuti (in particolare l’agire comune, non invece il comune pensiero, che necessita invece di piena libertà per poter essere veramente incisivo e determinare quel rapporto a doppio binario che si determina nel rapporto con le comunicazioni di massa) essi possono infatti suscitare l’interesse e non l’opposizione dei centri di potere, ricevere dunque risposta che potrà, in determinate e circoscritte circostanze, anche dare seguito alle richieste avanzate dai manifestanti[7].

La ricerca dovrà dunque svolgersi lungo i seguenti binari: individuare, in prima istanza, quali siano le principali teorie sociologiche che abbiano affrontato il tema della devianza, conciliandone i ragionamenti con gli aspetti che qui interessano: ovvero la devianza vista all’interno di un contesto sociale e non solo individuale (benché, si vedrà, il secondo costituisce presupposto del primo, integrandovisi).

Ciò posto, si renderà necessario sviluppare il discorso lungo le direttrici che individuano il comportamento della folla alla stregua del verificarsi di situazioni estreme. Dove, è possibile anticipare, per situazione estrema si intende quella in cui la violenza[8], elemento compulsivo ad una folla, possa esplicarsi.

Al tempo stesso, si renderà opportuno valutare e commentare le diverse conseguenze che questa violenza, o più in generale i comportamenti devianti assunti dalla massa, possano assumere. Si tratterà cioè di verificare, alla luce dell’indagine psicologica di cui s’è detto, soprattutto le possibili forme risolutive di detti comportamenti. In tale ottica infatti, la trattazione viene a soffermarsi sulle forme correttive che possono essere approntate, sul modus operandi da queste introdotto e sul reale grado di efficacia che queste presentano.

Si dovrà ancora una volta porre riguardo allo sviluppo che la norma[9], intesa come paradigma sociale, abbia subito nel corso degli anni in ragione della percezione avvertita dalla collettività nei suoi confronti. Ovvero si dovrà verificare come le teorie sociologiche in particolare, studiando l’individuo non più solamente come tale, ma anche come soggetto inserito in un contesto che, il più delle volte prende il totale sopravvento sull’autonomo formarsi di opinioni e considerazioni che fossero proprie ed esclusive, abbiano evidenziato un dato essenziale: il venir meno della percezione di ciò che è giusto o meno giusto, con riferimento alla “regola”, e la prevalenza dell’opinione della folla.

Se questo fattore può passare in secondo piano allorquando si tratti delle azioni che ciascun soggetto compie isolatamente, perché, pur nell’assenza di questa percezione, egli è spinto da un sentire comune che, nella grande maggioranza dei casi, lo porta ad agire secondo correttezza, non si avranno, per le motivazioni appena espresse, le stesse conclusioni nel momento in cui invece l’individuo abbia agisca assieme ad altri.

Infine, compiute queste ricerche, sarà possibile introdurre la terza ed ultima parte di questa trattazione: avendo cioè discusso e ragionato intorno alla circostanze fondanti tali comportamenti, sulle teorie che si sono costruite su questa base, sulle forme correttive che si sono predisposte, è possibile calarne il contenuto nel contesto concreto verificatosi a Genova nell’estate del 2001, verificando, con il supporto dei fatti, il perché determinati comportamenti furono messi in atto, quali ragioni furono sottese all’orientamento delle forze dell’ordine e quali accadimenti avrebbero potuto verificarsi se e come diversi interventi ed uno studio più approfondito del fenomeno fossero stati messi in atto. 

2 – Le principali teorie sociologiche

Le principali teorie sociologiche che si sono occupate di massa e comportamento dell’individuo all’interno di un contesto collettivo partono necessariamente dallo studio dei fattori endogeni ed esogeni che determinano quello stesso soggetto ad assumere un comportamento deviato[10].

Viene rilevato anzitutto dai teorici come spesso questa ricerca incontri un limite che è possibile definire “congenito”: ovvero la mancanza di dati solidi, derivante a sua volta dall’insufficienza di fatti ed informazioni su cui basare gli impianti teorici di riferimento[11]. Si tratta di un problema di non poco conto se solo si considera il fatto che a questa mancanza di elementi sui quali riflettere e poter trarre deduzioni si aggiunge la necessità di fornire al comportamento deviante la sua giusta collocazione.

In altre parole: una ricerca che, come quella presente, intenda dare valore alle teorie che abbiano preso in esame la devianza all’interno di un contesto di azione e pensiero comuni, e che desideri da quelle trarre conclusioni appropriate per poter definire una folla in tumulto, e le cause o conseguenze che questa caratterizzano, dovrà compiere un’ulteriore cernita tra le informazioni raccolte, al fine di selezionare i soli dati che appaiano veramente significativi[12].

C’è da aggiungere che coloro i quali assumono abitualmente comportamenti che possono definirsi e qualificarsi entro i margini della devianza sono persone che tendono a nascondere all’esterno le proprie azioni. C’è, in loro, la paura nei confronti del giudizio che la società (ancora una volta: la predominanza del pensare comune) potrebbe avere nei loro confronti, c’è anche la volontà di nascondere le proprie azioni al fine di non incorrere nella sanzione sociale che l’ordinamento predispone per detti comportamenti (quando ne individua i responsabili) e, di conseguenza, poterli ripetere nuovamente nel tempo[13].

Tenendo dunque ben presente queste due circostanze limitative, possono allora prendersi in considerazione quelle teorizzazioni che, avendo analizzato le cause e le conseguenze della devianza negli individui, si siano poi soffermate anche sui contesti nei quali questa devianza trova terreno culturale per svilupparsi ed accrescersi: appunto la folla. Teorizzazioni che hanno, in primo luogo, configurato gli elementi caratterizzanti la devianza.

Il comportamento deviante sarebbe cioè in linea generale quel comportamento che viola le aspettative istituzionalizzate di una data norma sociale[14]. Questo, a sua volta, presenta alcune proprietà. Cinque in particolare: anzitutto il fatto che la devianza si riferisca alle aspettative connesse ad un orientamento normativo[15]. In secondo luogo il fatto che il comportamento deviante venga individuato come tale da un gruppo (e quindi, mutando il gruppo, può mutare l’individuazione di ciò che va considerato deviante).

In terzo luogo, ai fini di questa individuazione, interviene un elemento definito “situazionale”: uno stesso comportamento può cioè in una determinata situazione apparire deviante, ed in una differente non assumere queste connotazioni.

Si tratta appunto di un aspetto di estremo interesse per questa ricerca, in quanto l’esempio che più frequentemente si riporta è proprio quello che distingue tra l’individuo che agisce in solitario e quello che invece agisce in un contesto sociale, all’interno di una massa di altri individui animati da propositi più o meno similari.

Quarto elemento è dato dallo stretto collegamento tra i diversi tipi di devianza. Collegamento che si determina ancor prima che alla personalità dell’attore, a determinati ruoli sociali, esprimendo dunque una più o meno ricorrente modalità di funzionamento.

Infine, secondo il quinto elemento, il comportamento deviante può assumere intensità e direzioni diverse[16]. Pare cioè ovvio che a seconda del livello di intensità assunto dallo stesso diverse saranno le conseguenze di questo e diverse, anche, i possibili rimedi che potranno approntarsi.

È bene dunque poter leggere il comportamento deviante dei singoli, ed ovviamente delle folle, alla luce di questo fattore in via preliminare. Ciò per poter avere conto delle conseguenze probabili e prevedibili da questo esercitate. Ma si dovrà anche avere stretto riguardo alla situazione nel quale lo stesso si trova ad operare.

Si prenda, a titolo esemplificativo, ed al fine di una migliore comprensione di quanto detto finora, proprio l’insieme di accadimenti che si verificarono a Genova nel corso del 2001. Ebbene, le teorie sociologiche di riferimento ebbero a confrontarsi con due elementi fondamentali: anzitutto il contesto nel quale i disordini avevano luogo (ricorrendo qui, dunque, l’elemento situazionale) ma anche la notevole intensità con la quale lo stesso si presentava: alternando, al tempo stesso, da una parte l’estrema violenza degli scontri di alcuni dei partecipanti, dall’altra invece la presenza di manifestazioni di piazza altrettanto significative, altrettanto numerose e “sentite” ai partecipanti, ma assolutamente pacifiche (ed anzi, si vedrà, in collisione con i manifestanti violenti, percepiti per lo più come un elemento di disturbo da parte dei manifestanti pacifici,  piuttosto che alla stregua di soggetti che erano lì presente per le stesse ragioni).

Ecco allora tornare al punto di partenza: l’esempio costituisce una riprova evidente della combinazione tra i due fattori e presenta, al tempo stesso, la rilevanza anche degli altri. Gli studi che interverranno sul merito dovranno avere ben presenti tutti questi fattori, per poter adeguatamente comprenderne la portata.

In secondo luogo poi, ed in senso più generale, rileveranno quelle teorie che, avendo studiato i rapporti nelle società tradizionali, i legami nell’ambito di queste instauratisi, mettono in evidenza il venir meno delle rappresentazioni collettive quale fattore atto a garantire la coesione tra le relazioni[17]. Ed è proprio questa circostanza, definita “anomia”, che fondando la disgregazione dei rapporti di massa, finisce indirettamente per sviluppare quelli di folla, soprattutto dove le pulsioni che muovono questa assumono una connotazione di tipo politico (si pensi alle frange xenofobe che scendano in piazza per manifestare contro l’immigrazione), tale addirittura da sostituirsi alla prima, venendo a costituire un’ulteriore ed ennesima riprova della molteplicità degli elementi in grado di influenzare una folla e le azioni di questa[18].

3 – I comportamenti della folla in situazioni estreme

Cosa spinge le folle ad assumere comportamenti estremi? Diverse sono le considerazioni da farsi per poter dare una risposta esauriente a questa domanda.

Riprendendo il filo del discorso da dove lo si era interrotto, si deve ribadire, anzitutto, l’importanza di tutti gli elementi che conferiscono ad un comportamento la qualifica di deviante: l’intensità dello stesso, la contingenza degli eventi che lo caratterizzano, ed anche la percezione da parte del soggetto agente della particolarità della situazione che si sta venendo a creare. In altre parole: la consapevolezza di un comportamento estremo, dove per estremo si intende “deviante”.

Ebbene, il primo punto fermo è allora necessariamente costituito dal rapporto tra l’individuo e la logica collettiva, più propriamente giustificabile sulla base di alcuni elementi che caratterizzano e qualificano la folla: il substrato culturale di questa, le motivazioni che la spingono ad agire, la presenza di uno o più leaders che siano in grado di coordinarne i movimenti[19].

Sono questi tutti elementi di assoluta rilevanza: costituiscono cioè l’insieme di fattori che giustificano l’assunzione di comportamenti devianti da parte delle folle.

Si arriva a sostenere, ai fini della completezza del discorso, che l’individuo viene influenzato non solo e non necessariamente dalla presenza di una situazione di emergenza e di tumulto, ma anche, più in generale, dall’essere inserito in un contesto collettivo[20]. Anche in queste circostanze infatti gli stessi elementi vengono a ricorrere e, sebbene non si crei il rischio di una situazione estrema, si ravvisano le stesse identiche dinamiche comportamentali nei comportamenti dei singoli.

Altro fattore che si ritiene necessario rilevare, nel rispondere alla domanda iniziale, è quello del cosiddetto “bilanciamento dei diritti”. Uno Stato democratico cioè deve essere in grado di garantire ai propri cittadini il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali ed inviolabili: tra questi il diritto di riunione e quello di manifestazione del pensiero[21].

Ebbene, questo riconoscimento si presta ad alcuni rilievi critici. In primo luogo per quanto riguarda il necessario bilanciamento con l’altrettanto fondamentale diritto degli individui che desiderino non manifestare e non riunirsi (e che, anzi, possano addirittura avere idee completamente opposte rispetto a quelle della massa): in ragione del principio di uguaglianza e del diritto a vedersi assicurata la pacifica convivenza civile, i centri del potere dovranno saper conciliare le ragioni dei primi e quelle dei secondi.

Qualora questa mediazione non riuscisse (come accade, sovente, proprio in concomitanza con l’esplosione delle manifestazioni più cruente e meno controllabili), perché si fosse accordata tutela solamente ad uno dei due diversi punti di vista, si determineranno, con notevole probabilità, le conseguenze di cui s’è detto, in particolare riferimento all’emergere di situazioni a rischio per l’ordine pubblico.

In secondo luogo, qualora le forze dell’ordine mancassero di valutare adeguatamente, alla luce di questo bilanciamento, le conseguenze su indicate, si esporrebbero al rischio di eventi tumultuosi[22]. Anche questo elemento allora, oltre a ribadire l’essenzialità di comportamenti di tipo preventivo da parte delle autorità deputate al mantenimento dell’ordine pubblico, non fa che ribadire la circostanza per cui l’emergere di situazioni a rischio che vedano coinvolti più individui, congiuntamente, può essere sicuramente il frutto di una devianza collettiva ma, al tempo stesso, quasi mai sarà dettata solo ed esclusivamente da un’intenzione di tipo criminoso. Molto più spesso, invece, si tratterà della risposta alla mancata adozione, da parte delle autorità, dei giusti meccanismi di mediazione, di controllo e di comprensione del fenomeno. 

4 – I caratteri ed i coefficienti emotivi delle folle

Appare chiaro, giunti a questo punto, che alla folla possa attribuirsi un coefficiente emotivo che è direttamente proporzionale all’eventualità che i comportamenti di questa sfocino in manifestazioni violente: tanto maggiore sarà quel coefficiente, tanto più alto sarà il rischio che si verifichino eventi simili.

Ovviamente il fattore emozionale è un fattore influenzabile: e su questo elemento si sono concentrati gli studi socio-psicologici. In particolare questi hanno sottolineato come la presenza di forti individualità in grado di esaltare le folle stesse, funga da volano per l’emergere di situazioni a rischio[23].

Si tratta della figura del leader, soggetto che, da solo, riesce ad istigare gli animi, oppure a placarli, che può, con un discorso, un gesto, un’azione, determinare lo svolgere degli eventi. E ciò a dimostrazione del fattore che qui preme ricordare: quello cioè per il quale le folle necessitano di qualcuno o qualcosa che ne gestisca la forte carica emotiva. L’esplosione di questa, da sola, non è sufficiente, ed anzi rischia di sopraffare la folla stessa, disperdendola o facendole perdere di vista, com’è facile immaginare, i propri obiettivi.

Ma la figura del leader, letta ovviamente nel contesto di cui si tratta: quello cioè avente riguardo ai caratteri ed i coefficienti emotivi delle folle, permette di distinguere anche una seconda figura, di gran lunga predominante in numero: quella cioè del gregario. Costui è l’individuo medio, sulla cui natura, provenienza e collocazione tanto s’è già detto, che necessita di un punto di riferimento per convogliare il proprio turbinoso stato d’animo. Egli è colui il quale non oppone resistenza alla scelta da parte dei capi di assumere comportamenti violenti, o anche antisociali, colui il quale lascia che il suo pensiero, e dunque la sua azione, vengano pienamente contagiati dalle azioni degli altri, che ne subisce il fascino e che, senza questi, si vedrebbe privato, forse, della possibilità di agire.

Questa emotività è quindi il coefficiente di maggior rilievo, e, purtroppo, come si vedrà poco oltre, anche l’elemento che rende più difficoltosa la previsione delle reazioni che gli individui avranno al suo interno, soprattutto in ragione di uno stimolo che provenga, come si è detto, da uno degli elementi determinanti: sia esso un capo-popolo o un elemento esogeno (una carica della polizia ad esempio, o, più semplicemente, il naturale volgere degli eventi che comporti la perdita di controllo e il degenerare nel raptus emozionale).

C’è di più: gli studi hanno evidenziato come non tutte le manifestazioni presentino il medesimo grado di emotività e, soprattutto, la medesima propensione a lasciare che quella possa influenzarne gli esiti. È cioè evidente che mentre un assembramento di persone in un luogo pubblico per assistere ad uno spettacolo teatrale (quindi una manifestazione caratterizzata da una notevole componente culturale) non porterà mai alle stesse valutazioni che configurano una partita di calcio, o una manifestazione di protesta[24].

Infine, ulteriore elemento che viene rilevato a questo riguardo attiene l’influenza che, indirettamente, la percezione comune della massa esercita sulla folla. Si tratta cioè di una chiave di lettura che l’opinione comune (in ordine alla cui sostanziale rilevanza ed influenza si è già detto ampiamente in precedenza) elabora proprio con riferimento alle condizioni sociali, economiche e politiche che una parte ampia della popolazione (la massa, appunto) si trovi a vivere.

Se quelle condizioni sono particolarmente gravose, ad esempio per la scarsità di viveri o per le condizioni economiche disastrose, il comune sentire avvertirà la tensione latente che si accompagna a parti sempre più larghe di popolazione. Nell’avvertire, spesso sulla propria stessa pelle, questo disagio, sarà più propensa a configurare una situazione nella quale parte di quegli individui abbiano deciso di riunirsi, ad esempio per manifestare il proprio dissenso, in una situazione di potenziale pericolosità, quella, appunto, propria di una folla in tumulto. Venendosi allora a creare, in definitiva, un meccanismo perverso. 

5 – gli elementi correttivi all’emotività delle folle: la teoria del deterrente

Come si è visto dunque il comportamento emotivo delle folle può essere ingenerato da determinati fattori di rischio e può comportare conseguenze talora anche estremamente gravose.

Esistono tuttavia una serie di fattori, aventi natura per lo più preventiva, che sono in grado di svolgere una funzione correttiva su questi fattori emotivi, consentendo quindi di controllare, sedandola, l’emotività delle folle stesse.

Rileva, sotto questo punto di vista, in particolare la “teoria del deterrente”. Si tratta di una teoria che negli ultimi due decenni ha suscitato un notevole interesse, finendo per far sì che la si collocasse nel novero delle teorie sul controllo sociale[25].

Il fondamento basilare della teoria si struttura sulla necessità di minacciare una sanzione o punizione, derivando da quella il rispetto da parte del soggetto (o, nel caso di specie, dei soggetti) della regola.

L’individuo, in altre parole, sarebbe naturalmente portato ad assumere comportamenti devianti che, all’interno del gruppo, della folla, assumono connotati ancor più gravi, per le diverse ragioni che si sono già analizzate e che si analizzeranno. Tuttavia, è proprio la minaccia di subire una sanzione nei propri confronti che lo porterebbe a scegliere tra due diverse alternative. Da una parte cioè la decisione di sfidare la regola, e rischiare di essere sottoposto alla sanzione, dall’altra invece quella di abbandonare il proposito originario, appunto in virtù di quella sanzione[26].

L’origine di queste teorizzazioni peraltro risale addirittura al XVII secolo, quando uno dei padri fondatori delle scienze penalistiche moderne, Cesare Beccaria[27], ipotizzava la pena in chiara funzione deterrente e non esclusivamente punitiva. Il ricorso alla minaccia delle pene, definite come “sensibili motivi”, doveva appunto tenere in considerazioni l’animo umano e le circostanze nelle quali questo si trova ad operare. Doveva cioè valutare le condizioni nelle quali l’uomo operava (ad esempio se in solitario o inserito all’interno di una folla tumultuosa) ed in base a quelle considerazioni esercitare la propria funzione più adeguata, quella cioè di deterrente[28].

Per Beccaria allora, può dirsi che il potenziale deterrente della pena non appare affatto saldamente associato al grado di severità della medesima. Questo è invece un aspetto che i fautori delle teorie della deterrenza sostengono. Questi cioè, anziché affermare che una sanzione si associa ad un determinato deterrente, ritengono che maggiore è la gravità e severità della sanzione minacciata e, conseguentemente, maggiore sarà il deterrente che questa costituisce nei confronti dei soggetti[29].

A fondare questa conclusione è stato uno dei teorici che più approfonditamente ha studiato questa teorizzazione: Gibbs[30], il quale ha per primo fornito un fondamento empirico alla teoria. Egli compì uno studio sui casi di omicidio negli Stati Uniti, considerando il numero delle relative condanne ed il grado di severità previsto dal legislatore per questo tipo di reato, ripetendo la stessa ricerca per ogni Stato dell’Unione. Arrivò a concludere che dove c’erano le più alte probabilità di condanna e le più lunghe pene comminate, vi erano anche i tassi di omicidio più bassi.

La teoria del deterrente ha, com’è ovvio, subito numerose re-interpretazioni nel corso degli ultimi anni da parte di questi critici ed interpreti che ne hanno studiato i presupposti operativi. Essa oggi costituisce uno strumento che può, a determinate condizioni, trovare applicazione nei confronti dell’impulso del singolo, ma anche della folla. Ha raggiunto infatti una strutturazione estremamente articolata di cui è bene dare, brevemente, conto.

Esistono due tipologie principali di deterrente. Quello di tipo generale, che si riferisce al processo di base per cui la punizione di un reo fornisce una serie di informazioni – ovviamente relative al “costo” dell’infrazione, ossia al cosa capita se la si attua – al pubblico dei non violatori, rafforzando in questo modo l’orientamento favorevole alla non violazione[31].

Vi è poi il deterrente specifico, quello che cioè fa riferimento esclusivamente al solo soggetto punito, spingendolo, per il futuro, ad evitare di commettere nuove ed ulteriori violazioni, perché memore della sanzione subita in occasione dell’infrazione commessa.

Ma, ed è questo l’aspetto più importante, la teoria individua tre aspetti della punizione, che possono collegarsi strettamente proprio alle riflessioni di nostro interesse: quelle cioè dell’agire deviante dell’individuo all’interno della massa. I tre aspetti sono costituiti dalla severità, ossia il grado d’intensità della sanzione[32]. Dalla certezza[33], ovvero dalla probabilità di subire una punizione (tanto più è elevato il grado di certezza e tanto più basso sarà il livello di violazioni di quella), ed infine dalla celerità, ossia l’intervallo di tempo che può intercorrere tra l’infrazione e l’attuazione della sanzione[34].

Appare chiaro, in definitiva, che il ruolo svolto dalle teorie del deterrente possa applicarsi anche al controllo dei comportamenti delle folle, benchè si debba precisare che non solo a questo è possibile limitarsi. Esistono cioè delle forme correttive che devono intervenire direttamente mentre l’azione si sta svolgendo, determinando dunque un’azione non preventiva ma, piuttosto, di tipo diretto.

L’applicazione di questi sistemi, sia in funzione di deterrente (a dire il vero con scarsi o nulli risultati pratici) che  di azione diretta (probabilmente realizzate con maggiore efficacia) hanno avuto il loro campo di applicazione, tra le altre ipotesi, a Genova. Sarà dunque compito di questa ricerca (nella terza parte) verificarne l’operato con riferimento a quella specifica situazione. 

6 – I fenomeni di trasgressione e diversità sociale come elementi strutturali e marginali dell’analisi della realtà sociale

Abbiamo visto come sia possibile, nonostante le paventate difficoltà nel compimento di una ricerca siffatta, rinvenire alcune causali che si ripetono allorquando un insieme di individui, che abbiamo chiamato folla (distinguendola, si badi, dalla massa, che nel linguaggio comune è, invece, utilizzata in funzione di sinonimo. Nelle ricerche di settore la massa identifica una parte della popolazione, o anche, a determinate condizioni, la popolazione intera, che versi in situazioni specificate. La folla invece ha una connotazione più specifica, fa cioè riferimento all’insieme di individui che, animati da un comune sentire, intendano, riunendosi, dare sfogo a quel sentire, seppure non sempre e non necessariamente in modo violento), e come sia possibile classificarle.

Attraverso questa classificazione è stato possibile risalire, compiendo un’analisi escatologica, alle ragioni intime che animano l’individuo che divenga parte di una folla in tumulto (questo è infatti l’aspetto che più ci interessa del fenomeno), portando le due fattispecie a confondersi ed influenzarsi a vicenda.

Infine, ed è questo il punto che si vuole qui approfondire, si è venuta a sottolineare, in ragione delle conclusioni raggiunte, come il disagio sociale, da intendersi nella sua più ampia connotazione, sia spesso la base di partenza per comprendere le motivazioni che spingono individui a reagire così violentemente quando si trovino riuniti. Le motivazioni che spingono questi a lasciarsi vincere dalle passioni, farsi cogliere da un raptus emotivo e sfogar quello attraverso la più banale, ma anche pericolosa ed imprevedibile delle azioni devianti: la violenza.

Ebbene, proprio la trasgressione e la diversità sociale sono i due concetti chiave che hanno configurato il discorso. In particolare, lo divengono quando sono inserite in un contesto collettivo[35]. In sostanza cioè, in ragione dei rilievi che si sono già ampiamente esposti in precedenza, l’individuo, quando si trovi ad agire al fianco di soggetti che a loro volta assumono comportamenti devianti (ad esempio: prendano un sasso scagliandolo contro le forze dell’ordine, oppure, in altri contesti, contro un opposto schieramento) sarà portato egli stesso a perdere il senso critico che gli ha permesso di distinguere tra ciò che è lecito fare e ciò che non lo è, e avrà la sensazione di poter trasgredire (rifacendoci all’esempio di prima: di poter cioè lanciare egli stesso quel sasso) senza che questa sua azione, altrimenti interpretabile alla stregua di un comportamento da sanzionare, possa subire alcuna conseguenza negativa.

Questa dunque la trasgressione, mentre invece diverso è il discorso sulla diversità sociale. Si tratta qui invece di comprendere che tipologia di soggetti può, anche solo potenzialmente, costituire in un futuro vicino o lontano un elemento a rischio all’interno di una folla in agitazione. Per farlo, pur non bastando queste considerazioni da sole, ricorrerà appunto l’elemento della diversità sociale. Quel fattore che cioè, secondo la definizione comunemente usufruibile dalle scienze sociali, connoterebbe un background culturale ed economico estremamente povero, tale da oscurare all’agente il discernimento tra un comportamento conforme al vivere civile ed uno che non lo sia[36].

Sono chiare allora le conclusioni cui porta questa fase della trattazione. Non si tratta più solamente di verificare quali elementi possano aver indotto la folla ad agire all’interno di un avvenimento storico qual è stato il summit di Genova del 2001. Quelle sono state chiarite proprio avvalendosi dello studio delle principali teorie sociologiche e psicologiche che si sono, seppur sommariamente, esposte fin qui. Si tratta ora di verificare, con maggiore attenzione, quali siano state le conseguenze pratiche in un “laboratorio” umano e culturale che, pur assumendo i toni della drammaticità, costituisce un prezioso elemento per porre a confronto quanto finora detto in linea di teoria ed il reale svolgimento dei fatti.


[1] Uno schema che, come si è posto in evidenza, conduce l’individuo a concentrarsi nella folla di cui è parte, portandolo sostanzialmente a perdere la propria individualità, e, dal canto opposto, fa sì che la folla stessa raggiunga la propria identificazione solamente a seguito di questa identificazione-immedesimazione. A questo riguardo, pare opportuno riprendere le osservazioni svolte da D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 64: “In certi passaggi è stato già messo in risalto quanto l’agire della folla, secondo la propria logica, influenzi il comportamento dell’individuo che la compone”. Gli autori si richiamano poi ad una serie di autori che, con riguardo alla più volte citata opera di Le Bon, e pure al fine di evidenziarne criticamente alcune mancanze, si soffermarono però anche sui meriti di questa. In particolare Freud, il quale constatò come negli individui facenti pare delle moltitudini si determina una regressione dell’attività psichica, confermando dunque le conclusioni dell’autore francese che aveva parlato di dimensione primitiva delle masse. Ma si cita anche Schumpeter che, nel 1942, il quale riconobbe al francese il merito di aver precorso l’opera di Freud per quanto riguarda la definizione dell’individuo all’interno della folla e sulla rilevanza degli elementi non prettamente razionali. Gli individui perderebbero la loro dimensione cosciente, per assumere, invece, una diversa connotazione, psichicamente comprensibile soltanto se analizzata nel contesto di riferimento.  Gli autori aggiungono che: “La dinamica dell’individuo guidata dalla logica collettiva della folla finisce per essere incontrollabile allo stesso. L’irrazonalità del suo agire è il più delle volte manifesta e in alcuni casi rende l’azione stesa violenta

[2] Tra quegli autori che, come si vedrà meglio più avanti, hanno affrontato la problematica inerente il controllo degli stati emotivi di una folla, si pongono coloro i quali, partendo dall’esame delle caratteristiche fondanti degli individui che si riuniscono, ed anche dell’occasione per la quale queste riunioni si determinano, giungono a concludere a favore di una maggiore o minore propensione alla criticità, da intendersi come prevalenza di comportamenti emotivamente eccessivi, tali da creare disordini e da manifestare disagio sociale da parte di chi li vive. In particolare si riporta il pensiero di Gasset O.Y., La ribellione delle masse, Bologna, 1962, pagg. 51 ss., il quale sottolinea ulteriormente il rapporto di reciproca influenza che la percezione comune della massa esercita sulle modalità di azioni della folla (concetti pertanto non necessariamente equivalenti, e volendosi intendere nl caso di specie con il primo la complessità di individui che non siano necessariamente accomunati da un pensare comune quanto piuttosto dal convivere in una medesima situazione, e con il secondo invece l’insieme di individui che si riunisca in ragione di un determinato evento). Sottolineando come : “Nelle sommosse che la carestia provoca, le masse popolari cercano di procurarsi il pane e il mezzo cui ricorrono suole essere quello di distruggere i panifici. Tale comportamento può servirci come simbolo del comportamento che, in più vaste e sottili proporzioni, usano le masse attuali di fronte alla civiltà che li nutre”.

[3] Quella logica cioè, notano D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 46, che è: “il cardine principale per capire la dinamica dell’individuo nella folla in tumulto…è la logica collettiva. Costituita da una sensibilità particolare e da un’esaltazione dei sentimenti che dirigono gli individui della folla trasformandoli…è l’unificazione dei sentimenti che trovano il loro collante nella logica collettiva è il carburante della folla”.

[4] Interessanti le rilevazioni svolte al riguardo da Becker H.S., Outsiders: saggi di sociologia della devianza, Torino, 2006, pag. 138: “I sociologi concordano sul fatto di ritenere la società l’oggetto del loro studio, ma questo consenso permane solo se non esaminiamo troppo a fondo la natura della società. Preferisco considerare ciò che studiamo come azione collettiva. Le persone agiscono insieme…fano ciò che fanno con un occhio su ciò che gli altri hanno fatto, stanno facendo o possono fare in futuro. N individuo cerca di far combaciare la propria linea di azione con quella degli altri, proprio come ognuno adatta lo sviluppo delle proprie azioni a ciò che vede e si aspetta dagli altri. Il risultato di tutto questo aggiustamento e adattamento può essere definito un’azione collettiva, soprattutto se si considera che il termine copre più di un semplice consapevole accordo collettivo, come ad esempio scioperare ma si estende anche al far parte di una classe a scuola, la mangiare insieme, all’attraversare la strada. Ognuna di queste azioni può essere vista come qualcosa che viene fatto da molte persone insieme”.

[5] Un esempio interessante a questo proposito viene fornito da quegli studi che si concentrano sulle abitudini dei fumatori di marijuana, con riferimento alle loro prime esperienze. Questi, riportano le indagini svolte, sono soliti avvicinarsi al rituale del consumo osservando coloro i quali si considerano già esperti. Ne osservano le movenze ed immediatamente tentano di ripeterle quando giunge il loro turno. La stessa ragione può essere determinata dal punto di vista dell’individuo che si trovi all’interno di una folla in agitazione. Mostrerà certamente la tendenza a sviluppare le proprie linee di azioni con riferimento alle azioni compiute dai soggetti che gli sono accanto, ed anzi, avendo conferma delle stesse, non esiterà, superati gli iniziali tentennamenti, ad assumere proprie iniziative, sentendosi in ciò incoraggiato.

[6] Va rilevato ovviamente, ed in senso critico, che non tutte le ipotesi nelle quali l’individuo si trovi all’interno di una folla possono concretamente portare alla perdita dei freni inibitori. Tale circostanza è evidenziata da D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 67: “Come per tutte le leggi che governano la folla, anche la riduzione dei freni inibitori non può ovviamente riguardare tutti gli individui e tutti i casi ove vi sia presenza di folla. Bisogna altresì tener presente, epurandola, la concezione sulla società di massa e sulle masse che può dar luogo ad una esasperazione dei concetti appena esposti. Allo stesso modo occorre ammettere che in molteplici casi la schematizzazione operata sulle norme che guidano l’agire della folla e dell’individuo componente della stessa è perfettamente conforme alle dinamiche osservate nelle piazze, nelle strade o in qualunque altro luogo ove si raduni la folla. Così come altre volte è altrettanto manifesta la differenziazione del comportamento individuale  seconda del contesto in cui si svolge. Anche per questo si può notare che l’individuo nella folla differisce dal suo comportamento. Prima ancora ch’egli abbia perso ogni autonomia nel comportamento, anche le idee ed i sentimenti si sono già trasformati al punto da poter cambiar l’avaro in prodigo, lo scettico in credente, il brav’uomo in criminale, il vigliacco in eroe.

[7] Si parla di circostanze limitate e circoscritte perché, com’è logico dedurre, non tutti i fenomeni di folla possono essere condotti sotto un comune denominatore. Alcuni saranno necessariamente caratterizzati dalla componente politica, e dunque conterranno, seppur implicitamente, un destinatario individuato (i centri di potere politico appunto), altri invece saranno eventi che trascendono questa ipotesi, com’è il caso delle grandi manifestazioni sportive, e dunque non si presteranno ad alcuna forma di mediazione da parte dei tutori dell’ordine, se non finalizzata alla particolare ipotesi del contenimento.

[8] È appena il caso di ricordare che gli studi compiuti sulla folla hanno, in numerose occasioni, evidenziato come l’elemento della violenza sia quasi connaturale rispetto ad essa. Che questa costituisca uno strumento attraverso il quale rendere più efficaci le recriminazioni avanzate, o piuttosto la naturale valvola di sfogo da parte delle folle, è un problema che affrontano soprattutto D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 43: “Parlando della dinamica della folla non può essere taciuto l’aspetto più cruento che la caratterizza. L’uso, in alcuni contesti, della violenza degli individui che la compongono. In molteplici occasioni l’aggregato folla ha generato a fenomeni di violenza talora incontrollata. Qualunque sia il posto ove si è formata la folla, dalla piazza agli stadi, ovvero secondo i fini che hanno dato luogo all’aggregazione (manifestazioni politiche, sportive…), la folla, con la sua logica, può stimolare negli individui reazioni violente. Questa particolarità…diventa una regola nelle situazioni rivoluzionarie dove sommosse e tumulti fanno da cornice ai rivolgimenti ideologici in atto”.

[9] Centrali sono le conclusioni cui giunge, a questo specifico riguardo Bersani L., Prina F., Sociologia della devianza, Roma, 1995, pag 57: “Ai limiti di teoria e di metodo della statistica morale, che utilizzava i soli dati statistici raccolti dal sistema penale, che identificava la norma con la media, che non riusciva a dare una interpretazione complessiva della società, diede risposta la teoria sociale, formatasi alla fine del XIX secolo. Con la nascita el paradigma sociale l’analisi dell’anomia e della criminalità si spostò dal singolo individuo con le sue caratteristiche fisiche, psichiche, ambientali, alla struttura sociale e culturale, alle reazioni della società, al sistema delle norme. Venne meno l’ottica individualistica e se ne sviluppò un’altra rivolta allo studio dei fattori extra-individuali, primo fra tutti quello definito con il concetto di fatto sociale. Le prime interpretazioni soddisfacenti della natura della devianza e delle sue connessioni con la conformità dei vari contesti sociali si ebbero con le teorie sociologiche”.

[10] Si veda, anche ai fini di un’adeguata ricostruzione in termini storici, quanto sostenuto da Bersani L., Prina F., Sociologia della devianza, Roma, 1995, pag. 57: “L’oggetto della sociologia classica fu il problema della coesione sociale nella società moderna. Durkheim, Weber, Rimmel, pur senza studiare direttamente i gruppi dei devianti, individuarono già le loro forme di produzione nella modernità. Essi posero a fondamento delle teorie dell’equilibrio sociale due variabili generali: la coesione dei rapporti sociali legame sociale) e la coerenza delle rappresentazioni collettive (legame morale).

[11] Il problema, frequentemente accennato negli studi di settore, viene esplicato in modo completo ed esaustivo da Becker H.S., Outsiders: saggi di sociologia della devianza, Torino, 2006, pag. 127: “La difficoltà più ricorrente nello studio del comportamento deviante è la mancanza di solidi dati, un’insufficienza di fatti ed informazioni su cui basare le nostre teorie. Penso sia lapalissiano affermare che una teoria non strettamente legata ad un gran numero di fatti riguardanti l’argomento che si propone di spiegare rischia di non essere molto utile. Eppure una verifica della letteratura scientifica sul comportamento deviante mostrerà che presenta, in proporzione, molta più teoria che fatti…questo non significa che non esistano studi sul comportamento deviante. Ci sono, ma a parte poche eccezioni rilevanti, sono inadeguati al lavoro di teorizzazione che dobbiamo effettuare: inadeguati per due aspetti. Primo, semplicemente non ci sono abbastanza studi che ci forniscano dati sulla vita dei devianti dal loro punto di vista…gli studi sul comportamento deviante sono inadeguati per un secondo aspetto più banale: non ce ne sono abbastanza. Molti tipi di devianza non sono mai stati descritti scientificamente, oppure gli studi esistono in numero così esiguo da non poter costituire punto di partenza”.

[12] Rileva ancora Becker H.S., Outsiders: saggi di sociologia della devianza, Torino, 2006, pag. 128: “Quali sono le conseguenze di questa insufficienza di dati per lo studio della devianza? Una conseguenza, come ho accennato, è la costruzione di teorie erronee o inadeguate. Proprio come abbiamo bisogno di precise descrizioni anatomiche degli animali prima di poter iniziare a teorizzare e sperimentare il loro funzionamento fisiologico e biochimico, allo stesso modo abbiamo bisogno di descrizioni precise e dettagliate dell’anatomia sociale prima di sapere quali sono i fenomeni presenti da teorizzare”.

[13] V. le riflessioni sul merito di Becker H.S., Outsiders: saggi di sociologia della devianza, Torino, 2006, pag. 30: “I membri di gruppi devianti che non abbiano il supporto velato di professioni o strutture organizzate usano altri metodi per nascondere ciò che fanno alla vista esterna…di norma, si sforzano di condurre le loro pratiche in segreto, e le attività pubbliche che intraprendono avvengono in aree relativamente controllate. Ad esempio, una taverna può essere il luogo di ritrovo per ladri. Molti ladri della città saranno quindi rintracciabili in un unico posto dal ricercatore che vuole studiarli, ma loro possono non aprire bocca quando entra nella taverna, rifiutando di avere a che fare con lui o fingendo di ignorare ciò che lo interessa. Questi tipi di segretezza creano due problemi per la ricerca. Da una parte il problema di trovare le persone a cui si è interessati…una volta trovate queste persone, rimane il problema di convincerle che possono senza rischi discutere il problema della loro devianza”.

[14] Questa definizione, rileva Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 9: “costituisce il minimum concettuale sotteso sostanzialmente in tutte le concezioni avanzate dai diversi autori. Ciò sembra valere non soltanto per i vari Sutherland, Merton, Cohen, ecc., ma anche per quei teorici che in questi ultimi tempi hanno inteso discostarsi dai percorsi usuali di una certa tradizione sociologica e criminologica. I labelists, ad esempio, non rifiutano la definizione, ma affermano che essa costituisce nella sua verità empirica solo quando è presente un elemento catalizzatore da essi definito come reazione sociale. Per i nuovi marxisti la definizione conserva un senso, a patto di non fraintendere il suo vero referente: la vera devianza va individuata nei comportamenti lesivi di diritti umani fondamentali, e non in certi comportamenti delle classi lavoratrici, criminalizzati da norme che rispecchiano chiari interessi di classe. Anche i sostenitori della teoria del conflitto non sembrano avere difficoltà nell’accettare la definizione, con la qualificante precisazione che essa, nei suoi contenuti concreti, esprime il precipitato storico di una lotta di potere tra gruppi sociali contrastanti”.

[15] Secondo il significato che si è già esplicato nel primo paragrafo.

[16] In senso critico si vedano le riflessioni svolte da Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 12: “Questo elenco sembrerebbe parziale, e difatti non contempla proprietà che per qualche autore sarebbero meritevoli di risalto. Ma c’è una ragione nella scelta operata: si è preferito richiamare gli elementi su cui l’accordo dei teorici è relativamente più fermo. Due sociologi della devianza, appartenenti a schieramenti opposti, potranno questionare su una quantità di aspetti, ma con ogni probabilità converranno  nell’ammettere che il comportamento deviante presenta almeno le cinque proprietà elencate”.

[17] V. Bersani L., Prina F., Sociologia della devianza, Roma, 1995, pag. 57: “Nelle società tradizionali la coesione sociale, quale legame verticale, orizzontale e micro-relazionale, era basata su un insieme di rappresentazioni collettive, coerenti tra loro e capaci di unificare gli individui tra loro. Nelle società della modernità il problema critici è proprio il deficit di rappresentazioni collettive…questo vuoto si definisce anomia; in senso debole l’anomia rappresenta la disgregazione sociale; in senso forte essa porta con sé l’idea di morte individuale e collettiva.

[18] C. Bersani L., Prina F., Sociologia della devianza, Roma, 1995, pag 58: “La teoria sociologica del crimine e della devianza, così come oggi è posta e condotta, è in gran parte influenzata dalle questioni poste da Durkheim. Con Durkheim l’analisi dei comportamenti devianti iniziò a riferirsi, per la prima volta in modo sistematico, ai soli fattori sociali. Senza più riferimenti a modelli statistici o a costanti bioantropologiche, il principio del bene e del male è ridotto entro l’ambito sociale; le attività con cui gli uomini discriminano tra il ben ed il male non sono che fatti sociali, analizzabili sociologicamente. Si tratta di fatti sui generis la cui comprensione è impossibile se non si considera il sistema di norme e di valori che li regola. L’osservazione dei comportamenti, anche mediante tecniche statistiche non può qui riprodurre conoscenza se non si conosce, almeno per via ipotetica, questo sistema di norme”

[19] Torna sul merito in particolare D’ambrosi F, Barresi F., Folla, follia, tumulti: psicodinamica dell’individuo nella massa, Roma, 2004, pag. 41: “Questi elementi che possono variare e condizionare l’operato degli individui definiscono altresì la pericolosità della folla. E quando gli stessi elementi si presentano con certe caratteristiche possono di fatto indurre al cosiddetto raptus della folla nella sua forma più cruenta. La folla si spinge così fino all’esaltazione che determina a volte un vero e proprio tumulto”.

Gli autori richiamano ancora una volta gli studi di Gustave le Bon (di cui s’è avuto modo di introdurre il pensiero nel corso del precedente capitolo, allorquando si è parlato dello studio sui comportamenti delle masse all’interno della rivoluzione francese, materia nella quale questo studioso ha avuto modo di esprimere interessanti teorie), appurando come lo stesso costituiva sulla base di questi presupposti (quelli cioè elencati nella trattazione) i meccanismi causali del comportamento nelle situazioni collettive.

[20] Volendo esemplificare, si definiranno situazioni estreme delle manifestazioni di piazza nelle quali il clima risulti piuttosto acceso (è il caso, appunto, delle manifestazioni di Genova), oppure quella del tifo allo stadio, o, ancora, nel corso di un comizio politico di un ceto rilievo. Viceversa, potranno costituire esempio di situazioni meno a rischio un’assemblea parlamentare, oppure un tribunale nel quale si eserciti la giustizia.

[21] S tratta di diritti strettamente collegati al concetto di folla perché, pur configurabili in un’accezione individualistica, presentano, al contempo, anche una diversa accezione di tipo collettivo. Ovvero fanno sì che l’individuo possa vedersi tutelato nel suo diritto a riunirsi con altri soggetti, e, in questo contesto, possa manifestare le proprie opinioni ed i propri pensieri. Al riguardo, per ragioni di completezza, la Costituzione italiana tutela il diritto alla manifestazione della propria ideologia nell’articolo 21, mentre, per quanto riguarda la libertà di riunione ed associazione, si deve far riferimento agli articoli

[22] Significative le considerazioni che svolge Corsale M., L’autunno del Leviatano, Roma, 1998, il quale sottolinea la necessarietà di uno studio che valuti i rapporti sociali retrostanti alla folla, d anzi tenga in considerazione proprio il fatto che questi stesi rapporti possano anche non esser presenti esclusivamente in occasione di assembramenti di individui. Potrebbero infatti causarsi in virtù della presenza di situazioni di disagio sociale, ma anche pregiudizi razziali, superstizioni religiose, o, più semplicemente ed al tempo stesso significativamente, in ragione del vuoto culturale che caratterizza determinati contesti, tra i quali spicca lo stadio.

[23] Da un punto di vista storico si tengano in considerazione soprattutto gli studi svolti da Le Bon G., La revolution francaise et la psychologie des rèvolution, Paris, 1913, pagg. 92 ss., il quale, soffermandosi sull’analisi della rivoluzione francese, sottolinea come esistesse un vero e proprio paradosso: le folle cioè, condotte da una logica collettiva, erano portate ad un eccesso di eccitazione che, come principale conseguenza, portava all’eccitazione furiosa delle moltitudini. Ebbene, questa esaltazione era guidata e sollecitata, secondo l’autore, dai leaders. Saranno questi a determinare, con le loro azioni, le circostanze per le quali la folla sia calma, furiosa, criminale oppure eroica.

[24] Ha svolto interessanti considerazioni in tal senso Gianni A., L’ordine pubblico di polizia, Roma, 2000, giustificando in particolare l’emersione di comportamenti emotivamente non controllabili in determinate manifestazioni piuttosto che in altre in ragione delle necessità inconsce che animano gli individui che le compongono. Sarebbe cioè, secondo l’autore, la necessità più o meno consapevole di scaricare le proprie tensioni individuali a legittimare determinati comportamenti in specifiche ipotesi anziché in altre. Il secondo fattore sarebbe determinato dalla eterogeneità dell’input che ha indotto la folla a riunirsi. Ed è appunto l’esempio che si riportava nel testo ad essere usato dall’autore, il quale specifica come determinate manifestazioni ad elevato contenuto intellettivo presentino, per propria natura, una minore carica emozionale. “…Quanto più l’oggetto della manifestazione si innalza nelle regioni superiori dell’intelletto, tanto meno le persone presenti sono portate all’emozione”. Questi individui, in buona sostanza, avrebbero una minore propensione ad abbandonare i propri freni inibitori, perché l’entusiasmo è da questi più facilmente controllabile e perché, anche, il timore avvertito nei confronti del rumoreggiare di un pubblico a teatro non potrà certo paragonarsi con l’analogo rumoreggiare che compia una folla nel mezzo di una manifestazione patriottica, legittimando quindi comportamenti di conseguenza ben diversi.

[25] Interessanti gli studi svolti al riguardo da Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 197: “Si tratta di una teoria che nel corso degli ultimi due decenni ha catalizzato un certo interesse in diversi teorici, circostanza che oggi vale a collocarla nel ristretto numero delle più note e discusse teorie del controllo sociale. Essa appare incardinata sull’ipotesi centrale per cui la punizione rappresenterebbe un valido freno alla produzione della devianza. Il suo più generale postulato filosofico, chiaramente implicito, rovescia il senso della domanda da cui puntualmente prendono le mosse gl’interpreti della devianza. Costoro partono col chiedersi: perché l’uomo devia? Evidentemente, i teorici della deterrenza devono trovare questo puerile e fuorviante. Ahimè, l’intera stori del genere umano sta a dimostrare quanto naturalmente sia l’uomo incline a commettere devianza. Per cui non ha senso interrogarsi sul come mai l’uomo commetta devianza: piuttosto ha senso chiedersi: qual è la forza che impedisce all’uomo di estrinsecare pienamente queste sue sistematiche potenzialità devianti? E sembrano sussistere motivi per rispondere: la minaccia delle sanzioni previste.

[26] Rileva in merito Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 197: “Come si vede, tutto si può dire tranne che ci si trovi dinanzi ad un’idea nuova. La convinzione che la sanzione esperisce una funzione disincentivante sulla produzione di comportamenti devianti, beneficia di un pacifico riscontro all’interno dei più diversi contesti storico-sociali. E difatti, in coerenza di ciò, i teorici del deterrente affermano onestamente di non aver inventato nulla: è loro intenzione piuttosto assestare, in termini scientifici più moderni e controllati, delle acquisizioni elaborate da alcuni autori magari un paio di secoli addietro. E nell’enumerazione di codesti padri fondatori, il nome più puntualmente ricorrente è Cesare Beccaria”.

[27] Nelle pagine del suo celebre trattato, Dei delitti e delle pene, l’autore delinea infatti un quadro generale all’interno del quale l’uomo appare controllabile e stabilmente indotto ad una civile convivenza, solo mediante il ricorso alla minaccia di pene, che l’autore definisce “sensibili motivi”. In particolare si veda Beccaria C., Dei delitti e delle pene, Milano, 1987, pag. 27: “Dico sensibili motivi perché l’esperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principi di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per controbilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le più sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate delle vite percosse degli oggetti presenti”.

[28] Si veda sempre Beccaria C., Dei delitti e delle pene, Milano, 1987, pag. 78: “LA nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina procacciandosi i suoi bisogni con il di lei aiuto, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse”.

[29] Cfr. Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 199: “…è possibile concludere che per il Beccaria il potenziale deterrente della pena non appare affatto saldamente associato al grado di severità della medesima. Cosa che invece viene affermata dagli odierni teorici della deterrenza. Costoro non dicono che una sanzione ha un certo deterrente: essi invece tendono a sottolineare più precisamente che in genere, ed in riferimento a pressocchè ogni fattispecie di reato, una sanzione più severa appare fornita di più potere deterrente. E, in questi termini chiarita la questione, ci sembra che la paternità di Beccaria appaia alquanto più dubbia di quanto solitamente si tende a riconoscere.

[30] Si veda in particolare, per approfondimenti, Gibbs J.P., Crime, punishment and deterrence, Southwark, 1968, pagg. 515 ss. I risultati cui pervenne questo autore furono estremamente importanti perchè grazie ad essi per la prima volta si poteva ricordare un certo credito all’idea di deterrenza. Sino ad allora infatti questo credito era stato negato da un principio incontrovertibile: che cioè non esisteva alcuna significativa relazione tra omicidio e pena di morte, nel senso che l’andamento dei tassi di omicidio non appariva influenzato dalla eventuale presenza di una sanzione come la pena capitale. Ciò era ritenuto sufficiente per togliere ogni credibilità all’idea di deterrente in quanto tale. Probabilmente in questo suo successo l’autore fu favorito dall’esplodere dell’ondata di criminalità che, tra gli anni 60 e 70, avrebbe fatto cambiare opinione a diversi osservatori.

[31] Si esprime in questo senso Liska A.E., Perspectives on Deviane, Englewood, 1981, pagg. 94 ss.

[32] Al proposito rileva Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 201: “Il concetto è intuitivo (1 anno o 5 anni di carcere, 100.000 lire o un milione di multa, etc.). Naturalmente questo non vuol dire che non debbano mai esserci problemi. Infatti, la logica dell’impianto è orientata necessariamente nel senso della comparazione, e quindi si deve essere sicuri che tale logica non risulti stravolta ma, particolarmente in alcuni contesti, risulta assai difficile determinare a quanti giorni di prigione sia equivalente, ad esempio, una certa multa. In termini generalizzati la teoria sancisce che più severa è la sanzione per la violazione di una norma, più basso è il livello di violazioni della medesima”.

[33] Si noti che in molte ricerche una misura di certezza è stata ottenuta rapportando il numero di incarcerazioni dovute a condanna di reati di cui si era ufficialmente a conoscenza. Ad esempio si può confrontare perché in Italia un reato come il furto d’auto sia virtualmente privo di certezza di punizione, con la conseguenza che sia un reato estremamente diffuso. Al tempo stesso però questa impostazione porta ad alcune problematiche conseguenze: la stessa specificazione del concetto di certezza può apparire a volte problematica, perché non si è di fronte ad un evento, semmai ad una sequenza di eventi: il fermo, l’arresto, il processo, la condanna, la carcerazione. Il fatto dunque che molti arrestati per violazione non arrivino ad essere incarcerati non giustificherebbe la conclusione per cui questa sanzione sarebbe sprovvista di sanzione.

[34] Si veda in merito Gennaro G., Manuale di sociologia della devianza, Milano, 2002, pag. 201: “Naturalmente anche qui la teoria del deterrente afferma che tanto più è immediata la punizione, tanto meno la norma relativa viene violata. Delle tre dimensioni tuttavia questa appare la più negletta, dal momento che in numerose ricerche gli elementi di base in genere appaiono costituiti dalla severità, dalla certezza e, naturalmente dagl’indici di criminalità.

[35] Si osservino al riguardo le osservazioni che svolge Becker H.S., Outsiders: saggi di sociologia della devianza, Torino, 2006, pag. 139: “Quando consideriamo la devianza come un’azione collettiva, ci rendiamo immediatamente conto che le persone agiscono con un occhio alle relazioni degli altri coinvolti nella stessa azione. Tengono conto del modo in cui questi ultimi valuteranno ciò che fanno, e di come tale valutazione inciderà sul loro prestigio  sul loro rango…Quando osserviamo tutte le persone ed organizzazioni coinvolte in un episodio di comportamento potenzialmente deviante, scopriamo anche che l’attività collettiva prodotta consiste in qualcosa di più di atti di presunta trasgressione”.

[36] Possono apparire allora significative le conclusioni a cui giunge, anche attraverso il chiarimento del concetto di diversità sociale, Becker H.S., Outsiders: saggi di sociologia della devianza, Torino, 2006, pag. 140 ss., enunciando, in merito al profilo collettivo delle stesse, le seguenti conclusioni: “…una buona parte dell’appassionata discussione sulle teorie interazioniste nasce dall’impiego equivoco del termine devianza nel designare due processi distinti che si verificano in quei due sistemi. Da una parte, certi ricercatori usano il termine devianza per riferirsi a quegli atti che, per qualunque membro ragionevole della società, o secondo qualche definizione, accettata (come la violazione di una norma ritenuta esistente l’eccezione statistica, o la patologia psicologica), sono sbagliati. Vogliono focalizzare la loro attenzione sul sistema di azioni nel quale avvengono questi atti. Gli stessi ricercatori vogliono anche applicare questo termine alle persone che vengono arrestate o trattate come se avessero commesso quell’atto. In questo caso, vogliono concentrare la loro attenzione sul sistema di azioni nel quale avvengono questi giudizi. Affinchè questo equivoco sul termine non causi inesattezza è necessario e sufficiente che chi commette un atto e chi viene arrestato sia la stessa persona…”.

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