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La normativa civilistica dei patrimoni destinati

  1. Quadro di riferimento generale dell’istituto dei patrimoni destinati e la responsabilità ex art. 2740 c.c.

L’articolo 2740[1] c.c. stabilendo che “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”, consacra un binomio “soggetto-patrimonio” in virtù del quale a ciascun soggetto corrisponde un patrimonio ed uno soltanto, rappresentante la garanzia generale, nonché minima, per i suoi creditori che su di esso hanno, pertanto, uguali diritti (cd. par condicio creditorunm, art. 2741 c.c.). Ma la resistenza e l’effettività di tale binomio è stata messa, dallo stesso legislatore, più volte sotto sforzo fino ad essere, in molti casi, spezzata ad opera delle numerose ipotesi di separazione patrimoniale introdotte nel nostro sistema giuridico sia dal legislatore che dalla autonomia privata, tanto che si è parlato di crisi del principio della universalità della responsabilità.  In altre parola, il proliferare delle ipotesi di destinazione patrimoniale, caratterizzate da una limitazione della responsabilità del titolare del patrimonio, ha fatto dubitare, in dottrina, che si possa ancora parlare, con riguardo alla affermazione contenuta nel primo comma dell’articolo 2740 c.c. di principio di ordine pubblico. In effetti ipotesi di patrimoni separati sono disseminate nel nostro ordinamento giuridico: per fare un esempio, delle ipotesi codicistiche, si possono ricordare il fondo comune delle associazioni non riconosciute (art. 37 c.c.) sul quale, peraltro, non vi è concordia di opinione circa la sua configurazione come ipotesi di patrimonio “autonomo” piuttosto che “separato”; il fondo patrimoniale (art. 167 c.c.), l’usufrutto legale dei genitori sui beni del minore (art. 324 c.c.), l’eredità beneficiata (art. 512 c.c.), l’eredità giacente (art. 528 c.c.), i beni gravati da pegno e ipoteca, i beni fedecommessi nella sostituzione fedecommissaria (art. 692 c.c.), il fondo speciale di previdenza (art. 2117 c.c.), e, a partire dalla entrata in vigore della riforma del diritto societario, il nascente istituto denominato proprio dei “patrimoni destinati ad uno specifico affare” previsto agli artt. 2447 bis e ss. del c.c. Passando alle ipotesi di legge speciale si sono inseriti i patrimoni destinati alle operazioni di catrolarizzazione (l. 30 aprile 1999 n. 130), i fondi comuni di investimento previsti dagli artt. 22 e 36 n. 6 del Testo Unico dell’intermediazione finanziaria, D. Lgs. 14 febbraio 1998 n. 58 (cd. Decreto “Draghi”)[2] e recentemente la legge sulla “società per il finanziamento delle infrastrutture” (articolo 8, comma 4°, d.l. 15 aprile 2002, n. 63, convertito dalla legge 15 giungo 2002 n. 112[3].

Infine, per fare un esempio di patrimonio separato, frutto della autonomia contrattuale, si ricorda il Trust. Tutte queste figure, anche perché sorte in epoche lontane fra loro, presentano caratteri propri e tali da far si che siano variamente classificate. La loro eterogeneità, inoltre, rende più operosa l’attività di ricostruzione del fenomeno della “separatezza” come categoria e più incerta l’interpretazione analogica.

La cospicuità delle stesse, inoltre, ha imposto all’operatore giuridico di rimeditare sulla portata del principio della responsabilità patrimoniale, assistendosi ad uno spaccamento in dottrina tra i sostenitori, da una parte, della attuale valenza della regola come inderogabile e di ordine pubblico, ed i sostenitori, da’altra, dell’orientamento opposto che, attraverso la caduta del principio intendono fornire il riconoscimento pieno ad ipotesi non legislative ma negoziali di separazione patrimoniale, che con difficoltà cercano di trovare asilo nel nostro sistema giuridico: il riferimento è, ovviamente, al trust.

La dottrina tradizionale[4] ha sempre letto nell’enunciato dell’articolo 2740 c.c., un principio di ordine pubblico, sorretto da una riserva di legge delle ipotesi derogatorie della responsabilità generale, ammissibili, quindi, solo se previste dal legislatore e, per di più, non suscettibili di interpretazione analogica[5]. La creazione di un patrimonio separato non può, pertanto, prescindere, da una espressa previsione legislativa, e ciò in linea con il secondo comma della norma che pone il principio: l’articolo 2740 c.c. al secondo comma dispone, infatti, che “le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.

  1. L’introduzione dei patrimoni destinati nel codice civile: le diverse configurazioni di patrimoni destinati a seguito della riforma del diritto societario

Con la legge 3 ottobre 2001, n. 366 di delega al governo per la riforma del diritto societario, è stato introdotto, nell’ordinamento italiano, l’istituto dei “patrimoni dedicati”.

La possibilità, per la società di capitali, di costituire patrimoni destinati, rappresenta una delle più significative novità della riforma del diritto societario[6].  A questa novità il legislatore ha dedicato, nel complesso, nove articoli.

L’introduzione, anche nell’ordinamento italiano, di una apposita disciplina dei patrimoni dedicati rappresenta pertanto una conferma, della crisi delle garanzie reali, che, legate come sono ad una concezione statica dei beni, appaiono sempre meno adeguate ad un sistema economico che pone il suo baricentro non nel valore d’uso, ma nel valore di scambio. Di qui l’esigenza di nuove prospettive per la tutela creditizià, che muove dai quei beni alle attività cui quei beni sono strumentali ed aspira a superare le rigidità che, nel nostro sistema, caratterizzano le strutture formali della garanzia reale.

Con l’espressione “patrimonio destinato” si intende la figura giuridica che consente alle società per azioni, indipendentemente dalla circostanza che abbiano o meno titoli diffusi tra il pubblico in misura rilevante, di enucleare parte del proprio patrimonio sociale per destinarlo ad uno specifico affare, in modo che, delle obbligazioni contratte per la realizzazione dello specifico affare risponde solo il patrimonio ad esso destinato, con esclusione del residuo patrimonio della società (art. 2447 quinquies, co. 3, c.c.). Senza dubbio, tale modello introduce un’ulteriore deroga sia al carattere universale della responsabilità, come sancito dall’art. 2740 c.c[7], sia al principio della par condicio creditorum contenuto nell’art. 2741, co.1, c.c., motivo per cui i patrimoni separati, possono realizzarsi unicamente in forza di una corrispondente volontà di legge (salve le problematiche connesse alla ammissibilità del Trust). Con la costituzione di patrimoni destinati non si realizza una scissione interna, ma una sottrazione dei beni compresi nel patrimonio destinato da quello generale della società, non sul piano della titolarità, ma esclusivamente sul piano della creazione di un centro di interessi cui imputare autonomamente le obbligazioni relative allo svolgimento dell’affare [8].

Entrando nello speocifico della riforma una della maggiori novità è rappresentata dall’istituto dei “patrimoni destinati ad uno specifico affare” disciplinati dagli articoli 2447-bis e seguenti del codice civile[9]. Sintetizzandone le caratteristiche generali, può dirsi che due sono i modelli di patrimoni destinati previsti dal legislatore[10]. L’uno previsto dalla lettera a) dell’articolo 2447-bis, consente alla società di destinare, separandola contabilmente, una frazione del proprio patrimonio alla realizzazione di uno specifico affare[11]; l’altro, previsto alla successiva lettera b) dello stesso articolo, rappresenta, piuttosto, una fase di un’operazione finanziaria disponendo la facoltà, per la società, di separare non i beni, bensì i proventi (da intendersi non solo gli utili ma anche il risultato del loro reinvestimento) dell’attività separata, per destinarlo al rimborso (“totale o parziale”) del finanziamento per esso ottenuto, eventualmente anche da terzi[12]. Entrambi i delineati modelli, definiti, rispettivamente, “operativo” o “gestionale” quello di cui alla lettera a) e “finanziario” quello di cui alla lettera b), si inseriscono nella ormai diffusa tendenza al ridimensionamento della portata del principio dell’universalità della responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.): attraverso negozi giuridici tipizzati, in particolare (art. 2740 c.c., secondo comma), il legislatore consente, con sempre maggiore frequenza ormai, di operare una scissione logica tra soggetto dominus dell’attività e il suo patrimonio, eccezionalmente, consentendo che non vi sia osmosi in sede di responsabilità tra le obbligazioni derivanti dalla gestione dell’attività principale e quelle dipendenti dallo specifico affare. In tal modo, senza la creazione di un nuovo soggetto, si assiste ad una specializzazione della responsabilità, attraverso la segregazione di beni strumentali ad una singola iniziativa economica e riservati alla garanzia di una particolare categoria di creditori dell’impresa, i quali, da parte loro, vengono privilegiati rispetto agli altri personali o generali dello stesso soggetto. Ciò realizza una deroga all’articolo 2741 c.c. perché non assicura più “eguali diritti di essere soddisfatti sui beni del debitore”[13].

Dunque, duplici sono gli obiettivi che si sono intesi perseguire con l’istituto dei patrimoni destinati. Da una parte – come si legge nello schema illustrativo della legge delega – si è voluto evitare che le società, nel tentativo di attuare “una mera funzione di separatezza” si rivolgessero allo schermo della personalità giuridica, con la creazione di nuovi apparati che comportassero maggiori spese di costituzione e gestione. Dall’altra, si è voluto introdurre uno strumento volto a scoraggiare il ricorso ai rimedi poco trasparenti che si andavano delineando nella pratica, come la costituzione di società ad hoc, create per un singolo affare, e si è voluta rendere possibile una più incisiva tutela dei finanziatori dell’affare, con il rendere gli stessi maggiormente consapevoli delle sue caratteristiche[14].

  1. I patrimoni destinati ad uno specifico affare

Il tema dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, dunque, previsto dai nuovi artt. da 2447- bis a 2447- decies c.c. introduce una novità assoluta, priva di omologhi anche in altri ordinamenti[15].

Il nuovo istituto[16] si colloca all’interno di un processo di sviluppo del sistema giuridico attualmente in corso e determina dei mutamenti che rendono sempre più difficoltosa l’utilizzazione delle categorie tradizionali del diritto civile.

Tali disposizioni concorrono ad incrementare il quadro degli strumenti tesi alla specializzazione della responsabilità patrimoniale, come fenomeno che ridimensiona il principio della responsabilità patrimoniale generica[17], sancito dall’art. 2740 c.c. e della parità di trattamento tra creditori[18], di cui all’art. 2741 c.c. Con i patrimoni destinati ad uno specifico affare, si introduce pertanto uno strumento generale finalizzato ad isolare il rischio per favorire il ricorso al credito, individuando un separato patrimonio o, alternativamente, una fonte di rientro del credito specifica e separata.

L’istituto dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, introdotto con la riforma del diritto societario, trova previ­sione in una precisa disposizione – art. 4, co. 4, lett. b)- della Legge delega 366/2001, in base alla quale la riforma è diretta a “consentire che la società costituisca patrimoni dedicati ad uno specifico affare, determinandone condizioni, limiti e moda­lità di rendicontazione, con la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione ad esso; prevedere adeguate forme di pubblicità; disciplinare il regime di responsabilità per le ob­bligazioni riguardanti detti patrimoni e la relativa insol­venza”[19]. A sua volta, tale previsione che parla di patrimoni dedicati[20], termine poi convertito nel decreto legisla­tivo 06/2003 in destinati  trova la sua origine nel Progetto Mirone, da cui la suddetta legge delega prende spunto, ri­producendone sostanzialmente il contenuto[21]. Peraltro, la genesi dell’istituto in esame ha radici più pro­fonde di quelle che si esauriscono nella legislazione nazio­nale, e che sono da ricondurre alla normativa comunitaria. Il fenomeno della destinazione e separazione patrimoniale s’in­serisce, in un più ampio quadro di portata internazio­nale.

Il progetto Mirone, infatti, si prefissava di accogliere nuovi istituti e strumenti giuridici, ritenuti imprescindibili di fronte all’esigenza, da un lato, di modernizzare il diritto so­cietario, conformandolo allo stesso tempo alle disposizioni contenute in altri ordinamenti comunitari e, dall’altro lato, di estendere quei vantaggi competitivi che rischiavano di dive­nire prerogativa esclusiva delle aziende localizzate su spazi territoriali differenti da quello italiano. Occorre evi­denziare come gli imprenditori di società residenti nell’U­nione Europea, avendone la facoltà, prediligano dar vita a nuove aziende nei Paesi che offrono una legislazione partico­larmente favorevole, in relazione alle norme disciplinari che le regolamentano o in termini di strumenti offerti per lo svolgimento delle connesse attività imprenditoriali (si parla, in proposito, di “forum shopping”)[22]: quindi, nell’accesso alle risorse finanziarie come nelle possibilità di avvantaggiarsi di agevolazioni fiscali, nelle opportunità di cooperare con al­tre istituzioni private o pubbliche come nella possibilità di controllare i rischi aziendali e, in genere, di disporre di sva­riati strumenti dotati di un certo grado di flessibilità.

Da ciò non possono che discendere livelli di concorrenza tra i vari ordinamenti comunitari sempre più accesi e dina­mici sul piano dell’attività di normazione di tipo societario. E, in ultima analisi, tale concorrenza attribuisce particolare rilevanza allo strumento in esame anche al di fuori del diritto societario italiano, consentendone un impiego da parte di quelle imprese organizzate in forma societaria e residenti in altri paesi comunitari[23]. Del resto, la funzione principale dell’istituto in analisi, per differenti profili e con ambiti ap­plicativi più ristretti, sembra trovare già degli impieghi all’e­stero: il riferimento principale è a taluni strumenti quali le tracking stocks, le protected cell companies, gli special purpose vehicles e il trust. Nel ricostruire sommariamente la nascita, sul piano inter­nazionale, dell’istituto dei patrimoni destinati ad uno speci­fico affare, occorre richiamarsi anzitutto alla XII Direttiva 89/667/CEE in materia di società a responsabilità limitata con un unico socio. Con la suddetta direttiva i Legislatori nazionali dei differenti Stati membri potevano optare tra due differenti soluzioni: la prima prevedeva la costituzione di una società con unico socio  opzione non confinata esclusiva­mente alla società a responsabilità limitata, ma estendibile anche alla società per azioni, sia nel momento originario, sia quando, successivamente, tutte le quote si siano cumulate in una sola mano, mentre la seconda opzione, invero pro­spettata in via residuale, consentiva la costituzione di imprese individuali a responsabilità limitata con un patrimonio di de­stinazione e specifiche garanzie per i terzi[24]. L’unico paese comunitario che già prevedeva tale seconda possibilità era il Portogallo, con la disciplina dell’estabelecimento individual de responsabilidade limitada, introdotta con il D.L. 25 agosto 1986, n. 248, paese in cui ora vigono entrambi gli istituti prospettati dal Legislatore comunitario[25].

In Italia, ugualmente agli altri Paesi e con l’ec­cezione indicata, il Legislatore ha preferito adottare la solu­zione della società unipersonale[26], introdotta con il D.Lgs. 3 marzo 1993, n. 88 (emanato in base alla legge delega 19 febbraio 1992, n. 142), che ha adeguato il nostro ordina­mento giuridico alla dodicesima direttiva CEE. La previsione di una società uniper­sonale a responsabilità limitata  che la riforma del diritto societario ha ora reso possibile anche per la società per azioni[27]  ha determinato soltanto una generalizzazione del principio della responsabilità limitata senza incidere sul principio dell’inscindibilità del patrimonio. Ciò ha comportato il moltiplicarsi di imprese costituite  nelle suddette forme giuridiche  e rette con l’esclusivo o principale scopo di limitare la responsabilità dell’attività con ciascuna di esse svolta all’ammontare patrimoniale alle stesse assegnato[28]. La necessità di porre un freno a tale spinta e il manifestarsi di ulteriori esigenze[29] hanno indotto, dunque, il Legislatore ad adottare altresì lo strumento dei patrimoni destinati già previsto, dalla XII di­rettiva CEE.  Per ciò che concerne, invece, i finanziamenti destinati, questi non erano espressamente previsti dalla Legge delega della riforma del diritto societario, ma rispondono alla più generale esigenza di nuove ed efficienti, sotto il profilo della tutela, forme di finanziamento. Peraltro, anche per essi, è possibile facilmente rinvenire strumenti ad essi assimilabili e già presenti oltre i confini nazionali, quali la securitization e il project financing.

3.1 Nozione di affare

Non poche perplessità si presentano, in prima approssimazione, nel momento in cui si vuole tentare di interpretare il significato dell’espressione “specifico affare[30]”, che sembra poter assumere una pluralità di significati.

La Relazione di accompagnamento al decreto legislativo che ha introdotto l’istituto in esame, si limita a definire l’affare specifico come “una particolare operazione economica”, senza peraltro fornire ulteriori indicazioni in merito alla sua ampiezza e alla sua specialità. In relazione ai quesiti su esposti, può essere d’aiuto richiamare allora il pensiero della dottrina giuridica, la quale si è interrogata giungendo a conclusioni spesso divergenti[31].

In particolare, la dottrina unanime nell’intendere per “specifico affare” non certamente il singolo contratto o rapporto giuridico, ma un insieme di attività e di atti composti e finalizzati al raggiungimento di un dato obiettivo o alla realizzazione di un determinato progetto[32], ha sostenuto altresì che esso non può coincidere con l’oggetto sociale né, per converso, riguardare un’attività del tutto estranea allo stesso, ma deve essere sempre correlato alle dimensioni e alla stessa attività dell’impresa[33].

La prima considerazione sembra del tutto pacifica, in quanto non si giustificherebbe in alcun modo il ricorso alla costituzione di un patrimonio destinato che risulterebbe, peraltro, insufficiente quantitativamente per lo svolgimento di un’attività consustanziale alla ragione per la quale la società si è costituita. In altre parole, prescindendo da motivazioni di ordine giuridico, sarebbe priva di logica un’identità tra l’oggetto sociale e lo specifico affare oltre che economicamente irraggiungibile, stante l’anzidetto limite del dieci per cento nella destinazione di un patrimonio.

Difformità d’opinione, invece, sono emerse con riguardo all’ipotesi opposta, ovvero se l’affare specifico possa essere del tutto avulso rispetto all’oggetto sociale. Sembra ovvio ritenere in armonia d’opinione con una parte minoritaria della dottrina giuridica che la natura dell’affare non possa discostarsi considerevolmente dall’attività caratteristica dell’azienda, se il primo deve potersi svolgere e conseguire mediante l’impiego di quegli stessi mezzi che, prima della costituzione del vincolo di destinazione, erano già presenti in azienda per lo svolgimento dell’attività principale. Ciò induce ad ipotizzare, quindi, una certa omogeneità di fondo tra le attività svolte con partizioni differenti del patrimonio complessivo dell’azienda.

Infatti, a parte l’ipotesi dell’apporto di terzi, non sembra improbabile quella di acquisizione “dedicata” di beni, da isolare successivamente attraverso la costituzione del patrimonio separato: in tali circostanze, lo specifico affare potrebbe differire nella sua natura anche notevolmente dall’attività principale[34]. La dottrina dunque non ritiene appieno condivisibile l’imprescindibilità di una relazione tra l’attività generale e quella specifica. Nulla, infatti, sembra ostare all’impiego dell’istituto nei limiti di compatibilità tecnica ed economica con l’attività caratteristica dell’impresa finalizzato alla realizzazione di forme di diversificazione della stessa[35].

Peraltro, tali posizioni perdono parte preponderante della loro significatività in un’ottica economico-aziendale, ove l’espressione in esame può ritenersi riferibile in linea ora tra l’altro con il prevalente orientamento giuridico ad una qualsiasi operazione o iniziativa di natura economica, commerciale o finanziaria fino a considerare la creazione o lo sviluppo di un intero “ramo d’azienda”[36]. Infatti, da un lato la nozione di affare non può certamente coincidere con il compimento di una singola operazione o atto ma si esplica attraverso un insieme di azioni che configurano, quindi, un’attività, e dall’altro lato, il patrimonio enucleato consta di un insieme di beni che si presuppongono coordinati, e, in quanto tali, idonei ad identificare un “ramo d’azienda”[37].

Più in generale, allora, l’affare specifico, sotto il profilo economico-aziendale, non si discosta eccessivamente dal concetto di “unità economica relativa”, dotata di parziale autonomia di gestione, organizzazione e rilevazione[38]. La nozione di affare, quindi, quale espressione di un’attività dinamica che s’intende compiere attraverso l’impiego della quota di patrimonio sociale ad esso destinata, identifica un generico obiettivo, da cui nondimeno la necessità, peraltro non meramente giuridica, di individuarlo e qualificarlo come “specifico” (così, ad esempio, l’”affare” potrebbe consistere nella costruzione di un immobile e nella successiva vendita delle singole unità che lo compongono), al fine di evitare taluni problemi connessi con la definizione di oggetti sociali oltremodo estesi. Si rende, quindi, necessario indicare il tipo d’affare, la sua dimensione, l’ubicazione, la dotazione degli immobili e delle attrezzature necessarie per la sua esecuzione, la tipologia e la qualifica del personale richiesto, gli obiettivi prefissati, le decisioni di make-or-buy, ecc.

La determinazione analitica della dimensione e della natura dell’affare, sopratutto sotto il profilo economico e finanziario, riveste poi una precipua e rilevante funzione. Essa, in fatti, dovrebbe porsi a base del giudizio espresso dagli amministratori sulla congruità del patrimonio o del finanziamento destinato rispetto alle esigenze richieste dall’attività. Da tale giudizio d’idoneità quali – quantitativa del patrimonio, potendo essere successivamente oggetto di valutazione da parte di soci, creditori e terzi, dipendono le sorti dello stesso patrimonio di nuova costituzione.

E opinione comune, infine, che gli schemi di destinazione patrimoniale e di destinazione finanziaria possano essere utilizzati tanto per avviare nuove attività tanto per sviluppare, con ulteriori risorse, altre attività già in essere[39].

  1. Effetti della costituzione del patrimonio destinato: la delibera di costituzione

La società per azioni enuclea dal suo patrimonio un insieme di beni, solitamente coordinati, e li destina, con propria deliberazione[40], allo svolgimento di uno specifico affare: per esempio, nel caso di una società di costruzioni immobiliari, alla realizzazione di un complesso edilizio, eventualmente su appalto di un committente. L’affare ovviamente rientrante nell’oggetto sociale deve essere “specifico”; deve cioè consistere in una precisa iniziativa economica, destinata a realizzarsi entro un tempo previamente indicato[41]: non sarebbe altrimenti possibile che la delibera istitutiva contenga (art. 2447-ter, lett. c) “il piano economico finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare, le modalità e le regole relative al suo del patrimonio destinato impiego, il risultato che si intende perseguire”[42].

La terminologia utilizzata dal legislatore ovvero singolo affare, considerata come atecncica da parte della dottrina maggioritaria, va intesa come insieme delle operazioni funzionalmente collegate con l’unico limite del doveroso collegamento con l’oggetto sociale, fatti salvi specifici divieti previsti da leggi speciali .

Occorre però evidenziare come la possibilità di costi­tuire patrimoni destinati ad uno specifico affare trova alcuni precisi limiti nella disciplina in esame, che originano da una previsione in tal senso della legge delega[43]. Infatti, salvo quanto disposto in leggi speciali, i patrimoni destinati “non possono essere costituiti per un valore complessivamente supe­riore al dieci per cento del patrimonio netto della società e non possono comunque essere costituiti per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali”[44]. Tale prescrizione  pone un duplice ordine di li­miti alla costituzione di patrimoni destinati.

La prima specie di limite può chiaramente definirsi di tipo “quantitativo”, atteso che le società possono costituire patrimoni separati in misura non superiore ad una certa percentuale del loro patrimonio netto, ed è da intendersi inderogabile al di fuori delle previsioni contenute in leggi speciali. Esso è chiaramente posto a tutela dei creditori generali preesistenti alla costituzione dei patrimoni destinati, com’è altresì a ga­ranzia dei soci: entrambe le categorie, infatti, potrebbero es­sere pregiudicate  seppure in maniera diversa  da una smi­surata frammentazione del patrimonio sociale. I primi  per i quali è prevista, la possibilità di op­porsi alla delibera istitutiva degli stessi patrimoni  vedreb­bero ridursi l’ammontare patrimoniale sul quale rivalersi in caso di insoddisfazione delle loro pretese. I secondi, invece, potrebbero dichiararsi contrari ad una segregazione volta a snaturare oltremodo l’attività dell’impresa di cui sono soci. In altre parole, si è voluto stabilire una sorta di pru­dente proporzione tra il capitale di rischio “generale”, da un lato, e il capitale di rischio “speciale” relativo ad ogni patri­monio destinato, dall’altro lato.

Peraltro, anche i terzi apportanti beni al patrimonio destinato ad uno specifico affare, i possessori di strumenti finanziari allo stesso correlati e i creditori parti­colari dello specifico affare potrebbero subire indirettamente un pregiudizio da una separazione patrimoniale non soggetta a vincoli. Infatti, ove il patrimonio generale residuo si pre­sentasse insufficiente rispetto alle pretese dei creditori gene­rali e tale da determinare il fallimento della società, anche l’affare specifico verrebbe meno[45].

È chiaro allora che, al momento della determinazione del limite, il valore effettivo dei beni che concorrono a formare il patrimonio destinato può differire notevolmente da quello contabile risultante dal bilancio, per cui potrebbe accadere che in base alloro valore contabile determinati beni possono essere regolarmente destinati, mentre in relazione alloro va­lore effettivo quegli stessi beni conducono ad un supera­mento di quel limite o viceversa. Una valutazione a valori contabili piuttosto che effettivi è da ritenersi, preferibile su un piano prudenziale, giacché più garante contro il rischio di soggettive valuta­zioni[46].

In relazione, invece, al momento al quale riferire l’anzi­detta determinazione, sembra doversi privilegiare l’ipotesi dell’adozione della data di chiusura dell’ultimo bilancio regolarmente approvato. Per il calcolo della quota patrimoniale da destinarsi, cioè del valore del patrimonio di destinazione occorre  sottrarre da un ammontare di attività il valore delle passività che eventualmente si intendono attribuire a quello stesso patrimonio[47]. Il rispetto del suddetto limite è verificato, quindi, attraverso il calcolo del rapporto tra il valore iniziale della quota patrimoniale da distaccare e il netto patrimoniale della società come sopra determinato.

Inoltre, tale limite è riferito, non a ciascun patrimonio che la società intende costituire, ma all’ammon­tare complessivo dei patrimoni da essa eventualmente enu­cleati, configurandosi, quindi, quale limite di specie cumu­lativa.

In termini più generali, ciò significa che l’azienda non solo può scegliere discrezionalmente l’ammontare delle atti­vità da destinare ma, di riflesso, può determinare altresì la composizione finanziaria, tra capitale proprio e capitale di terzi, all’interno della situazione patrimoniale relativa al pa­trimonio separato, atteso che la scelta dell’ammontare delle passività da destinare è anch’essa rimessa al suo giu­dizio. In altri casi, peraltro, tale opzione potrebbe tradursi in un obbligo: la necessità, infatti, di raggiungere una de­terminazione quali  quantitativa ottimale, o quantomeno “congrua” nell’ ammontare delle attività da trasferire in relazione alle esigenze peculiari dell’affare specifico, porta necessa­riamente l’azienda a “fare leva” sulle passività, trasferendo dal patrimonio generale quell’ammontare che consente di rispettare il vincolo quantitativo imposto dalla disci­plina[48]. Sem­bra chiaro quindi che le possibilità operative di costituzione di patrimoni destinati si moltiplicano vertiginosamente.

Il ricorso alla destinazione patrimoniale non richiede necessariamente un’espressa previsione dello statuto in tal senso, né del resto la relativa deliberazione comporta alcuna modifica statutaria[49]. L’onerosità, in termini di adempimenti richiesti, del ricorso allo schema dei patrimoni destinati trova riscontro in altre previsioni, e, anzitutto, nella delibera che istituisce gli stessi patrimoni destinati.

Questa, infatti, deve contenere le seguenti informazioni: “a) l’affare al quale è destinato il patrimonio; b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio; c) il piano economico – finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare, le modalità e le regole relative al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi; d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare; e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che attribuiscono; f) la nomina di una società di revisione per il controllo contabile sull’andamento dell’affare, quando la società non è già assoggettata alla revisione contabile da parte di una società di revisione ed emette titoli sul patrimonio diffusi tra il pubblico in misura rilevante ed offerti ad investitori non professionali[50]; g) le regole di rendicontazione dello specifico affare”.

Come si evince, tuttavia, mentre alcune indicazioni sono obbligatorie, altre al contrario hanno mero carattere eventuale, e in particolare, tra queste ultime, le garanzie offerte ai terzi in relazione alla costituzione di un patrimonio destinato; la possibilità di ricorrere ad apporti di terzi non ché di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare; la nomina di una società di revisione contabile per il controllo sull’andamento dell’affare, non necessaria qualora questa sia già prevista[51]. La delibera di costituzione del patrimonio destinato che salvo diversa disposizione dello statuto, “è adottata dall’organo amministrativo a maggioranza assoluta dei suoi componenti” deve essere poi depositata ed iscritta nel Registro delle imprese per produrre gli effetti della destinazione[52], consentendo in questo modo di rendere nota ai terzi non solo la costituzione del patrimonio separato ma anche le anzidette regole di funzionamento[53]. Tuttavia, il distacco di una data porzione patrimoniale dal residuo patrimonio generale della società non si produce immediatamente, in quanto è altresì necessario che, nel termine di due mesi dalla suddetta iscrizione nel Registro delle imprese, i creditori sociali anteriori alla stessa non abbiano fatto opposizione[54], o che quest’ultima sia stata respinta o, ancora, che, nonostante l’opposizione, il tribunale disponga che la deliberazione sia comunque eseguita, previa peraltro prestazione da parte della società di idonea garanzia[55]. Nel caso in cui il patrimonio destinato sia composto anche da beni immobili o mobili registrati è necessario altresì che la destinazione allo specifico affare sia trascritta nei rispettivi registri[56]. Nel rispetto di tali disposizioni, quindi, il patrimonio destinato acquisisce autonomia giuridica, vale a dire configurazione di patrimonio separato.

 

  1. 1  Forme e pubblicità della delibera costitutitiva

La destinazione data ad una parte del patrimonio societario per la realizzazione di un singolo affare determina un vincolo incidente sul regime di circolazione e, principalmente, sulla sfera dei terzi creditori apportando una deroga al principio della responsabilità illimi­tata, dato che la destinazione comporta la sottrazione dei beni separati alla garanzia generica dei creditori generali della società, per destinarli alla garanzia specifica dei creditori particolari del patrimonio dedicato per le obbligazioni contratte per intraprendere e realizzare l’affare.

Inanzitutto occorre stabilire se questo vincolo sia opponibile ai terzi[57], posto che sicuramente è opponibile per il fatto che incide pesante­mente sulla posizione dei terzi.

Perché possa realizzarsi questo effetto è indispensabile uno strumento pubblicitario che renda conoscibili i termini dell’operazione che la società intende compiere in regime di separazione. Il mezzo pubbli­citario prioritario scelto dal legislatore è quello del deposito e della iscrizione della deliberazione costitutiva nel registro delle imprese, che il primo comma della norma in esame attua richiamando la norma dell’art. 2436 che, per la sua ridondanza rispetto alla fattispecie cui applicarla, rischia di creare soltanto equivoci.

In primo luogo fa nascere il dubbio se la deliberazione in questione costituisca una modifica dello statuto (alle quali si riferisce l’art. 2436), ovvero sia soltanto disciplinata come se lo fosse; per la verità si tratta di un dubbio agevolmente risolvibile nel secondo senso, essendo evidente che la delibera in questione realizza un atto di gestione patrimoniale e non una modifica statutaria, come si deduce dal fatto che la competenza è attribuita al consiglio di amministrazione e non all’assemblea straordinaria, o dal fatto che nell’art. 2328 manca una apposita previsione che consenta la destinazione patrimoniale sin dalla costituzione della società, come sarebbe stato logico ove la costituzione successiva fosse una modifica dello statuto. Ne discende che non è applicabile alla fattispecie l’ultimo comma dell’art. 2436, che richiede, in caso di modifica statutaria il deposito del testo aggiornato.

L’inopportunità del richiamo dell’art. 2436 si manifesta in modo più marcato quando si passa alla procedura che questa norma detta, incentrata sul ruolo del notaio rogante, la cui presenza non è richiesta per la verbalizzazione delle deliberazioni consiliari[58].

Eguale disposizione manca nella norma in esame per cui, in forza del principio della libertà delle forme, la deliberazione costitutiva del pa­trimonio destinato non deve necessariamente assumere la forma di atto pubblico redatto dal notaio.

Rimane inoltre il dubbio se il consiglio che ha deliberato la costi­tuzione di un patrimonio dedicato sia tenuto al rispetto del termine di trenta giorni dettato dall’art. 2436 per il notaio per la richiesta di iscri­zione dalla delibera di modifica dello statuto. Anche sul punto la norma richiamata non trova applicazione, proprio perché si tratta di un atto di gestione patrimoniale i cui effetti, sia nei confronti dei creditori sociali sia nei confronti di tutti i terzi, decorrono dalla data di iscrizione per cui rientra nei poteri dell’or­gano amministrativo scegliere il momento produttivo degli effetti; potere che non può essere attribuito al notaio verbalizzante.

Il condizionamento poi della efficacia della delibera all’iscrizione, nel caso come per tutte le modifiche statutarie[59], risolve, in via generale, un problema controverso nel regime previgente alla legge 24 novembre 2000, n. 340 (quando solo per alcune delibere modificative era prevista questa regola), e si spiega proprio con l’eliminazione del controllo omologatorio da parte del tribunale che rende eccessivamente rischioso l’efficacia immediata della delibera prima della verifica di legittimità da parte dell’Ufficio del registro delle imprese; rischio che si accentua quando manca anche la presenza del notaio che, qualora ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge, non è tenuto a chiedere la iscrizione della delibera da lui verbalizzata, ma solo a dame comunicazione agli amministratori, i quali potrebbero anche azionare una verifica di legalità giudiziaria.

  1. La conclusione del singolo affare e la procedura relativa di cessazione della destinazione

L’art. 2447 novies c.c tratta del momento conclusivo del singolo affare ricollegandolo, alla realizzazione dell’affare stesso o all’impossibilità della sua attuazione; ma è solo nell’ultimo comma, quando aggiunge come momento conclusivo il verificarsi di altre cause estintive previste nella deliberazione costitutiva, che viene indicato con precisione l’effetto che la conclusione dell’affare, comporta, e, cioè, la “cessazione della destina­zione del patrimonio allo specifico affare”, che costituisce la chiave di lettura dell’intera norma.

Ma bisogna osservare che il primo comma della norma in esame, prende in conside­razione soltanto l’aspetto esteriore della pubblicità del venir meno del vincolo di destinazione, trascurando di indicare chi, e con quali mo­dalità, accerta l’avvenuta realizzazione dell’affare cui era stato destinato parte del patrimonio sociale o l’impossibilità della sua realizzazione o il verificarsi di una delle altre cause estintive contemplate nella delibera­zione costitutiva, come se queste circostanze si imponessero per forza propria senza la necessità di un riscontro valutativo[60].

La competenza del consiglio di amministrazione o di gestione a stabilire la conclusione dell’affare la si può durre sia dal fatto che sono questi gli organi competenti a costituire il patrimonio dedicato[61], sia dal fatto che la norma in esame richiede che gli stessi organi, quando si realizza ovvero è divenuto impossibile l’affare cui è stato destinato il patrimonio, redigano un rendiconto finale. Se questa considerazione è esatta, la dottrina ha affermato che non si capisce perché il legislatore non abbia, in primo luogo, utilizzato la stessa terminologia dell’art. 2447-ter cui logicamente si correla parlando di “amministratori o di consiglio di gestione” e non di “consiglio di amministrazione o di gestione”[62], ma, principalmente, perché non abbia richiesto una delibera di tale organo di accertamento della realizzazione dell’affare o dell’impossibilità a realizzarsi.

Indubbiamente la redazione del rendiconto presuppone l’accerta­mento della conclusione della destinazione, ma la mancata previsione di una apposita deliberazione che riproduca la formale dichiarazione, sulla base della constatazione della conclusione dell’affare per una delle cause elencate dalla legge o nell’atto costitutivo, della cessazione della destinazione del patrimonio allo specifico affare, ha determinato una serie di conseguenze.

Prima di tutte la mancata regolamentazione della soluzione di eventuali contrasti.

Le cause tipiche di cessazioni sono costituite dalla realizzazione dell’affare, ossia dal raggiungimento dello scopo prefissato, e dalla impossibilità a realizzarlo, che comprende tutte quelle ipotesi in cui, per una ragione di fatto o di diritto, si crea una situazione oggettiva che non permette di portare a termine l’operazione; a queste si aggiungono le cause di cessazione indicate nella deliberazione costitutiva, che devono essere ancorate a situazioni egualmente oggettive[63].

Questo maggior rigore al momento costitutivo è giustificato dall’importanza dell’oggetto della decisone che incide sulla garanzia pa­trimoniale dei creditori, ma la dottrina ritiene che la cessazione della destinazione che segue all’accertamento della conclusione dell’affare produce gli stessi effetti al contrario, per cui sarebbe stato più coerente prevedere, con una formula idonea a sottolineare la centralità dell’accertamento, una deliberazione degli stessi organi, con le stesse maggioranze richieste per la deliberazione costitutiva.

Altra conseguenza dell’impostazione legislativa che non richiede una deliberazione di accertamento della conclusione dell’affare o dell’im­possibilità a realizzarsi è la carenza di mezzi di tutela da parte dei cre­ditori. Questi, infatti, non possono impugnare, né opporsi in qualche modo, al rendiconto finale di cui parla la norma perché nulla in proposito è previsto.

In questo modo si è attribuita all’rgano amministrativo la libertà assoluta di far cessare la destinazione patrimoniale quando crede. Non esistendo, infatti, un termine entro cui constatare la realizzazione dell’affare o la impossibilità della sua realizzazione, la separazione patrimoniale può sopravvivere giuridicamente a questi eventi a scelta dell’organo amministrativo, e, così, di contro, basta che l’affare vada non come preventivato che questo, a maggioranza dei presenti, può deliberare l’impossibilità di esecuzione senza che i creditori possano fare alcunché per far continuare l’affare ancora realizzabile o, in caso contrario, per far cessare il regime di separazione[64].

Inoltre ancora più carente di tutela appare la previsione in esame se si considera che la norma richiede un’unica relazione e non una del collegio sindacale quale controllore della gestione e una di chi esercita il controllo contabile come è reso chiaro già dalla lettera della legge, che parla al singolare di rendi­conto “accompagnato da una relazione dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile”, nel mentre se fossero stati diffe­renziati i poteri di questi due organi si sarebbero dovute chiedere due relazioni[65], come nell’art. 2429, ove si parla di una relazione del collegio sindacale al bilancio e di analoga relazione predisposta dal soggetto incaricato del controllo contabile.  Questo significa che la norma richiede la relazione non dell’organo che esercita il controllo sulla gestione, bensì di quello che esercita il controllo sulla regolarità contabile, che in nessun modo può garantire i credi tori da errate o fraudolente valutazioni degli amministratori circa la cessazione dell’affare. E che il primo comma dell’art. 2447-novies richieda esclusivamente la relazione dell’organo che esercita il controllo contabile lo si deduce, in primo luogo, dalla previsione congiunta dei “sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile”, senza invece elencare il consiglio di sorveglianza e il comitato di controllo che, rispettivamente nelle società con amministrazione dualistica e monistica, esercitano il controllo sulla gestione, riservato al collegio sindacale soltanto nelle società col sistema tradizionale di amministra­zione; diversamente opinando, nei casi di regime di amministrazione alternativa sarebbe sufficiente la relazione dell’organo di controllo contabile, nel mentre nel sistema tradizionale di amministrazione sa­rebbe richiesta anche la relazione dell’organo di controllo sulla ge­stione, creando una ingiustificata disparità. Quando perciò il legislatore nella norma in esame parla dei sindaci e li accomuna al soggetto incaricato della revisione contabile, intende far riferimento al collegio sindacale nella funzione di organo di controllo contabile, posto che questo può essere esercitato da un revisore contabile o da una società di revisione o anche dal collegio sindacale in presenza dei requisiti indicati dall’ultimo comma dell’art. 2409-bis[66].

Il regime di responsabilità,  gli effetti della procedura fallimentare e i finanziamenti destinati

 

  1. Le facoltà di scelta del regime di responsabilità

Instaurato il regime di separazione patrimoniale, “i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare né, salvo che per la parte spettante alla società, sui frutti o proventi da esso derivanti[67]” e “per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato”[68].

Si viene a produrre allora un’insensibilità del patrimonio destinato verso le obbligazioni che la società contrae che non riguardano il patrimonio separato. Enucleando una porzione del patrimonio sociale, questa non rientra più nella garanzia patrimoniale della società, e di conseguenza i creditori “generali” non potranno più rivalersi su quel patrimonio o su altri patrimoni destinati, ma soltanto su quello residuo, pur potendo aggredire i frutti e i proventi derivanti da essi per la sola quota di competenza della società[69] (sui quali, quindi, non opera il vincolo di destinazione).

D’altro canto, i creditori “particolari” del patrimonio destinato e gli eventuali creditori del patrimonio generale le cui obbligazioni siano state trasferite, in sede di deliberazione, al patrimonio separato possono soddisfare soltanto su di esso le loro ragioni, non potendo aggredire né il patrimonio residuo, salve le eccezioni che si introdurranno a breve, né altri patrimoni destinati eventualmente istituiti. Ciò significa che delle obbligazioni contratte per lo svolgimento dello specifico affare rispondono solo i beni che fanno parte del patrimonio destinato, siano essi originariamente compresi o successivamente introdotti. Da qui, anzitutto, la necessità di indicare specificamente nella delibera istitutiva del patrimonio destinato i beni e i rapporti giuridici che lo compongono[70], in modo da mettere a conoscenza i creditori preesistenti degli elementi patrimoniali sottratti alla loro garanzia patrimoniale e, in guisa complementare, i creditori particolari dei beni a base della loro specifica garanzia.

Adempiuti gli oneri pubblicitari relativi alla fase costitutiva del patrimonio destinato con il deposito della delibera istitutiva presso il Registro delle imprese, è poi necessario che in tutti gli atti compiuti in relazione allo specifico affare sia sempre espressamente indicato ed univocamente individuabile il relativo vincolo di destinazione[71], atteso che la costituzione del patrimonio separato non determina l’insorgenza di una soggettività giuridica autonoma, né comporta di per sé l’istituzione di organi di governo autonomi.

Soltanto assolvendo tali supplementari adempimenti pubblicitari, relativi alla fase operativa del patrimonio destinato, è possibile, infatti, portare i creditori a conoscenza dei movimenti e quindi dell’appartenenza o meno dei beni e dei rapporti giuridici che entrano o che escono dal patrimonio destinato. Inoltre, pur non essendo stabilito nulla dalla normativa, si ritiene fondamentale specificare — mediante una preventiva indicazione nella delibera istitutiva del patrimonio destinato il regime di responsabilità di quegli atti compiuti sia in relazione all’affare speciale che all’attività generale d’impresa[72].

Quindi, con l’instaurazione della separazione patrimoniale, da un lato si viene a derogare al tradizionale principio di unità e indivisibilità del patrimonio e dall’altro, soprattutto, si derogano o perlomeno si ridimensionano i principi generali della responsabilità patrimoniale, cioè del patrimonio come garanzia generale di tutti i creditori (art. 2740 c.c.) e il principio della parcondicio dei creditori (art. 2741 c.c.)[73].

Peraltro, la disciplina prevede alcune ipotesi di “permeabilità” in presenza delle quali la suddetta autonomia patrimoniale non è più “perfetta” o simmetrica. In tali situazioni, ai soli creditori particolari di un dato patrimonio destinato è concessa la possibilità di rivalersi anche sul restante patrimonio generale della società, non comprensivo appare appena il caso di precisarlo di eventuali altri patrimoni separati esistenti[74]. Si tratta, quindi, di deroghe della responsabilità limitata (che è già una deroga all’anzidetto principio di cui all’art. 2740 c.c.) per così dire “a senso unico”, atteso che non è prevista alcuna ipotesi di responsabilità del patrimonio destinato anche per le obbligazioni generali della società, per cui i creditori ad essi afferenti (creditori generali), non potendo rivalersi sul patrimonio destinato, risultano certamente penalizzati rispetto a quelli particolari.

Ribadito che la responsabilità patrimoniale limitata derivante dall’applicazione del modello in esame trova già una particolare eccezione nella deroga prevista per quella parte del patrimonio destinato corrispondente alla quota di utile di pertinenza della società (aggredibile dai creditori generali)[75], è possibile individuare tre diverse ipotesi da cui può scaturire una responsabilità anche del patrimonio generale residuo rispetto alle obbligazioni assunte con il patrimonio destinato.

Anzitutto, essa può ricondursi ad un’espressa indicazione in tal senso contenuta nella deliberazione costitutiva del patrimonio destinato (c.d. deroga convenzionale), che può anche stabilire una misura massima (in valore assoluto o in termini percentuali del debito), e quindi comunque limitata, di estensione della responsabilità al patrimonio residuo[76].

Un’ulteriore ipotesi di responsabilità illimitata prevista dalla norma è quella relativa al caso in cui le obbligazioni sorte in relazione allo specifico affare derivano da fatto illecito[77]. In simili circostanze appare chiaro estendere con scopo sanzionatorio l’esposizione della società debitrice a tutto il suo patrimonio nei confronti dei c.d. creditori involontari, ossia di coloro che non hanno scelto il proprio debitore[78].

Infine, e in via residuale, una deroga alla simmetria dell’autonomia patrimoniale delle differenti porzioni di patrimonio gemmanti dall’applicazione dello schema in esame si realizza in caso di mancata menzione del vincolo di destinazione negli atti compiuti in relazione allo specifico affare[79]. Più in generale, vi è chi ritiene che ciò possa altresì verificarsi in tutte quelle situazioni in cui la società non ha adempiuto conformemente le disposizioni contenute nella disciplina dei patrimoni destinati[80].

In tutte queste ipotesi, la separazione patrimoniale non si realizza e i creditori particolari possono agire sul patrimonio generale della società in qualsiasi momento. Si ritiene, peraltro, condivisibile in dottrina in assenza di una previsione disciplinare l’opinione di chi afferma la necessità di una preventiva escussione del patrimonio destinato, ovvero di una responsabilità sussidiaria del patrimonio generale residuo[81].

1.1 Deroghe al principio di responsabilità limitata

La concentrazione della responsabilità sociale verso i creditori particolari esclusivamente sul patrimonio destinato ha però due eccezioni: una diversa previsione nell’atto deliberativo e le obbligazioni nascenti da atto illecito.

La prima ipotesi si basa su una scelta societaria, in quanto la norma consente alla società di indicare, al momento della costituzione del patrimonio destinato, se risponderà per le obbligazioni contratte in relazione al singolo affare con il solo patrimonio destinato oppure anche con il patrimonio sociale, senza richiedere un’espressa opzione per una responsabilità sussidiaria, che comporti una vana e preventiva escussione del patrimonio destinato[82]. La responsabilità illimitata della società è inoltre fatta espressamente salva in caso di obbligazioni derivanti da fatto illecito[83].

Il creditore in questo caso ha il diritto di ottenere un risarcimento del danno che la società ha causato nel corso della realizzazione dell’affare e nel richiedere l’adempimento di questa obbligazione risarcitoria non potrà mai vedersi opporre dalla società la limitazione di responsabilità che consegue alla creazione del patrimonio destinato, ma potrà soddisfarsi e quindi compiere azioni esecutive su tutti i beni sociali[84].

L’estensione della responsabilità illimitata alle sole obbligazioni derivanti da illecito extracontrattuale trova una valida giustificazione nella distinzione tra creditori volontari, che contrattualmente hanno accettato di soddisfarsi sui beni gravati dal vincolo di destinazione, e creditori involontari che, non avendo scelto il proprio debitore, non possono vedersi opporre la limitazione di responsabilità derivante dalla segregazione patrimoniale, anche se il danno è stato causato nello svolgimento dell’affare alla cui esecuzione il patrimonio è destinato.

Tutto ciò comporta da un lato che il creditore danneggiato a causa di un illecito extracontrattuale commesso nell’esecuzione del singolo affare può aggredire qualsiasi bene della società non potendogli essere opposta la limitazione di responsabilità, non essendo nel caso la responsabilità illimitata frutto di una scelta, ma determinata dalla legge che ha voluto porre i creditori per fatto illecito, quindi involontari, in una situazione privilegiata rispetto agli altri, in quanto per essi è come se il patrimonio destinato non fosse mai esistito.  Con la disposizione dell’art. 2447-quinques il legislatore ha voluto introdurre nel nostro ordinamento una tendenza del tutto innovativa, già abbondantemente conosciuta nell’ordinamento statunitense, che opera la distinzione tra fonte contrattuale ed extracontrattuale dell’obbligazione e basa su tale distinguo l’utilizzo, o meno del privilegio della limitazione di responsabilità[85].

 

1.2 I creditori involontari

Un’altra categoria di creditori a venire in rilievo è quella dei creditori involontari della società, vale a dire, i creditori divenuti tali a seguito di un evento illecito, questa volta compiuto dalla società nel perseguimento dello scopo sociale. Prima della riforma societaria la posizione dei creditori facenti parte di questa categoria non rilevava in maniera particolare. Dopo l’introduzione dei patrimoni destinati e il configurarsi di più categorie di creditori in relazione allo stesso soggetto, ci si deve chiedere quale sia il trattamento ad essi riservato ed, in particolare, se questi, di cui non vi è traccia nella disciplina, possano fare valere le rispettive ragioni di credito oltre che sul patrimonio della società, anche sul patrimonio destinato, se, in particolare valga per essi la medesima regola dettata per i corrispondenti creditori da illecito del patrimonio destinato.

Ma va rilevato che, quest’ultimo, lungi dall’essere dotato di autonoma soggettività, rappresenta piuttosto un bene della società, produttivo e dinamico, ma pur sempre nella disponibilità dell’ente costituente per cui non si ravviserebbero motivi ostativi alla possibilità che i creditori di questo si soddisfacciano anche sul patrimonio separato. Inoltre, non consentire ai creditori generali da illecito di soddisfarsi anche sui beni del compendio rappresenterebbe una disparità di trattamento tra le vittime di illeciti da attività generale e quelle da attività separata.

Tuttavia, una simile interpretazione lascia perplessi perché tradirebbe la logica della separazione: essa dovrebbe operare anche nei confronti dei creditori involontari della società, a meno che la delibera costitutiva non preveda (e ciò costituirà base d riflessione per i finanziatori del patrimonio destinato) che per gli illeciti della società risponda anche il patrimonio destinato[86].

  1. I finanziamenti destinati: cenni introduttivi

Dal 1942 sino ad oggi abbiamo assistito ad un fenomeno di proliferazione degli strumenti attraverso i quali le società per azioni ricercano il finanziamento delle proprie attività sul mercato dei capitali.

Al momento del varo del codice civile tali strumenti erano rappresentati fondamentalmente dalle azioni e dalle obbligazioni[87].

Negli anni però, il richiamo dell’interesse degli investitori tramite l’offerta di una gamma sempre più vasta di forme di investimento, ha portato al riconoscimento legislativo di strumenti diversi che, tendendo a coprire gli spazi tra azioni e obbligazioni, hanno anche caratteristiche ambivalenti[88].

La recente riforma di diritto societario si è inserita a pieno in questa tendenza, con l’obiettivo, sancito nella legge delega, di favorire l’accesso delle imprese, e delle società per azioni in particolare, ai mercati interni e internazionali dei capitali, tramite la semplificazione e la concessione di un’ampia autonomia statutaria, e pervenendo così ad una larga atipicità delle forme in cui il ricorso al mercato dei capitali può esplicarsi.

I non meglio identificati strumenti finanziari di cui agli artt. 2346 e 2349 ne sono l’esempio più significativo.

A tal proposito va notato come la nozione di strumento finanziario è in via di principio amplissima (si veda l’art. 1, 2° comma, del d.lgs. n. 58 del 1998) e abbraccia, in particolare, le azioni e le obbligazioni, dalle quali pertanto questa indicazione non è in grado di distinguerli affatto. Ne possiamo trarre pertanto, soltanto una nozione negativa: questi strumenti finanziari vogliono essere qualcosa di diverso dalle azioni e dalle obbligazioni, qualcosa che si aggiunge a queste.

Gli strumenti finanziari riemergono poi nella disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare.

L’art. 2447-ter prevede, alla lett. d), la possibilità di apporti di terzi all’affare e, alla lett. e), “la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che attribuiscono”[89].

Tuttavia sia l’art. 2477 septies che ter si collocano nell’ambito della disciplina dei patrimoni destonati e non assumano, la veste di disciplina generale di questa novità legislativa.

 Ci si chiede allora in dottrina qual è dunque la sistemazione degli strumenti finanziari nel modello delle società per azioni. Sicuramente non rappresentano una partecipazione al capitale. Va notato che in primo luogo, le obbligazioni non hanno rilevanza statutaria (a meno che non si tratti di obbligazioni convertibili, che costringono a deliberare l’aumento del capitale a servizio). Gli strumenti finanziari, invece, per l’art. 2346 trovano la loro disciplina nello statuto, anche se poi, da una parte l’art. 2349 tace sul punto lasciando il dubbio che, per gli strumenti attribuiti ai dipendenti, l’assemblea straordinaria, cui viene attribuita la competenza per lìemissione, possa disporre in merito; e dall’altra parte, l’art. 2447-ter fa ritenere che competente sia addirittura il consiglio d’amministrazione o di gestione[90].

In secondo luogo, le obbligazioni trovano un limite all’emissione nel doppio del capitale sociale (art. 2412), limite che non sembra sussistere per l’emissione di strumenti finanziari .

In terzo luogo, le obbligazioni non consentono ai loro portatori di interloquire sugli aspetti organizzativi della società, mentre ai possessori di strumenti finanziari è possibile attribuire un diritto di voto e in particolare il diritto di nominare un componente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o un sindaco. In quarto luogo, le obbligazioni sono emesse sempre e soltanto a fronte del versamento di una somma di danaro. Gli strumenti finanziari possono essere emessi anche a fronte di un apporto di opera o servizi.

  1. Aspetti peculiari dei finanziamenti destinati: il contratto di finanziamento

Nella iniziale classificazione dei modelli di patrimonio separato previsti dalla nuova disciplina è disposto che la società possa, oltre che destinare parte del suo patrimonio alla realizzazione di un singolo affare così riducendo il rischio relativo, anche far confluire nella società, per uno specifico affare, nuovi mezzi finanziari di terzi che, come forma di garanzia per il rimborso, ricevono la prioritaria destinazione dei proventi dell’affare stesso, sicché il patrimonio separato, in questo caso, è destituito dai proventi dell’affare[91].

È questa la fattispecie contemplata nella lett. b) del primo comma dell’art. 2447-bis e ripresa nell’art. 2447-decies, che trova la sua fonte non in una deliberazione societaria costitutiva del patrimonio dedicato, ma in un contratto di finanziamento di uno specifico affare della società mutuataria, la cui caratteristica sta non nel finanzia­mento, bensì nelle modalità del rimborso attraverso i proventi dell’af­fare finanziato che, a questo scopo, vanno tenuti separati da quelli derivanti dalle altre operazioni della società e vanno sottratti alla garanzia degli altri creditori diversi dal finanziatore fin quando questi non è soddisfatto; di modo che il patrimonio separato che si costituisce nella fattispecie non è, composto da beni e rapporti giuridici, ma dai proventi derivanti dall’affare finanziato e non è a disposizione di tutti i creditori partico­lari per le obbligazioni correlate al singolo affare, ma solo a tutela del creditore che ha effettuato il finanziamento.  In questo modo il legislatore ha fatto un altro passo avanti nel superamento del principio della universalità della responsabilità patri­moniale, permettendo una ulteriore limitazione oggettiva, non più ancorata, come nell’altro modello di patrimonio separato, a parte dei beni materiali nella loro consistenza statica, il cui valore rimane come garanzia anche in caso di scarsa redditività dell’affare, ma collegata a valori flottanti e dinamici quali sono i proventi dell’operazione e, quindi, alla redditività della stessa; nonché un’ulteriore restrizione soggettiva essendo il beneficiario della separazione solo il soggetto che ha erogato il finanziamento e non la categoria dei creditori correlati al singolo affare[92].

La differenza so­stanziale è che, nelle operazioni di finanza di progetto, al fine di isolare i suddetti flussi di cassa dalle altre attività è costituito non un patrimo­nio separato ma un’apposita società di progetto che ha il compito di sviluppare l’iniziativa e di beneficiare delle risorse finanziarie necessarie alla sua realizzazione; il finanziamento, quindi, non è diretto ad una società esistente, ma va a beneficio di una società di nuova costituzione, giuridicamente distinta da quella dei promotori del progetto, che risponde verso i creditori con l’intero suo patrimonio[93].

Sotto l’aspetto della separazione il patrimonio dedicato finanziario in esame si avvicina di più alla cartolarizzazione, con riferimento alla posizione della società cessionaria o veicolo che ha acquistato dei crediti con remissione di strumenti finanziari, collocati presso il pubblico, ov­vero presso investitori professionali, il cui rimborso è garantito dall’am­montare dei crediti ceduti. Qui le somme corrisposte dai debitori ceduti formano un patrimonio separato in quanto sono destinate in via esclusiva al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto, così come nella fattispecie in esame, ove i proventi dell’affare formano un patrimonio separato destinato alla soddisfazione esclusiva dei diritti di chi ha erogato il finanziamento. I portatori dei titoli emessi dalla società veicolo sopportano il rischio che dalla escussione dei debitori ceduti non si ricavi il necessario per la loro soddisfazione così come il finanziatore sopporta il rischio inerente all’affare finanziato e gli uni come l’altro non possono aggredire il residuo patrimonio della società.

I due fenomeni possono incrociarsi ma non sovrapporsi, a meno che lo specifico affare non consista proprio nella liquidazione di un credito o di una massa di crediti, il che non sembra rientrare nella previsione legislativa dato che a questa funzione sopperisce appunto la cartolarizzazione; questa invece può intersecarsi con il patrimonio dedicato in esame in quanto questo modello non tollera remissione di strumenti finanziari partecipativi destinati alla circolazione essendo consentita solo la cartolarizzazione dei crediti, giusto il disposto del penultimo comma della norma in esame[94].

Gli elementi che, quindi, prima ancora della separazione, convivono e si intrecciano nella fattispecie in esame sono: il contratto di finanziamento, lo specifico affare, i proventi dell’affare, il rimborso del finanziamento.

Contratto di finanziamento è un nomen riferibile a tutti i negozi che possono servire a fornire, per un tempo determinato, disponibilità finanziarie per una finalità convenzionale, in cui assumono rilievo, da un lato, le modalità della creazione della disponibilità finanziaria, e, dall’altro, la destinazione obbligata della provvista. È difficile dire se la finalizzazione del finanziamento al singolo affare assurga a livello di vincolo di scopo perché nella norma non si parla di un vincolo legale di destinazione del finanziamento; tuttavia, se si considera che il finanziamento è concesso in funzione della con testuale rappresentata finalità commerciale e che il rimborso dello stesso avviene con i proventi dell’affare finanziato, è difficile non ipotizzare per la società beneficiaria un obbligo di destinazione di quanto ricevuto all’affare per la cui realizzazione è eseguito il finanziamento, il cui inadempimento rileva sul piano della risoluzione contrattuale[95].

Lo specifico affare finanziato può essere un’operazione qualunque rientrante nell’oggetto sociale; normalmente sarà un affare nuovo, nel senso di diverso da quelli in corso, come si evince dalle caratteristiche che deve avere il contratto di finanziamento e costituzione del patri­monio separato, ma il requisito della novità non è espressamente richiesto dalla legge né si può ricavare dall’aggettivazione dell’affare come “specifico”, che sta ad indicare che l’operazione deve essere determinata nei suoi vari aspetti[96].

Il rimborso del finanziamento può essere totale o parziale. Vi è chi ritiene che la norma in esame e quella di cui all’art. 2447-bis lett. b) vogliono dire che il rimborso con il sistema della separazione può riguar­dare l’intero credito del finanziatore o parte dello stesso, ma non è chiaro, in questo secondo caso, quale sia la sorte del residuo credito; ossia non è palese se il finanziatore e la società finanziata possono convenire che il finanziamento effettuato sia rimborsato in parte con i proventi derivanti dall’operazione finanziata, e in parte con i normali mezzi societari così come tutte le altre obbligazioni, ovvero se la previsione del rimborso parziale esau­risce il debito, dovendosi ritenere che il restante finanziamento, esclusi casi di liberalità, costituisca apporto di partecipazione o di cointeres­senza all’affare, da realizzare non sul residuo patrimonio sociale, ma sull’eventuale surplus dei proventi derivanti dall’affare rispetto al rim­borso programmato. La differenza tra queste due ipotesi non è di poca importanza perché, nella prima, l’andamento del singolo affare condiziona soltanto la parte di finanziamento rimborsabile con il patrimonio sepa­rato, nella seconda la sorte dell’intero finanziamento dipende dal buon esito dell’affare[97].

La fase costitutiva è identificata dunque nel contratto tra società e finan­ziatore e il secondo comma della norma in esame indica il contenuto del negozio che chiarisce i rispettivi ruoli.

In primo luogo è richiesta la descrizione dell’operazione che consenta di individuarne lo specifico oggetto; ossia l’indicazione dell’affare per la cui realizza­zione viene effettuato il finanziamento, corredata da una parte descrit­tiva che consenta non solo di identificare ma di valutare la finalità che si intende raggiungere e la sua capacità di generare flussi di cassa, che, connessi alla gestione del progetto, costituiscono la fonte primaria per il rimborso del debito e per la remunerazione del capitale di rischio. In un sistema economico incentrato sempre meno sul valore d’uso dei beni e sempre più sul loro valore di scambio, anche la tutela del credito si è evoluta passando dalle garanzie tipiche reali, basate appunto sul valore di mercato realizzabile dalla vendita dei beni offerti in garanzia, a forme di garanzie fondate sulla capacità produttiva del debitore o, come nel caso, di un singolo affare, in cui i beni assumono rilievo per la loro destinazione ad una determinata attività, il cui reddito diventa la fonte primaria di garanzia satisfattiva per i creditori.

In questo sistema è necessario che il progetto prospettato venga valutato dai finanziatori principalmente per la sua capacità di generare proventi, ed a questo scopo è richiesta l’indicazione delle modalità e dei tempi di realizzazione, nonché dei costi previsti e dei ricavi attesi[98].

La parte più interessante, sotto il profilo giuridico, della lett. b) del secondo comma, che richiede il piano finanziario è quella in cui precisa che esso deve indicare “la parte coperta dal finanziamento e quella a carico della società”, che fa capire come la struttura dell’operazione venga definita attraverso un processo di negoziazione tra i diversi soggetti coinvolti in merito alla ripartizione dei rischi dell’iniziativa. È chiaro che un finanziamento deve esserci, perché su esso poggia la fattispecie, ma la norma rileva che, una volta individuato l’affare e stabilite le risorse finanziarie necessarie per la realizzazione, queste possono essere messe a disposizione, in parte o integralmente, dal finanziatore, senza alcuna limitazione.

Se il terzo finanzia in parte l’affare, vuol dire che la restante parte è a carico della società ma, ovviamente, beneficiario del rimborso a mezzo patrimonio separato alimentato dai proventi può essere esclusi­vamente il finanziatore terzo e non certo la società che, ha diritto agli utili distribuibili dell’affare.

L’assunzione da parte del terzo dell’onere dell’intero finanziamento presuppone, invece, che la società impieghi, a sua volta, delle risorse patrimoniali, altrimenti si limiterebbe a gestire l’affare per conto terzi.

Ed, infatti, l’impiego di risorse è previsto in via generale, indipen­dentemente cioè dall’entità del finanziamento, dalla lett. c), che richiede che il contratto deve indicare[99] “i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione”. Per la verità questa indicazione non ha una precisa spiegazione perché su questi beni non si crea alcun vincolo di destinazione (altrimenti si avrebbe un patrimonio dedicato del modello a) inserito in quello del modo b)), per cui l’elencazione degli stessi ha il solo scopo di completare le modalità dell’esecuzione dell’affare nell’interesse esclusivo del finanziatore che, in tal modo, può meglio valutare la disponibilità e serietà della società e il rischio di credito[100], ma resta fermo che questi beni non sono vincolati ad una destinazione specifica.

Ciò nonostante detti beni strumentali, per il fatto di essere stati contrattualmente considerati come “necessari” alla realizzazione dell’affare, non possono essere liberamente aggrediti dai ereditari sociali come le altre componenti del patrimonio sociale; dispone, infatti, il comma quinto della norma in esame che fino al rimborso del finanziamento o fino alla scadenza del termine massimo previsto per il rim­borso, i creditori della società “sui beni strumentali destinati alla realizzazione dell’affare possono esercitare esclusivamente azioni con­servative a tutela dei loro diritti”. Divieto di azioni esecutive che, se si spiega nell’ottica di non sottrarre all’affare finanziato i beni ritenuti indispensabili per la sua realizzazione, non è ben coordinato con la tutela dei creditori sociali, i quali si vedono privati del diritto di realizzazione coattiva del credito su alcuni beni senza aver avuto alcuna possibilità di interferire sulle scelte in proposito fatte dalla società e senza essere indirettamente garantiti da limiti e contrappesi legali. Non essendo infatti prefissato un rapporto proporzionale tra il valore dei beni strumentali destinati, ma non vincolati, alla realizzazione dell’af­fare e l’importo del finanziamento o il valore dell’intero affare, la società è libera di individuare, a suo giudizio discrezionale o d’accordo con il finanziatore, i beni che ritiene necessari all’operazione, che, una volta qualificati come tali nel contratto di finanziamento, vengono automaticamente sottratti alla esecuzione dei creditori, con la possibi­lità di agevoli frodi in danno dei creditori sociali[101].

Al patrimonio separato e, quindi al rimborso, può essere destinato anche una parte dei proventi e non la totalità degli stessi, ed anche questa precisazione deve essere contenuta nel contratto (lett. f), ove, non è richiesto, invece, l’indicazione della parte di finanziamento che va rimborsata con i proventi.

Ulteriore indicazione da inserire nel contratto costitutivo è quella riguardante le “eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento” (di cui parla la lett. g), che sono comple­tamente diverse dalle garanzie già esaminate per la esecuzione del contratto e la corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione di cui alla lett. d). Queste ultime sono finalizzate a garantire il finanziatore dell’esecuzione, e possono essere quelle normalmente richieste a questo scopo quale una cauzione, una penale per il ritardo, ecc., le prime, invece, sono le garanzie a tutela del rimborso del credito, che possono essere le più varie, di carattere personale o reale.

Il riferimento della norma al “rimborso di parte del finanziamento” fa capire, che questa garanzia non può riguardare l’intero credito, ma solo parte dello stesso essendo la fonte del rimborso costituita dai proventi a questo scopo destinati[102]; ma al di là di questa indicazione di fondo la norma non fornisce altra spiegazione. In particolare non chiarisce se la “parte” di finanziamento garantita è la stessa al cui rimborso è destinato il patrimonio separato o la parte non coperta dalla destinazione data ai proventi, visto che il finanziamento potrebbe non essere integralmente rimborsabile con detto sistema; né chiarisce se sia configurabile la garanzia quando al rimborso venga destinata soltanto una parte dei proventi.

La norma non chiarisce neanche qual’è il rapporto tra il patrimonio separato e la garanzia, se cioè esista una sussidiarietà di escussione di quest’ultima rispetto alla soddisfazione del creditore a mezzo dei pro­venti segregati, ma questo si spiega con il fatto che il patrimonio separato è costituito da flussi finanziari per cui non sorge un problema di pre­ventiva escussione dello stesso ed il ricorso alla garanzia è implicitamente collegato al mancato pagamento alla scadenze pattuite[103]. Tutti questi elementi indicati individuano, nel loro insieme, l’og­getto del contratto di costituzione di patrimonio separato finanziario, che deve rispondere a questi requisiti richiesti dalla legge come essen­ziali per la sua costituzione, per cui la mancanza di uno di essi può essere configurata causa di nullità contrattuale ai sensi del combinato disposto degli artt. 1346 e 1418 c.c. Questa questione può essere sollevata sicuramente dalle parti, mentre la legittimazione dei creditori ad impugnare l’atto va esaminata in relazione a ciascuna prescrizione perché non tutte giustificano un loro interesse ad agire essendo alcuni elementi dettati nell’esclusivo interesse di una delle parti. Trovando questo modello di separazione la fonte in rapporto contrattuale tutti i contrasti tra le parti  società e finanziatore  vanno risolti alla luce del vincolo negoziale sinallagmaticamente assunto.

La fase costitutiva della separazione finanziaria, a differenza di quella operativa, non interessa i creditori preesistenti perché essi non risentono alcun pregiudizio dalla costituzione del patrimonio separato dato che non si sottrae ad essi una parte del patrimonio sociale da destinare alla garanzia esclusiva dei creditori particolari, ma si regolamenta il rimborso di un finanziamento erogato per un singolo affare con i proventi futuri che deriveranno da quell’affare.

Poiché nella specie il patrimonio separato è costituito non da beni materiali nella loro consistenza statica sui quali viene posto un vincolo di destinazione, ma da flussi economici costituiti dai futuri proventi dell’affare, ciò che rileva, per la costituzione ed la permanenza del patrimonio separato, non è la tutela dei creditori pregressi, ma la possibilità di creare e mantenere una contabilità separata di detti flussi[104].  Un altro aspetto peculiare da affrontare riguarda il quesito di cosa succede se nel corso dell’esecuzione dell’af­fare si realizzi la inadeguatezza del sistema di contabilizzazione richie­sto. Da questo momento cessa la separatezza, con effetti, presumibilmente, anche sui proventi fino allora accantonati nel patrimonio separato che, non esistendo più, non può più costituire la garanzia solo per un creditore. La cessazione della destinazione e della separatezza fa saltare tutte le modalità convenute del rimborso, per cui il finanziatore potrebbe immediatamente chiedere la restituzione in applicazione della disposizione di cui all’art. 1183 c.c. e del principio quod sine die debetur statim debetur, o quanto meno, chiedere la fissazione al giudice di un termine[105].

Rispettate le due condizioni di cui si è finora parlato, “i proventi dell’operazione costituiscono patrimonio separato da quello della so­cietà, e da quello relativo ad ogni altra operazione di finanziamento effettuata ai sensi della presente disposizione”. Il legislatore si preoccupa poi di spiegare nel comma successivo l’effetto della separazione, ampliando l’oggetto del patrimonio separato già individuato nei pro­venti dell’ operazione. Dispone, infatti il comma quarto che “alle con­dizioni di cui al comma precedente, sui proventi, sui frutti di essi e degli investimenti eventualmente effettuati in attesa del rimborso al finan­ziatore, non sono ammesse azioni da parte dei creditori sociali; alle medesime condizioni, delle obbligazioni nei confronti del finanziatore risponde esclusivamente il patrimonio separato, tranne l’ipotesi di garanzia parziale di cui al secondo comma, lett. g)”.

Nel patrimonio separato confluiscono non solo i proventi dell’affare ma anche tutto ciò che questi producono, siano essi i frutti diretti che quelli indiretti, derivanti dagli investimenti effettuati con proventi dell’affare in attesa del rimborso. Se per l’individuazione dei frutti diretti non sorgono problemi, essendo essi costituiti dagli interessi prodotti dalle somme destinate al patrimonio separato, qual­che difficoltà la creano gli investimenti. In primo luogo la norma, seguendo il solito sistema di legiferazione per implicito, fa capire che i proventi dell’affare non debbano restare immobilizzati fino al momento del rimborso, ma possono essere investiti, ma il fatto è che non dice, neanche implicitamente, con quali modalità né quale tipo di investi­mento possa essere effettuato[106].

Sembra chiara la lettera della norma nel far rientrare nel patrimo­nio separato non l’investimento effettuato con i proventi segregati, ma i frutti di detto investimento; il che evidenzia ancor più la necessità del consenso del creditore dato che potrebbe non esserci equivalenza tra somme investite e frutti realizzati, fermo restando che il realizzo del disinvestimento ritorna nel patrimonio separato, sempre che non sia scaduto il termine di rimborso di cui alla lett. h) del secondo comma. È chiaro, infatti, che deve trattarsi di investimenti non a lunga durata in quanto “effettuati in attesa del rimborso al finanziatore” allo scopo di incrementare il patrimonio separato destinato al rimborso, per cui è con il termine a questo scopo stabilito che va coordinato il termine dell’operazione di investimento.

Nulla è detto circa la sorte, nel frattempo, dei beni costituenti l’investimento effettuato nel periodo. Dovrebbero anch’essi far parte del patrimonio separato  ma questo significa limitare gli investimenti a quelli di carattere finanziario, dato che un bene materiale acquistato con i proventi dell’affare non potrebbe entrare nel patrimonio separato di tipo finanziario  oppure, posto che si tratta pur sempre di beni acquistati con i proventi destinati alla soddisfazione del finanziatore dovrebbero, quanto meno, essere sot­tratti alle azioni esecutive dei credi tori sociali, come i beni strumentali destinati alla realizzazione dell’affare di cui alla lett. c)[107].

Il comma quarto dell’art. 2477 decies c.c. è chiaro nel definire una separazione perfetta bilaterale, in quanto, da un lato, sottrae i proventi (ed i suoi frutti) dell’affare all’aggressione dei credi­tori (sociali o particolari) essendo gli stessi destinati alla soddisfazione esclusiva del finanziatore, il quale, dall’altro, può soddisfarsi soltanto sui proventi costituenti il patrimonio separato e potrà usufruire delle garanzie prestate per il rimborso. In tal modo si realizzano gli interessi sottesi a questa operazione; la società ha, infatti, la possibilità di reperire capitali per intraprendere iniziative imprenditoriali senza coin­volgere l’intero patrimonio e senza alterare l’assetto preesistente e il finanziatore di effettuare investimenti sulla base di un rischio calcolato e avendo a disposizione per il rimborso un programmato flusso di danaro a lui esclusivamente destinato

  1. Stato d’insolvenza del patrimonio destinato ed effetti sul patrimonio della società

La Legge delega 366/01 nel dettare la disciplina “mi­nima” da implementare con riguardo all’istituto dei patri­moni destinati ad uno specifico affare, prevedeva che la ri­forma, tra l’altro, fosse diretta a “disciplinare il regime di re­sponsabilità per le obbligazioni riguardanti detti patrimoni e la relativa insolvenza”. Se con riguardo al regime di responsabi­lità sembra essere stata delineata dal Legislatore delegato una disciplina sufficiente, anche se non priva di lacune, carenti invece sembrano le norme in tema di insolvenza del patrimonio destinato e, più in generale, della società che ha istituito uno o più patrimoni destinati[108].

In particolare, non è stata prevista alcuna disposizione concorsuale in merito alla possibilità d’in­solvenza del singolo patrimonio destinato. Dinanzi a tale ipotesi, infatti, la disciplina in esame, all’ art. 2447 novies, co. 2, c.c., dopo aver affermato la necessità di procedere alla liquidazione del patrimonio destinato, si limita a stabilire che “In tal caso si applicano esclusivamente le disposi­zioni sulla liquidazione delle società di cui al capo VIII del presente titolo in quanto compatibili”[109].

La disciplina dei patrimoni destinati si presenta, quindi, alquanto incompleta per ciò che concerne gli aspetti fallimentari.

Il D.Lgs. 05/2006 di “Riforma organica della disciplina delle procedure concor­sua li”[110], in attuazione della legge delega 80/2005 ha intro­dotto alcune disposizioni, in particolare in merito all’eserci­zio dell’azione revocatoria fallimentare e al fallimento della società destinante. In tal modo, pur disciplinando alcuni profili di non poco rilievo per la gestione dei patrimoni de­stinati nella fase terminale della vita aziendale, sono stati di fatto trascurati gli aspetti forse di maggiore criticità, ossia quelli attinenti l’insolvenza del patrimonio destinato che, peraltro, hanno trovato parziale regolamentazione già nel D.Lgs. 310/2004, di integrazione e correzione della riforma del diritto societario.

 Dunque qualora i creditori non abbiano trovato pieno soddisfacimento delle loro posizioni creditorie, questi ultimi, entro novanta giorni dal deposito del rendiconto finale presso il Registro delle imprese, possono richiedere la liquidazione del patrimonio destinato[111], e ciò anche prescindendo dal verificarsi di una delle cause di cessazione della destinazione patrimoniale, ovvero ogni qualvolta detto patrimonio dovesse rivelarsi insufficiente all’adempimento delle loro obbligazioni.

Peraltro, occorre precisare che, al di fuori dell’ipotesi di fallimento della società, la liquidazione del patrimonio desti­nato al termine dell’affare non costituisce un atto dovuto da parte degli amministratori che dovranno procedere solo se, nel rispetto dei termini prescritti dalla disciplina, è stata avanzata in tal senso una richiesta da parte dei creditori in­soddisfatti.

Inoltre, anche in presenza di apporti di terzi il patrimonio destinato non viene necessariamente liqui­dato, giacché è sufficiente procedere al pagamento delle spettanze del terzo apportante e degli altri creditori. Del resto, al contrario, possono altresì verificarsi circostanze per le quali la società può ritenere conveniente una liquidazione del patrimonio destinato indipendente­mente da ogni richiesta avanzata dai creditori particolari.

Singolare si presenta poi la disposizione in relazione alla quale “sono comunque salvi, con riferimento ai beni e rapporti compresi nel patrimonio destinato, i diritti dei creditori” parti­colari[112]. Tale regola va interpretata nel senso che, decorsi i tre mesi senza che alcun credito re particolare abbia avanzato richiesta di liquidazione del patrimonio destinato e produ­cendosi, quindi, il rientro dei beni separati nel patrimonio generale della società, i creditori particolari avranno comun­que diritto ad essere soddisfatti prima dei creditori gene­rali[113].

Ben più articolate appaiono, quindi, le problematiche in tema d’insolvenza che possono, su diversi livelli, interessare le società che abbiano fatto ricorso allo schema operativo di destinazione patrimoniale.

In proposito, la dottrina giuridica si è interrogata sulle possibili concrete situazioni che verreb­bero a determinarsi in caso di insolvenza del patrimonio se­parato ma non di quello residuo (c.d. patrimonio di prove­nienza), nonché, al contrario, in caso di insolvenza del patrimonio generale residuo ma non di uno o più patrimoni sepa­rati e, quindi, sull’estendibilità, in entrambe le circostanze, degli effetti dell’insolvenza di un patrimonio sugli altri patri­moni.

La prima ipotesi si verifica quando uno o più patrimoni destinati della società non siano in grado di soddisfare le pretese dei rispettivi ereditari particolari.

In tal caso, la ri­chiesta di liquidazione (ordinaria) avanzata da questi ultimi non fa venire meno la separazione tra le due o più masse pa­trimoniali che, al contrario, persiste anche durante tutta la fase di liquidazione, rendendo così salvi i diritti delle diffe­renti categorie creditorie.

La suddetta separazione si esaurisce soltanto quando anche l’ultimo creditore particolare ha trovato adeguato soddisfacimento dall’attivo del patrimonio destinato.

A tale momento del processo liquidatorio possono poi verifi­carsi due differenti situazioni, relative alla sussistenza di un residuo attivo o, all’opposto, alla presenza di un passivo an­cora da soddisfare.

Nel caso in cui dovessero residuare dopo la liquidazione elementi patrimoniali attivi, è chiaro che que­sti rientrano a far parte del patrimonio generale della società, e quindi della garanzia dei creditori generali. incerta e problematica invece si è presentata in dottrina la discussione in merito alla situazione inversa in cui, terminata la liquidazione, si presentino ancora obbliga­zioni insoddisfatte.

La soluzione prevalente nell’opinione dottrinale è quella che vede non soggetta ad influenze, e sopratutto al fallimento, la società i cui patrimoni separati si presentino insolventi. Sem­bra, cioè, potersi affermare che i cre­ditori particolari insoddisfatti non possono comunque riva­lersi sul patrimonio generale salve le ipotesi di responsabilità sussidiaria del patrimonio generale espressamente previste dalla disciplina[114].

In definitiva, sembra doversi escludere una possibilità di estensione dell’insolvenza del patrimonio sepa­rato su quello residuo dell’azienda che, in ipotesi contraria, non farebbe che negare il perno su cui ruota l’intero istituto, ovvero l’autonomia patrimoniale delle due (o più) porzioni di capitale, tale per cui delle “obbligazioni contratte in rela­zione allo specifico affare la società risponde nei limiti del pa­trimonio ad esso destinato”.

Anzi, si sostiene che proprio con riguardo al profilo dell’insolvenza la segregazione patrimo­niale esplica il suo maggior effetto e trova più forte espressione, non determinando alcun effetto di propagazione.

In defi­nitiva, in ipotesi d’insolvenza del patrimonio destinato i cre­ditori particolari sopportano il rischio dell’affare, mentre la società destinante si limiterà a perdere l’am­montare di patrimonio dedicato all’attività speciale, senza il prodursi di alcuna procedura concorsuale.

Con riguardo, invece, alla seconda ipotesi, occorre anzitutto ricordare che il fallimento della società destinante uno o più porzioni patrimoniali è prevista espressamente quale causa di cessazione della desti­nazione patrimoniale, e in tal caso si applicano le stesse disposizioni già viste per il verificarsi delle altre ipotesi di risoluzione del vincolo di destinazione[115].

In tali circostanze sembra che l’insolvenza del patrimonio generale della società e il suo successivo fallimento, comporti anche il determinarsi dell’impossibilità di prosecuzione di tutti gli affari che la società persegue mediante la destina­zione di singole quote patrimoniali, e ciò pur quando essi presentassero un andamento positivo.

Anche in tale ipo­tesi, dunque, il Legislatore ha disposto una liquidazione ordi­naria del patrimonio destinato, pur conseguendo questa per effetto del fallimento della società.

Le due o più porzioni di patrimonio separate continuerebbero, in tal caso, a restare distinti ai fini del soddisfacimento delle obbligazioni delle diverse classi creditorie e, di conseguenza, i creditori generali possono soddisfarsi sul solo patrimonio generale, mentre i creditori particolari esclusivamente sul pa­trimonio separato. In altre parole, gli effetti della destina­zione permarrebbero anche dopo il verificarsi del fallimento della società.

Da qui la necessità di predisporre, nell’ambito della procedura concorsuale, due distinte masse attive e due altrettanto disgiunti stati passivi[116].

In relazione a questi ultimi, in particolare, l’imputazione dei debiti della società re­lativi alle spese generali deve avvenire sulla base dei criteri già adottati per la ripartizione degli elementi comuni di costo e di ricavo[117].

Anche in tal caso, poi, l’opinione prevalente è quella che vede necessariamente uno spossessamento del pa­trimonio destinato e un conseguente affidamento della sua li­quidazione ordinaria ad un curatore, piuttosto che agli stessi organi della società fallita[118]. Si ritiene possibile, peraltro, un proseguimento dell’ affare da parte del curatore, se esso si presenta più vantaggioso rispetto alla liquidazione del patri­monio destinato, e dunque al fallimento della società non deve conseguire necessariamente la liquida­zione del patrimonio destinato.

Al di fuori di tale ultima indicazione, dovendosi liqui­dare, di norma, oltre al patrimonio generale anche i patri­moni destinati, possono determinarsi con riguardo a questi ultimi nuovamente due si­tuazioni: la presenza di un valore residuo attivo che in tal caso viene assorbito dalla società per la copertura delle rela­tive obbligazioni[119], o l’insorgere di un residuo passivo.

In tale ultima circostanza, i creditori particolari non possono ad evidenza rivalersi sul patrimonio generale, salvo l’opzione di illimitatezza della responsabilità prevista ab origine dallo statuto, e la presenza di un residuo passivo pro­duce allora la sola estinzione del patrimonio destinato, con insoddisfazione par­ziale dei creditori particolari, e non il suo fallimento.

Anche in caso di fallimento della società permane dunque 1’obbligo della gestione separata, e ciò sia che il patrimonio destinato si mostri capiente sia che si riveli insufficiente al soddisfaci­mento dei creditori particolari, verifica che in ogni caso è ri­messa al curatore[120].

[1] Gambaro C., voce Trust, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., XIX, Torino, 1999, 464 e ss, il quale senza mezze misure afferma che “invocare la lettura tradizionale dell’at. 2740 c.c. come fonte di un principio di ordine pubblico appare persino un poco ridicolo”. In questo senso anche recente giurisprudenza, per tutti Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in Corr. giur., 2004, p. 65 il quale, dopo una lunga elencazione di fattispecie normative della separazione patrimoniale, afferma che il fenomeno è ricorrente nella legislazione speciale e anche i quella tradizionale e tale circostanza sembra dunque smentire la portata di principio generale di ordine pubblico attribuita all’art. 2740 c.c., il quale pone come eccezionali le ipotesi di limitazione della responsabilità patrimoniale (…) proprio per la univocità dei più recenti interventi del legislatore la separazione patrimoniale non può essere considerata un “tabù” e, di contro, l’unitarietà della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c. non può valere come un dogma sacro ed intangibile del nostro ordinamento.

[2] Il settore dell’intermediazione finanziaria, fin dal 1991 con l’introduzione delle SIM, fa largo uso dell’istituto della separazione. La separazione del patrimonio dei fondi comuni da quello del gestore, rende quest’ultimo inattaccabile dai creditori della società e da quelli del singolo partecipante, i quali potranno agire solo sulle quote di partecipazione degli stessi (art. 36 n. 6 D. Lgs. 58/98) e contribuisce, per questa via, alla competitività dei mercati finanziari. Il fenomeno è tuttavia del tutto peculiare e va approfondito in un paragrafo a parte di questo lavoro. Sul punto, tra l’altro, Rabitti- Bedogni C., Patrimoni dedicati, in Riv. Not., fasc. 3, 2002, p. 1122 .

[3] L’articolo citato prevede che “la società può destinare i propri beni e diritti relativi ad una o più operazioni di finanziamento al soddisfacimento dei diritti dei portatori dei titoli e dei concedenti i finanziamenti di cui al comma 5. I beni e i diritti così destinati costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello delle società e da quello relativo ad altre operazioni.”

[4] Niccolò A., Della responsabilità patrimoniale (artt. 2740-2744), in Commentario al codice civile., D’Amelio, Libro della tutela dei diritti, Firenze, 1943, p. 438; Pugliatti A., Gli istituti del diritto civile, I, Introduzione allo studio del diritto I, Ordinamento giuridico soggetto e oggetto del diritto, Milano, 1943, 302 e 303.

[5] Anche la relazione al Codice Civile n. 1124 definisce “principio fondamentale” quello per cui “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (…) che, nell’interesse del creditore e dell’economia non conosce limitazioni di responsabilità fuori dei casi previsti dalla legge”.

[6] Si rimanda, per tutti, a Ferri C., Patrimonio, capitale e bilancio, in Diritto delle società di capitali, Milano 2003, p. 5 ss.

[7] “Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”. Fondamento della norma è la tutela del creditore. Quest’ultimo potrà, in caso di inadempimento, vedere soddisfatte le sue pretese agendo esecutivamente su tutti beni che appartengono al debitore. La norma richiama la c.d. garanzia generica, quella che cioè, ha ad oggetto tutti i beni del debitore, in contrapposizione ai diritti reali di garanzia (pegno ed ipoteca) che hanno ad oggetto solo alcuni beni del debitore.

[8] In effetti già nella Relazione della Commissione Mirone si evinceva che l’introduzione dell’istituto oggetto di analisi, mirava a realizzare una separazione patrimoniale in grado di condurre ad un principio di autonomia sul piano della responsabilità.

[9] Comporti C., in La riforma delle società, 2, Società per azioni e di capitali II, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2003, sub art. 2447-bis, p. 953; Fimmanò A., Il regime dei patrimoni dedicati di s.p.a. tra imputazione atipica e rapporti e responsabilità, in Società, 2002, p. 961. Sui patrimoni destinati in genere: AA. VV., La riforma del diritto societario, a cura di Vincenzo Buonocore, Torino, 2003; Campobasso G., Manuale di diritto Commerciale, Torino, 2006; Iinitiari C., I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Società 2003, p. 296 Di sabato A., Sui patrimoni dedicati nella riforma societaria, in Società, 2002, p. 1462; Portale A., “Dal Capitale assicurato alle ‘trading stock’”, in Rivista delle Società, 2002, 146 e ss; Faucella A., I Patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Fallimento, 2003, p. 809 e ss. Lamandini C., I patrimoni destinati nell’esperienza societaria. Prime note sul d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in Riv. soc. 2003, p. 490.

[10] A ben vedere, si può desumere dalla lettera d) dell’articolo 2447-bis, una terza tipologia di patrimonio destinato, ovvero, una variante del tipo operativo di cui alla lettera a). In particolare, è possibile che a seguito della segregazione da parte della società di una frazione di patrimonio, uno o più terzi effettuino degli apporti per la realizzazione dello specifico affare ai cui risultati parteciperanno. Lo schema, che ricorda quello dell’associazione in partecipazione, consente di collocare la figura a metà strada tra il patrimonio di tipo operativo e quello di tipo finanziario. Manzo e Scionti A., Patrimoni dedicati e azioni correlate: cellule fuori controllo?, In Società, 2003, 1329 e ss.

[11] La legge vieta (art. 2447-bis, secondo comma) che il patrimonio separato “operativo” (lettera a del citato articolo) abbia una consistenza superiore al 10% del patrimoni netto della società, tuttavia è stato osservato in dottrina: D’alessandro C., Patrimoni separati e vincoli comunitari, in Società, 2004, n. 9, p. 1061, che ben può accadere che l’attività del patrimonio separato rappresenti, nonostante la citata limitazione, posta per evitare lo snaturamento dell’attività centrale, una fetta considerevole dell’attività sociale. Si pensi all’ipotesi in cui la società ha un patrimonio per 1000 ed è priva di debiti, laddove il patrimonio destinato ha beni per 10.000 e debiti per 9.900, con una consistenza di 100 che rientra nella misura del 10% del patrimonio netto della società costituente.

[12] Per quanto diversi, i due tipi di patrimoni destinati presentano l’uno le caratteristiche dell’altro e sembrano attenere ciascuno a fasi complementari dell’impresa: quella della sua organizzazione e quella del suo finanziamento. Non è inipotizzabile, per questo, che una società faccia ricorso combinato ai due modelli di patrimoni destinati, per lo stesso affare, così dando vita ad un modello misto. Sul punto Comporti C., op. cit., p. 955.

[13] FERRO-LUZZI, La disciplina dei patrimoni separati, in Riv. dir. civ., 2002, 131 e ss., il quale osserva che l’impianto codicistico della responsabilità che fa perno sugli articolo 2740 e 2741 c.c. è “statico, basato sul valore dei beni, non sulla redditività. Nell’impresa invece, fenomeno evidentemente dinamico, a me sembra che l’adempimento stesso, prima ancora della responsabilità debba in principio fondarsi su aspetti reddituali prima ancora che patrimoniali”, suggerendo la necessità di far capo prima al sistema della responsabilità piuttosto che a quello della imputazione.

[14] Relazione al progetto “Mirone”.

[15] Si vedano sul punto le divergenti posizioni espresse da Ferro Luzzi P., La disciplina dei patrimoni separati, in Riv. soc., 2002, pp. 121 ss.; Id., I patrimoni “dedicati” e i “gruppi” nella riforma delle società per azioni, in Le Società, 2002, pp. 271 ss.; e contra, Di Sabato F., Sui patrimoni dedicati nella riforma societaria, in Le società, 2002, pp. 665 ss.; Id., Brandelli di esperienza (non del tutto negativa) di un aspirante legislatore, in Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, da Quaderni di Giurisprudenza commerciale, 2003, pp. 315 ss.. In generale, cfr. Zoppini A., Primi appunti sul patrimonio separato della società per azioni, in Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, da Quaderni di Giurisprudenza commerciale, 2003, pp. 97 ss.; id., Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., n. 4/2002, pp. 545 ss.; Inzitari B., I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Le società n. 2 bis – numero monografico, 2003, pp. 295 ss.; Schlesinger P., Patrimoni destinati ad uno specifico affare e profili di distinta soggettività, in Dir. e prat. soc., 2003, pp. 6 ss..; Bellezza E., La questione dei patrimoni ed il loro preciso utilizzo, Relazione per il Consiglio Notarile di Milano, reperibile sul sito http://www.federnotizie.org/riforma/patrimon.htm.; Becchetti E., Riforma del diritto societario. Patrimoni separati, dedicati e vincolati, in questa Rivista, 2003, pp. 49 ss.; D’Andrea C., S.p.a.: patrimoni e finanziamenti destinati ad uno specifico affare, in Dir. prat. soc., n. 6/2003, pp. 26 ss.; Rabitti Bedogni C., Patrimoni dedicati, in Le società, 2002, I, pp. 121 ss.. Cfr. ancora, Galgano F., Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia a cura di Galgano F., XXIX, Padova, 2003; La Rosa F., Patrimoni e finanziamenti destinati ad uno specifico affare: ottica destinazione e ottica separazione: analisi delle prospettive di sviluppo e dei profili di rischio, Milano 2007; Niutta A., I patrimoni e finanziamenti destinati, Milano 2006; Angelici C., Profili generali, costituzione, conferimenti, azioni, obbligazioni, patrimoni destinati,  Torino 2006; Santagata R., Patrimoni destinati e rapporti intergestori, Torino 2005.

[16] È stato correttamente affermato che patrimonio di destinazione è espressione carica di suggestioni e di ambiguità. Essa, da un lato evoca temi classici ed antichi quale la categoria ottocentesca dei patrimoni di destinazione, dall’altro evoca aspetti dinamici del patrimonio, in cui l’atto di destinazione si pone quale strumento incidente sulla circolazione dei beni e sulle regole della responsabilità patrimoniale; così, Bianca M., Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, p. 1.

[17] Cfr. in senso conforme in dottrina, Zoppini A., Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., p. 545; nel senso che la nuova disciplina in esame intenderebbe generalizzare all’autonomia privata l’accesso alla tecnica di separazione, Salamone L., Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, pp. 16 ss. Si pone invece in un’ottica bi-valente in ordine al fenomeno della dedica patrimoniale, Fimmanò F., Il regime dei patrimoni dedicati di s.p.a. tra imputazione atipica dei rapporti e responsabilità, in Le società n. 8/2002, pp. 960 ss. Inoltre, cfr. Granelli, La responsabilità patrimoniale del debitore fra disciplina codicistica e riforma in itinere del diritto societario, in Riv. dir. civ., 2002, II, pp. 507 ss..

[18] Sul nuovo modo di guardare al problema della par condicio creditorum, cfr. ampiamente Schlesinger P., L’eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 319; Jaeger P.G., Par condicio creditorum, in Giur. Comm., 1984, I, pp. 88 ss.; Rescigno M., Contributo allo studio della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., 1984, I, pp. 359 e ss.; Roppo E., Par condicio creditorum sulla posizione e sul ruolo del principio di cui all’art. 2741, c.c., in Riv. dir. comm., 1981, I, pp. 305 ss..

[19] Per un commento generale sul contenuto della Legge delega 366/01, per quanto concerne i “patrimoni dedicati”, si rimanda a: Di Sabato F., Sui pa­trimoni dedicati nella riforma societaria, cit., pp. 665666; Ferro Luzzi P., I pa­trimoni “dedicati” e i “gruppi” nella riforma societaria, cit., 2002, pp. 271274. Per alcune prime riflessioni sulla disciplina dei patrimoni destinati contenuta all’interno del successivo provvedimento delegato si veda invece: Lamandini M., I patrimoni “destinati” nell’esperienza societaria. Prime note sul D.Lgs. 17 gen­naio 2003 n. 6, in Rivista delle società, n. 23, 2003.

[20] L’uso dell’espressione “dedicati” dovrebbe essere vista come una precisa volontà del Legislatore delegante di non influenzare il Legislatore dele­gato, nel disciplinare lo strumento in questione, rispetto a note tecniche di se­parazione patrimoniale già esistenti nel nostro ordinamento e di cui si dirà più avanti. Cfr. La Rosa F., op. cit.

[21] La Commissione Mirone aveva redatto un progetto di legge delega (disegno di legge delega n. 7123 del 20 giugno 2000) che tuttavia, non avendo completato l’iter di approvazione prima della scadenza della legislatura, de­cadde. Si veda in proposito: Montalenti P., La riforma del diritto societario nel progetto della Commissione Mirone, in Giurisprudenza commerciale, n. 3, 2000, pp. 404 e ss.; Salafia V., La riforma del diritto societario dalla bozza Mirone alla legge delega, in Le società, n. 11,2001; Schema elaborato dalla commissione Mirone per la riforma delle non quotate, in Le Società, n. 1, 2000. Alla Commis­sione Mirone furono sottoposti tre differenti modelli: un modello “subsocieta­rio”, la cui normativa riproduceva sostanzialmente le regole di funzionamento di una società; un modello caratterizzato dall’assoggettamento di una parte del patrimonio sociale a speciali regole di gestione, tra cui quelle connesse al diffe­rente regime di responsabilità; un modello volto a dar rilievo alla destinazione patrimoniale essenzialmente sul piano finanziario. Non è difficile intuire, dalla lettura della disciplina in esame, come la Commissione abbia espresso la pro­pria preferenza a favore del secondo e del terzo modello, scartando, di fatto, il primo schema.

[22] Si veda sul punto: Perrone A., Dalla libertà di stabilimento alla com­petizione tra gli ordinamenti? Riflessioni sul caso “Centros”, in Rivista delle so­cietà, n. 5, 2001, pp. 12921307.

[23] In particolare, con le sentenze della Corte di Giustizia Ce 5 novembre 2002, C208/00 (Uberseering) e 30 settembre 2003, C167/01 (Inspire Art) “una società può scegliere la propria forma giuridica non solo tra i modelli socie­tari del proprio ordinamento nazionale, ma tra tutti i modelli disponibili negli stati membri”, e ciò anche “esclusivamente allo scopo di approfittare dei van­taggi” offerti dal diritto societario di quegli stati. Cfr. Arlt R., I patrimoni de­stinati ad uno specifico affare: le protected cell companies italiane, in Contratto e impresa, n. 1, 2004, pp. 324325 e note 56.

[24] L’art. 7 della Direttiva 89/667/CEE stabiliva infatti che “Uno Stato membro può non consentire la società unipersonale quando la sua legislazione preveda, a favore degli imprenditori unici, la possibilità di costituire imprese a re­sponsabilità limitata ad un patrimonio destinato ad una determinata attività, pur­ché per questo tipo di impresa siano previste garanzie equivalenti a quelle imposte dalla presente direttiva (…)”.

[25] Il citato d.l. 248/86 stabilisce all’art. 1, co. 1, che “qualsiasi persona individuale che esercita o intende esercitare un’ attività commerciale può costituire a tale scopo un’impresa individuale a responsabilità limitata”, e all’art. 1, co. 2, che “l’interessato destina all’impresa individuale a responsabilità limitata una parte del suo patrimonio, il cui valore rappresenterà il capitale iniziale d’im­presa”. Sul tema si può vedere: Balzarini P., L’impresa individuale a responsabi­lità limitata in Portogallo, in Rivista delle società, 1988, n. 4, pp. 848 – 864 (in­cluso il testo del suddetto decreto legge 248/1986).

[26] Cfr. art. 2497, co. 2, lett. a), c.c.

[27] Cfr. art. 2328, co. 1, c.c. La riforma, oltre a parificare la disciplina della s.p.a. con quella della s.r.l. in tema di costituzione di società unipersonali, ha inoltre ridotto il numero di ipotesi in presenza delle quali la società uniper­sonale (s.r.l. o s.p.a.) risponde illimitatamente.

[28] In particolare, è stato rilevato come la persona giuridica unico socio di una società unipersonale a responsabilità limitata trovi una non indifferente manifestazione nella prassi. Cfr. Zamperetti G.M., Bonomelli L., Ceccon L., Le società unipersonali a responsabilità limitata. Uno studio sulla prassi opera­tiva, in Giurisprudenza commerciale, n. 1, 1997, pp. 98 – 114.

[29] Sulle finalità perseguite dal Legislatore con l’istituto in esame e sulle più ampie opportunità d’applicazione dello stesso si dirà nella seconda parte del presente lavoro.

[30] Il termine “affare” non è tipico della terminologia giuridica, ma è mutuato da quella economica. Peraltro, non si tratta della prima apparizione all’interno del codice civile, visto che il Legislatore ha utilizzato lo stesso termine nel disciplinare, ad esempio, il contratto di mandato (artt. 1721 e ss. c.c.) e quello di mediazione (artt. 1754 e ss. c.c.), i libri obbligatori e le altre scritture contabili (art. 2214, co. 2, c.c.), il contratto di associazione in partecipazione (art. 2549 e ss. c.c.), i contratti di cointeressenza agli utili d’impresa (art. 2554 c.c.).

[31] Sul tema si veda: Ferro Luzzi P., La disciplina dei patrimoni separati, cit., p. 136; Inzitari B., op. cit., p. 296; Manzo G., Scionti G., Patrimoni dedicati e azioni correlate; “cellule” fuori controllo?, in Le Società, n. 10, 2003, p. 1330.

[32] Sulla nozione di affare quale “progetto”, giudicato essere il “naturale campo di applicazione della disciplina”, si veda: La rosa F.., op. cit., 2007, p. 545.

[33] Cfr. Faucella G., op. cit., p. 811.

[34] Del resto, è noto come sia prassi diffusa per le S.p.A. indicare nell’oggetto sociale una pluralità di attività, sebbene non sia possibile inserire espressioni estremamente generiche ovvero elencazioni troppo estese.

[35] Contrario alla possibilità di svolgere attività speciali che si discostano sensibilmente da quella generale è Faucella che, in un’ottica peraltro meramente giuridica, sottolinea il pericolo di un improprio ampliamento dell’oggetto sociale, con conseguente “mutamento delle condizioni di rischio dei soci”. Ibidem, p. 811. Dell’avviso secondo cui l’affare deve rientrare nell’oggetto sociale anche: La rosa F. L., op. cit., 2007. In tali circostanze, è allora auspicata da più parti una preventiva modifica dell’oggetto sociale.

[36] Cfr., in tal senso, Bartalena A., I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Rivista del diritto commerciale, n. 1, 2003, p. 84 e p. 99; Becchetti E., Riforma del diritto societario. Patrimoni separati, dedicati, vincolati, in Rivista del notariato, n. 1, 2003, p. 49.

[37] Lo stesso OIC (Organismo Italiano di Contabilità) precisa che l’insieme dei beni enucleati dal patrimonio generale sono “solitamente coordinati ad azienda o ramo d’azienda”. Cfr. OIC 2, Patrimoni c finanziamenti destinati ad uno specifico affare, 26 Ottobre 2005, p. 2.

[38] “Si ha unità economica relativa, o un complesso economico relativo quando più condizioni produttive o di consumo di solito qualificanti una operazione di azienda, più operazioni di azienda costituite in processo, più processi, ad esempio produttivi o di consumo, e così via, sono avvinti in un tutto relativamente compiuto, cioè in un tutto relativo le cui parti hanno vincoli di armonia d’insieme (…). Ogni unità economica pur essendo relativa, ha un tempo di inizio di svolgimento. Dal tempo di inizio, almeno per gli influssi della previsione sulle decisioni e sulle conseguenti azioni degli operatori, l’unità economica si inserisce nell’azienda”. Cfr. Masini C., Lavoro e risparmio, Utet, 1970, p. 66.

[39] Con riguardo alle prime, può trattarsi sia di attività del tutto nuove, ossia fino a quel momento sconosciute all’azienda, sia di attività già in passato intraprese e portate a termine, e ora di nuova esecuzione; con riguardo alle seconde attività già avviate ed in itinere sono state invece espresse talune perplessità sulle possibilità di ricorso ai patrimoni destinati.

[40] Competente per la deliberazione istitutiva del patrimonio separato è l’organo amministrativo, sia pur con maggioranza rafforzata: art. 2447-ter, ult. comma (quest’ultima precisazione esclude che la costituzione possa essere delegata ad un amministratore delegato, contrariamente a quanto afferma Lenzi A., I patrimoni destinati: costituzione e dinamica dell’affare, in Riv. not., 2003, I, 543 ss., a 557); lo statuto può tuttavia prevedere che la competenza spetti all’assemblea. La soluzione prevista (in via dispositiva) dalla legge dà luogo a perplessità, non tanto per la ragione che la delibera istitutiva “incide, modificandola, sulla struttura finanziaria della società, per l’eventuale emissione di strumenti finanziari partecipativi” (così Bartalena C., I patrimoni destinati ad uno specifico affare, Relazione al Convegno di Prato del 31 gennaio 2003, in Riv. dir. comm., 2003, I, 83 ss., a 88) quanto perché essa “incide anche sui diritti dei soci… da un lato limitandone i diritti partecipativi ogni qual volta siano emessi strumenti di partecipazione al patrimonio destinato [obiezione peraltro non decisiva: quegli strumenti finanziari hanno causa in un apporto dei terzi partecipanti che incrementa le dimensioni della complessiva attività sociale: n.d.a.] e dall’altro configurando per i soci un rischio aggiuntivo diretto, visto che qui… resta salva la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito… e [soprattutto: n.d.a.] la delibera di costituzione può derogare al principio secondo cui per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato”: così Lamandini A., nel Parere dei componenti del Collegio dei docenti del dottorato di ricerca in diritto commerciale interno e internazionale, Università Cattolica di Milano, in Riv. soc., 1992, 1453 ss., a 1496

[41] Sulla pluralità di significati, nel sistema, del termine “affare” cfr. De Acutis, A. L’associazione in partecipazione, Padova, 1999, 141 ss. (ove esame di svariate fattispecie). Le ragioni per le quali nel contesto del nostro istituto non sembra che l’affare possa consistere in un ramo dell’attività di impresa a lunghissimo termine sono indicate subito nel testo

[42] Cfr. Inzitari C., I patrimoni destinati ad uno specifico affare (art. 2447-bis, lett. a), c.c.), in Contr. e impr., 2003, 164 ss., a 167 s. (ove anche l’affermazione che l’insufficiente indicazione ed anche, prima ancora, l’oggettiva mancanza di specificità dell’affare comporta l’inefficacia della destinazione del patrimonio, cioè l’inopponibilità ai creditori sociali “generali” della sottrazione di esso alle loro pretese; si potrebbe peraltro porre il problema se, a tutela dei creditori “del patrimonio destinato”, non sia invocabile un principio analogo a quello che, nell’art. 2332, c.c., fa salvi i diritti dei creditori della società nulla; tanto più se si tien conto che la costituzione del patrimonio destinato si pone come alternativa alla costituzione di una società figlia unipersonale). Il lavoro di Inzitari può leggersi anche in Società, 2003, 295 ss. e in Dir. fall., 2003, I, 369 ss. Nello stesso senso Santosuosso C., La riforma del diritto societario, Milano, 2003, 182; Giannelli A., in Abriani N. (e altri), Diritto delle società di capitali. Manuale breve, Milano, 2003, 92. Oscilla tra l’interpretazione restrittiva dell'”affare” qui accolta e l’affermazione che esso possa consistere anche in un’attività d’impresa svolta in via continuativa il Comporti C., Art. 2447-bis, in Sandulli-Santoro (a cura di), La riforma delle società, II, Torino, 2003, 961 ss

[43] Al riguardo, è stato sostenuto che l’assenza di previsioni, nei lavori preparatori della riforma, di limiti percentuali alla costituzione di patrimoni de­stinati, “manifesta una tardiva preoccupazione del legislatore circa le conseguenze dell’atto ablativo e la volontà di porvi rimedio con un vincolo di ordine quantita­tivo”. Peraltro, la legge delega 366/01, nel consentire la costituzione di patrimoni destinati, già richiedeva la determinazione da parte del Legislatore delegato di condizioni e limiti.

[44] Cfr. art. 2447 – bis, co. 2, c.c. Da notare, per quanto evidente, come la destinazione riguardi in realtà valori e non i singoli beni. Del resto, il riferi­mento ai valori patrimoniali è avvertito già nella dottrina giuridica: “l’ evolu­zione in senso dinamico del patrimonio e in particolare del patrimonio destinato testimonia come oggetto della destinazione non siano più, come avveniva in pas­sato, beni individuati; ma valori, flussi che derivano da uno specifico affare”. Cfr. Bianca M., Amministrazione e controlli nei patrimoni destinati, in Falzea A. (a cura di), Destinazione di beni allo scopo, Giuffrè, Milano, 2003, p. 178.

[45] Per il calcolo del suddetto limite mas­simo occorre evidentemente prendere a base il patrimonio netto che s’intende essere il patrimonio netto contabile, quale risulta dall’applicazione degli schemi e dei criteri di valutazione previsti in materia di bilancio, non essendo dunque necessaria la redazione ad hoc di un bilancio straordinario infrannuale. Contra: Sottoriva C., Commento OIC 2, 2004, www.fondazioneoic.it. pp. 1011. Secondo l’autore, infatti, in ragione dei profili di responsabilità che di­scendono dalla costituzione di un patrimonio destinato, per la verifica del ri­spetto del suddetto limite si dovrebbe fare riferimento ad un apposito bilancio ordinario infrannuale che tenga conto delle modificazioni intervenute nel patri­monio tra la data di chiusura dell’esercizio (per esempio, il 31 dicembre) e la data di costituzione del patrimonio destinato (per esempio, il 30 settembre), si­milmente a quanto previsto per le operazioni di fusione e scissione, ed even­tualmente stabilendo che, qualora il bilancio dell’ultimo esercizio si sia chiuso nei sei mesi prima del giorno dell’assunzione della delibera di costituzione del patrimonio destinato, si possa fare riferimento a quest’ultimo

[46] Cfr. Lenzi R., op. cit., p. 556. In tal modo, inoltre, si eluderebbero quelle problematiche connesse alla valutazione e al controllo (mediante addirit­tura la redazione di una relazione di stima predisposta da un esperto contabile) del valore effettivo assegnato al capitale d’azienda.

[47] Secondo un illustre Autore, peraltro, è da considerarsi marginale l’i­potesi di destinazione, cioè di apposito trasferimento, di specifiche passività già . esistenti in capo alla società verso un patrimonio destinato di nuova costitu­zione. Cfr. Colombo G.E., La disciplina contabile dei patrimoni destinati: prime considerazioni, in Banca, Borsa e Titoli di credito, n. 1, 2004, p. 33.

[48] È chiaro che la possibilità concreta di trasferimento di passività dal patrimonio generale verso quello (quelli) separato (separati) è soggetta, ad un’implicita volontà dei corrispondenti creditori, che non hanno eserci­tato il diritto di opposizione alla delibera costitutiva.

[49] Sul punto, peraltro, i pareti sono alquanto discordanti. Concordi con quanto indicato nel testo, tra gli altri: Lenzi R., op. cit., p. 556; il quale sottolinea come “la costituzione del patrimonio separato è in realtà il risultato di un procedimento complesso, articolato in diverse fasi susseguenti? modalità di costituzione; pubblicità della costituzione; mancata opposizione dei creditori sociali preesistenti”, Ibidem, p. 556; nel senso, invece, di un’obbligatorietà della previsione statutaria, tra gli altri: Fimmanò F., Il regime dei patrimoni dedicati di s.p.a. tra imputazione atipica dei rapporti e responsabilità, in Le Società, n. 8, 2002, p. 963.

[50] Come modificato dal D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, contenente le “modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi numeri 5 e 6 del 17 gennaio 2003, recanti la riforma del diritto societario, nonché al testo unico in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1° settembre 1993, e al testo unico dell’intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998”.

[51] Altre indicazioni di natura eventuale, sono quelle relative all’adozione di una responsabilità illimitata della società per le obbligazioni sorte in relazione allo specifico affare (ex art. 2447-quinquies, co. 3, cc.), nonché le ulteriori ipotesi eventualmente specificate (nella delibera di costituzione del patrimonio destinato) di cessazione del vincolo di destinazione patrimoniale rispetto a quelle già previste dalla disciplina, ai sensi dell’art. 2447-novies, co. 4, c.c. La normativa non prevede alcuna disposizione particolare nel caso di violazione del contenuto minimo della delibera istitutiva, ma si deve ritenere che l’indeterminatezza o la falsità di uno o più dei suddetti requisiti renda la stessa delibera viziata. Cfr. Inzitari C., op. cit., p. 297 e p. 299. Sul tema si veda anche: Lenzi R., op. cit., pp. 560-561.

[52] Cfr. art. 2447-quater, co. 1, c.c. Sembra necessario, al riguardo, l’intervento di un notaio verbalizzante ed esercitante i controlli di legittimità al momento della redazione e deposito della deliberazione istitutiva, per quanto sarebbe stato auspicabile un’espressa previsione in tal senso, al fine di garantire una maggiore tutela dei terzi sul suo contenuto essenziale e, più in generale, sul rispetto della disciplina in esame. In tal senso: Laurini G., I patrimoni destinati nel nuovo diritto societario, in Falzea A. (a cura di), Destinazione di beni allo scopo, Milano, 2003, pp. 125-127; Guizzi G., Patrimoni separati e gruppi di società. Articolazione dell’impresa e segmentazione del rischio: due tecniche a confronto, in Rivista del diritto commerciale, n. 1, 2003, p. 648; e, in generale, non pochi esperti contabili e dottori commercialisti che espressisi sul punto hanno propeso per la necessità di una verbalizzazione notarile; contra: Lenzi R., op. cit., p. 558. Sul punto si veda anche: Perrella G., Forma della delibera costitutiva dei patrimoni destinati, in Diritto e pratica delle società, n. 9, 2004.

[53] L’adempimento pubblicitario indicato si ritiene debba trovare applicazione anche per quei beni che entrano a far parte del patrimonio destinato e sono quindi sottoposti al vincolo di destinazione in un momento successivo a quello di sua costituzione. Vedi infra paragrafo 2.1.6. in tema di c.d. rapporti intergestori. Non pochi autori hanno ritenuto complessivamente carente la disciplina in merito alla tutela dei creditori generali, e in particolare, con specifico riguardo al momento istitutivo dei patrimoni destinati, la pubblicità prevista dalle norme in esame, giudicata insufficiente in relazione al suo scopo informativo, al punto da suggerire anche un obbligo di comunicazione ai creditori della delibera costitutiva di un patrimonio. Cfr La Rosa F., op cit.

[54] In assenza di ulteriori indicazioni, i motivi a supporto dell’opposizione possono essere i più differenti: violazioni di legge della delibera istitutiva, comprovato uso distorto dell’istituto, riduzione del residuo patrimonio a livelli tali da non consentire alcuna utile forma di soddisfacimento per i creditori generali, ecc. Non si ritiene, al contrario, che l’opposizione possa avanzarsi su un mero giudizio di merito da parte dei creditori, i quali mai possono sindacare sull’operato degli amministratori e, quindi, neanche sull’opportunità di avviare o sviluppare una data iniziativa imprenditoriale. Ai sensi dell’art. 2388, co. 4, un analogo potere d’impugnativa spetterebbe oltre che all’organo di controllo e ai consiglieri assenti o dissenzienti ai soci, qualora la delibera istitutiva del patrimonio destinato si riveli lesiva dei loro diritti, e in tal caso il termine per l’impugnazione sarebbe di tre mesi, quindi più esteso rispetto a quello previsto per i creditori. Cfr. Scarafoni S., I patrimoni di destinazione: profili societari e fallimentari, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 1, 2004, p. 81. Sembra doversi ritenere che legittimati all’opposizione siano i soli creditori generali. Questi ultimi, poi, sembrano essere anche autorizzati all’espletamento dell’azione revocatoria ordinaria ai sensi dell’art. 2901 c.c., stante la diminuzione di garanzia patrimoniale che si viene ad esercitare con lo schema in esame. Da tale punto di vista, in particolare, l’azione revocatoria ordinaria si porrebbe in posizione di disciplina generale, laddove l’esercizio del diritto di opposizione indicato nel testo si configurerebbe come strumento particolare. In tal caso, peraltro, sembra lasciar adito a perplessità la circostanza che per far venire meno la costituzione del patrimonio destinato il termine si allunghi fino a cinque anni. Cfr. Angelici C., op. cit.

[55] Cfr. art. 2 co. 2 c.c., il cui contenuto e finalità non ci sembra dissimile da quelle disposizioni che disciplinano le modalità di riduzione del capitale sociale (art. 2445, co. 3 e 4) e le operazioni di fusione (art. 2503 c.c.). Si ritiene, pur in assenza di previsioni disciplinari, che tanto l’opposizione avanzata dai creditori quanto la successiva decisione del tribunale sia essa d’accoglimento o meno dell’opposizione devono essere anch’esse iscritte nel Registro delle imprese, affinché si possa dare opportuna pubblicità alla destinazione patrimoniale. Cfr. Angelici C., op. cit.

[56] Cfr. art. 2, co. 2, cc. Ciò implica secondo l’orientamento della dottrina prevalente che il regime di separazione patrimoniale non è opponibile ai terzi se non dal momento dell’adempimento dell’onere pubblicitario.

[57] Bertuzzi M., Bozza G., Sciumbata G., La riforma del diritto societario. Patrimoni destinati, Partecipazioni statali, S.A.A, Milano 2003.

[58] Non sono, infatti, riprodotte nell’art. 2388 (né nella restante disciplina riguardante l’atti­vità degli organi amministrativi) le disposizioni contenute nell’art. 2375, per il quale “le deliberazioni dell’assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal presidente e dal segretario o dal notaio” e “il verbale dell’assemblea straordinaria deve essere redatto da un notaio”; di conseguenza la verbalizzazione notarile delle deliberazioni consiliari è necessaria solo ove la legge lo preveda espressamente, come nell’art. 2410 che, nell’attribuire agli “amministratori” la competenza all’emis­sione delle obbligazioni, precisa che la deliberazione, sia essa presa da costoro che dall’ assemblea, “deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata e iscritta a norma dell’art. 2436”.

[59] L’art. 2436 va lett. in combinata con l’art. 2448 che riproduce l’art. 2457-ter, nel testo novellato dalla legge n. 340/2000; esso disciplina gli effetti nei confronti dei terzi della pubblicazione nel registro delle imprese degli atti delle società per azioni riaffermando il principio della iscrizione quale condizione per l’opponibilità dell’atto ai terzi.

[60] Angelici C., op.c it.

[61] Del resto, anche nella fase costitutiva la competenza del consiglio di ammini­strazione o di gestione non è espressamente dettata, ma la si è dedotta, come si ricorderà, dalla disposizione dell’ultimo comma dell’art. 2447-ter.

[62] La differente dizione potrebbe far pensare che, mentre la deliberazione costituiva deve essere presa dal consiglio di amministrazione con la maggioranza fissata, il rendiconto finale è di competenze del delegato alla gestione del singolo affare, ma questa supposizione non trova adeguato sostegno, visto che con testualmente si parla di consiglio di gestione e che la stessa dizione (“amministratori o consiglio di gestione”) è utilizzata dall’ art. 2447-sexies, in commento al quale si è detto che la tenuta dei libri e delle scritture contabili è obbligo che grava sull’intero consiglio.

[63] È evidente, quindi, che possono nascere divergenze tra i componenti del consiglio di amministrazione o di gestione circa l’avvenuta realizzazione dell’ af­fare e, più probabilmente, circa l’impossibilità di realizzarlo, che è concetto più elastico, o sulla interpretazione di una clausola dettata al momento della costituzione; in questi casi il consiglio dovrà comunque decidere se la destinazione è cessata e ciò dovrà fare con le maggioranze richieste dall’art. 2888 (richiamato per il consiglio di gestione dall’art. 2409-undecies), per il quale è sufficiente, sempre salva diversa disposi­zione dello statuto, la maggioranza assoluta dei presenti e non dei componenti del consiglio, come invece richiede l’art. 2447-ter ultimo comma.

[64] Probabilmente il legislatore ha ritenuto sufficiente, allo scopo di evitare il pericolo di abusi, la relazione accompagnatoria “dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile”, ma il controllo di questi organi, anche se svolto sulla gestione societaria, non può mai essere sostitutivo di quello che avrebbero potuto espletare i creditori a tutela del loro interesse alla soddisfazione delle proprie pretese credi­torie, essendo finalizzato alla osservanza dei principi di corretta ammi­nistrazione. Il legislatore sembra, invece, porre i due controlli sullo stesso piano dato che, al momento costitutivo, non richiede alcun intervento del collegio sindacale e degli incaricati della revisione ma consente l’opposizione dei creditori alla deliberazione costitutiva, nel mentre, al momento conclusivo, trascura l’opposizione dei creditori ma richiede una relazione da parte di detti organi. Coerenza avrebbe voluto che i due momenti tra loro speculari fossero regolati allo stesso modo, prevedendo in entrambi i casi sia il controllo gestionale e contabile da parte degli organi a ciò deputati, sia il controllo da parte dei creditori attraverso l’opposizione alla delibera costitutiva o conclusiva; comunque, se di uno si voleva fare a meno, di certo non doveva essere la tutela diretta dei creditori a dover essere sacrificata. Cfr. La Rosa F., op. cit.

[65] Ossia la norma avrebbe dovuto richiedere il rendiconto “accompagnato da una relazione dei sindaci e da una del soggetto incaricato della revisione contabile”, oppure il rendiconto “accompagnato da relazioni dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione contabile”.

[66] Questa lettura si presta, per la verità, all’obiezione che, poiché l’art. 2409-bis è richiamato anche dagli artt. 2409-quinquies decies e 2409-novies decies, anche il consiglio di sorveglianza e il comitato di controllo in presenza delle condizioni di cui all’ult. comma dell’art. 2419 esercitano il controllo contabile, eppure di essi non vi è menzione nella norma in esame. Tuttavia l’omissione sotto questo profilo è più spiegabile in quanto il controllo dei conti è attività residuale per questi organi (tanto che la legge delega la escludeva) il cui compito principale è il controllo della gestione che, perciò non può essere ignorata ove di questa si parlasse, nel mentre nel generale rinvio al soggetto incaricato della revisione contabile si può far rientrare qualunque organo svolga tale attività. Rimane il mistero del perché la norma non si sia limitata a questo rinvio senza parlare dei sindaci, ma, come si è più volte detto, il tecnicismo non è uno dei pregi della riforma; evidentemente il legislatore ha preso come modello l’art. 2409-bis, dimenticando i richiami dello. stesso negli artt. 2409-quinquies decies e 2409­-novies decies con la sostituzione alle parole collegio sindacale di consiglio di sorve­glianza e il comitato/di controllo, volendo significare che il rendiconto dell’organo amministrativo deve essere accompagnato dalla relazione dell’organo che esercita il controllo contabile, chiunque esso sia.

[67] Cfr. art. 2447-quinquies, co. 1, c.c.

[68] Cfr. art. 2447-quinquies, co. 3, c.c.

[69] Al riguardo, taluni hanno avvertito l’esigenza di precisare che i “frutti e i proventi” siano da intendere netti e non lordi, stante la necessità di remunerare prima tutti i costi sostenuti in relazione all’affare specifico (spese di produzione, oneri fiscali, etc.), compresa la corresponsione di un utile agli eventuali terzi apportanti, nonché di garantire quanto di competenza dei creditori particolari. Altrettanto chiara appare l’esigenza di non considerare, e quindi di non riattribuire alla società, quella parte dei frutti e proventi che, coerentemente al contenuto del piano economico e finanziario, sia necessaria per la prosecuzione e realizzazione dell’affare. Cfr. Inzitari B., op. cit., p. 301; Tosca L., op. cit., p. 178. Al contempo, ancora, si è reputato “indispensabile che la società mantenga sempre un diritto residuale sull’affare quale condizione per una corretta attribuzione di incentivi, in particolare in capo ad amministratori ed azionisti; rispetto alla dinamica dell’affare”, e che “il finanziatore dell’affare non può quindi vantare una pretesa che assorba completamente i frutti dell’affare; alla società deve restare una, seppur aleatoria, prospettiva di guadagno”. Cfr. Marano G., op. cit., p. 24.

[70] Cfr. art. 2447-ter, co. 1, punto b), c.c.

[71] Cfr. art. 2447-quinquies, co. 4, c.c. Alcuni autori hanno perfino ritenuto essenziale reputando quindi carente in tal senso la disciplina l’indicazione di un segno distintivo da aggiungere alla denominazione della società. Cfr. Di Sabato F., Strumenti di partecipazione a specifici affari con patrimoni se parati e obbligazioni sottoscritte da investitori finanziari, in Banca, Borsa e Titoli di credito, n. 1, 2004, p. 20, e ancor prima: Di Sabato F., Sui patrimoni dedicati nella riforma societaria, cit., p. 666.

[72] Cfr.Iniziari L. L., op. cit., pp. 179-180.

[73] Al riguardo, la dottrina giuridica parla di principio di “specializzazione” della garanzia o della responsabilità patrimoniale, in contrapposizione al principio di “universalità” nel testo indicato e ormai da più istituti progressiva mente indebolito. Inoltre, è stato notato come, di fatto, si viene a generare una “segregazione nella segregazione”, ovvero si è anche parlato una “limitazione di responsabilità patrimoniale di secondo grado”, considerato il regime di responsabilità limitata che già caratterizza la società per azioni.

[74] In senso dubitativo: Campobasso G.., op. cit., p. 334 e p. 337. Peraltro, per un pacifico impiego del modello in esame, non crediamo si possa interpretare diversamente la norma ovvero nel senso di un coinvolgimento anche degli altri patrimoni destinati in presenza di responsabilità illimitata in nessuna delle ipotesi che si stanno per dire, e ciò sebbene in certi casi sembrerebbe ritenersi coinvolta la responsabilità dell’intera società.

[75] Invero, alcuni autori considerano la possibilità prevista per i creditori generali di aggredire i proventi e i frutti di pertinenza della società e originanti dai patrimoni destinati come una deroga seppure di importanza marginale alla disciplina tipica, tale per cui la permeabilità dell’autonomia patrimoniale non sarebbe “a senso unico”, ma agirebbe al contrario in entrambe le direzioni.

[76] Al riguardo, si è sostenuto giustamente che il ricorso alla deroga convenzionale dovrebbe comunque trovare limitato impiego per non vanificare la funzione principale dello schema dei patrimoni destinati. Cfr. Bozza G., op. cit., p. 22. in ogni caso, si rileva come il Legislatore abbia introdotto, di fatto, la possibilità di una deroga alla separazione perfetta senza peraltro regolamentare in alcun modo il differente regime che si viene ad instaurare, il che ha fatto sorgere non pochi dubbi sulla legittimità di una previsione cosi indefinita ed ampia.

[77] Sul punto si veda: Partisani R., Patrimoni separati: l’inopponibilità del vincolo di destinazione alle obbligazioni da fatto illecito, in La Responsabilità civile, n. 1, 2005.

[78] E ciò secondo un principio ispirato alla giurisprudenza americana in tema di piercing the corporate veil.

[79] Peraltro, “la mancata menzione del vincolo non sembra far venire meno la separazione ma determina soltanto una diversa imputazione del rapporto, dal patrimonio destinato al patrimonio residuo” Cfr. Lenzi R., op. cit., p. 567. In ogni caso, è indubitabile che si tratti di una disposizione rigida, che può avere non indifferenti ripercussioni in termini operativi, rendendo onerosa la gestione dei patrimoni destinati, e rischiando di produrre anche vertenze giudiziarie ove non sia facile ricostruire l’imputabilità di un atto ad una porzione patrimoniale o ad un’altra.

[80] In particolare, con riguardo al contenuto della delibera di costituzione (art. 2447-ter c.c.) e, specificatamente, all’individuazione puntuale del patrimonio destinato e dello specifico affare, e al rispetto del rapporto di congruità del primo rispetto alle necessità del secondo. Cfr. De Angelis L., Patrimoni destinati a specifici affari di s.p.a.: profili contabili e fiscali, in Diritto e pratica tributaria, n. 3, 2003, p. 444; Inzitari L., I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Le Società, n. 2-bis, 2003, p. 299.

[81] Concordi con una simile interpretazione restrittiva della norma: Bozza G., op. cit., p. 108; Fimmanò F., op. cit., p. 964; Lenzi R., op. cit., p. 564.

[82] In tal modo si realizza, quale frutto di una libertà di scelta della società, “un’autonomia imperfetta a tutto danno dei creditori, anteriori e successivi verso la società, i quali si troveranno a concorrere con i nuovi creditori particolari, senza poter essi, a loro volta, usufruire di beni separati, creando una netta sperequazione tra le varie categorie di creditori.” Tra l’altro, se quelli anteriori hanno lo strumento dell’opposizione per tutelarsi di fronte alla perdita delle loro garanzie patrimoniali, quelli successivi sono privi di una qualunque tutela e si vengono a trovare in una situazione similare a quella dei creditori personali di un socio illimitatamente responsabile di una società di persone, i quali non possono aggredire il patrimonio sociale, ma concorrono con i creditori sociali sul patrimonio personale del socio, con la differenza che i creditori verso la società che ha costituito il patrimonio destinato non possono chiederne la liquidazione, né godono del beneficio di escussione.

[83] Il concetto di fatto illecito ricomprende ogni comportamento che, pur non configurando astrattamente un reato, integri una condotta comunque illecita in quanto in contrasto con norme imperative, di ordine pubblico, di buon costume o, comunque, riprovevole secondo la coscienza collettiva del tempo perché produttivo di responsabilità civile, sia essa contrattuale che extracontrattuale.

[84] Sembra però più opportuno assoggettare al dettato della norma in esame soltanto le obbligazioni derivanti da illecito extracontrattuale.

[85] La suddetta tendenza ha preso forma ed è stata utilizzata negli Stati Uniti per privilegiare i titolari di un credito per risarcimento di danni a discapito in questo caso della persona giuridica. I crediti da risarcimento spesso sono di entità tale da non poter essere soddisfatti dalla persona giuridica con il suo patrimonio; da qui il conseguente allargamento della responsabilità al di là della limitazione connessa alla persona giuridica.

[86] La Rosa F., op.c it.

[87] La differenza tra le une e le altre era netta: le azioni rappresentavano il c.d. finanziamento di rischio, le obbligazioni il c.d. finanziamento di credito.Le prime erano emesse a fronte di un conferimento a capitale, le seconde a fronte di un prestito. L’azionista aveva voce all’interno della società, l’obbligazionista ne era estraneo. Il capitale non poteva esser restituito ai soci se non dopo il pagamento di tutti i debiti, ivi compresi quelli relativi alle obbligazioni emesse. Vero è che il codice prevedeva già più categorie di azioni, due facenti riferimento a situazioni particolari (le azioni di godimento e le azioni a favore dei prestatori di lavoro) e due di più generale utilizzabilità: le azioni privilegiate e le azioni a voto limitato; ma l’emissione di queste ultime si confrontava con una duplice prescrizione: non poter superare la metà del capitale sociale e dover riconoscere un privilegio nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale.

[88] Ad esempio si può far riferimento alle obbligazioni convertibili (cui è stato giocoforza riconoscere diritti fino allora propri dell’azionista, come il diritto di opzione) e alle azioni di risparmio (della cui natura si è, non per nulla, dubitato). Ma la prassi ha aggiunto altri strumenti di attrattiva per il mercato, come il warrant, le obbligazioni postergate e così via.

[89] Ma non è chiaro se questi strumenti debbano esser considerati titoli di partecipazione o di debito. In ogni caso non dovranno confondersi con le azioni correlate di cui all’art. 2350, 2° comma.

[90] Bozza G., op. cit; La rosa F., op.  cit.

[91] Niutta A., Gli strumenti finanziari nella riforma della società di capitali – Strumenti finanziari nei patrimoni destinati ex art. 2447/bis, I comma, lett. a): un nuovo mezzo di finanziamento nel diritto, delle società per azioni e un nuovo prodotto finanziario per il mercato? in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2006, fasc. 1-3, pagg. 235 ss

[92] Questo schema richiama forti analogie con le operazioni del project financing, quale tecnica finanziaria diretta a rendere possibile il finan­ziamento di iniziative economiche sulla base della valenza tecnico­economica di un progetto piuttosto che sulla capacità autonoma di indebitamento dei soggetti promotori dell’iniziativa; anche qui, quindi, il progetto viene valutato dal o dai finanziatori principalmente per la sua capacità di generare proventi, che costituiscono la garanzia prima­ria per il rimborso del debito e per la remunerazione del capitale di rischio, attraverso un’opportuna contrattualizzazione delle obbliga­zioni delle parti che intervengono nell’ operazione. Cfr. Niutta A., I patrimoni e finanziamenti destinati, Milano 2006.

[93] In materia di appalti pubblici l’art. 37-septies della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (introdotto dall’art. 11 legge 18 novembre 1998, n. 415) prevede che quando il rapporto di concessione con la società di finanza concessionaria sia risolto per inadempimento del soggetto concedente ovvero quest’ultimo revochi la concessione per motivi di pubblico interesse, sono rimborsati al concessionario alcune somme che “sono destinate prioritariamente al soddisfa cimento dei crediti dei finanziatori del concessionario e sono indisponibili da parte di quest’ultimo fino al completo soddi­sfacimento dei detti crediti”.

[94] La norma si riferisce, evidentemente, alla cartolarizzazione del credito derivante dal finanziamento, per cui è il finanziatore che può cedere il credito al cessionario che, direttamente o tramite altra società veicolo, l’acquista con l’emissione di strumenti finanziari, collocati presso il pubblico, ovvero presso investitori profes­sionali, il cui rimborso è garantito dall’ammontare dei crediti ceduti, l’incasso dei quali va a costituire patrimonio separato presso la società veicolo. E da escludere, invece, che la disposizione richiamata faccia riferimento alla cartolarizzazione dei proventi derivanti dall’esecuzione dell’affare e che dovrebbero costituire il patrimonio separato, sia per la lettera della legge ove è chiaro il riferimento al “finanziamento” e, quindi, al credito derivante dal finanziamento, sia perché le leggi vigenti sulla cartolarizzazione, richiamate dalla disposizione in esame, non comprendono i proventi, ma soltanto i crediti; né infine la cartolarizzazione di cui parla la norma può riferirsi ai crediti derivanti alla società dall’esecuzione dell’affare o per il credito collegato ad un finanziamento promesso ma non ancora attuato, perché, se questo fosse stato l’oggetto dell’operazione, non vi sarebbe stato bisogno di una norma specifica, dato che la cessione di questi crediti, già consentita, non avrebbe alterato il meccanismo del patrimonio separato, in esso confluendo il prezzo della cessione quale provento generato dall’affare. Cfr. Andreani E., Alcune note sul rapporto tra patrimoni destinati (artt. 2447-bis e seguenti) e scelte di finanziamento delle imprese, in Rivista Impresa, 2004, fasc. 3, p. 600 ss.

[95] Qualora non si condivida l’esistenza di un rapporto sinallagmatico con l’uti­lizzo convenuto, quanto meno l’uso diverso dovrebbe incidere sul piano dell’efficacia come condizione risolutiva del finanziamento. Cfr. Potito L., Patrimoni destinati … all’insuccesso? in Le Società, 2006, fasc. 5, pagg. 545-550; Potito L., Patrimoni destinati, problematiche contabili e di bilancio, in Le Società, 2006, fasc. 5, p. 545 ss.

[96] I proventi sono evidentemente quelli di cui al n. 5 della lett. a) dell’art. 2425 c.c., ossia i ricavi non derivanti dall’attività principale dell’impresa, e non aventi carattere finanziario nè straordinario, ossia il ricavo lordo derivante dall’affare che confluisce in questo “fondo” destinato alla soddisfazione del finanziatore prima ancora di entrare nel patrimonio generale della società; questo spiega perché le parti possono convenire che al rimborso siano destinati soltanto parte dei proventi (quelli sottratti alla garanzia degli altri creditori essendo destinati “in via esclusiva” al rimborso del finanziatore), nel mentre la restante parte che, entrata nel patrimonio della società si confonde con gli altri componenti attivi e passivi del reddito, può essere utilizzata per il pagamento dei costi per l’esecuzione dell’ affare e delle imposte. Cfr. Bitetti G., I patrimoni destinati nella riforma del diritto societario, in Impresa, 2003, fasc. 5, p. 1000 ss.

[97] Dunque le considerazioni sin qui svolte sul modello di patrimonio dedicato di cui alla lett. b) dell’art. 2447-bis evidenziano come elementi fondamentali siano la società finanziata e il finanziatore, che sono le parti del contratto di finanziamento, mentre rimangono nell’ombra i credi­tori sociali anteriori alla costituzione. Cfr. Salamone L., Il finanziamento dei patrimoni destinati a specifici affari, art. 2447-bis, 1° comma lett. a), c.c. in Giurisprudenza commerciale,  2006, fasc. 2, p. 235 ss.

[98] La società, in realtà, attua una nuova iniziativa che viene finanziata da un terzo of­frendo al finanziatore la possibilità di rientrare attraverso un flusso pro­grammato di danaro, solo a lui destinato, per cui è evidente che la norma richieda un piano economico e finanziario che individui l’affare, ne in­dichi le caratteristiche, ne valuti i costi e ne determini i ricavi, che precisi le necessità finanziarie per la realizzazione, con la conseguente esposi­zione del rischio di credito, le modalità dei rientri, ecc.

[99] In questo, come nell’intera elencazione, il soggetto e il predicato che reggono ogni singola voce sono costituiti da “il contratto deve contenere”, per cui nella fattispecie la dizione letterale è la seguente: “il contratto deve contenere i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione”; poiché è difficile che i beni strumentali possano essere racchiusi nel contratto, è chiaro che si doveva dire che “il contratto deve indicare i … “, oppure, se si voleva mantenere l’impostazione data, che “il contratto deve contenere l’indicazione dei…”.

[100] Questa finalità fornisce anche la spiegazione del perché il legislatore abbia parlato soltanto di beni strumentali (in senso di attrezzature e impianti finalizzati alla realizzazione dell’affare) e non di altri beni.

[101] L’attenzione posta dal legislatore al raggiungimento dello scopo prefissato emerge più chiaramente dalla lett. d), per la quale il contratto deve, inoltre, indicare “le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di esecuzione del contratto e di corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione”; il finanziatore fa un investimento legato alla realizzazione di un affare ed ha quindi interesse che questo sia portato a termine e nel migliore dei modi, il che spiega perché possano essere previste anche delle garanzie a questo fine e perché il finanzia­tore possa direttamente o tramite soggetto da lui delegato, effettuare controlli sull’esecuzione dell’operazione (lett. e).  Si tratta dei controlli per verificare se il progetto viene realizzato secondo i tempi e le modalità previste e se esso ha la capacità di funzionare secondo le clausole previste nel contratto e, pertanto, se esso è idoneo a di generare i flussi di cassa necessari a rimborsare i debiti contratti con il finanziatore. Nella specie il controllo del finan­ziatore (su cui si tornerà nel paragrafo successivo) o di un suo delegato, che non trova un esatto corrispondente nell’altro modello operativo (ove tale potere è previsto soltanto per i rappresentanti comuni dei possessori di strumenti finanziari dall’art. 2447-octies, comma primo, n. 1) si spiega anche con la possibilità di aggiustamenti del contratto in corso d’opera. Nel modello in esame la fonte contrattuale dell’iniziativa e le modalità dell’operazione (che coinvolge limitatamente i creditori) consentono, infatti, interventi durante l’esecuzione dell’ affare per me­glio regolamentarne lo svolgimento in relazione all’andamento dello stesso, di modo che quando questo non esprime i livelli di performance attesi, potranno essere attivati non solo quegli strumenti tecnici volti a riportare l’operazione nelle condizioni di erogazione di prestazioni previsti dal contratto, ma potranno anche essere attuate altre forme di interventi e di garanzia, con accordi da depositare presso l’ufficio del registro delle imprese, che costituisce l’unica forma di pubblicità prevista nella fattispecie.

[102] Si potrebbe anche pensare che con detta espressione il legislatore abbia inteso dire che se la garanzia copre l’intero finanziamento non va indicata nel contratto, ma una tale interpretazione sarebbe priva di una logica spiegazione; a maggior ragione, anzi, una garanzia a copertura dell’intero credito dovrebbe essere indicata nel contratto reso pubblico con il deposito.

[103] Né va in senso contrario il sopra richiamato quarto comma perché lì si parla non della priorità delle garanzie, ma della alternatività delle stesse, prevedendosi, nel momento in cui si precisa che il finanziatore può soddisfarsi esclu­sivamente sul patrimonio separato, l’ipotesi che sia stata data una forma di garanzia ulteriore, nel qual caso la soddisfazione (della parte rimbor­sabile col patrimonio separato) non è più limitata ai proventi segregati.

[104] A questo fine la lett. b) del terzo comma della norma in esame richiede che la società “adotti sistemi di incasso e di contabilizzazione idonei ad individuare in ogni momento i proventi dell’ affare ed a tenerli separati dal restante patrimonio della società”.

[105] È chiaro che questi problemi si pongono anche nel momento costituivo, dato che è in quella fase che la norma richiede alla società un determinato comportamento che condiziona la costituzione del patrimonio separato, ma in quel momento l’impatto ricostruttivo è più limitato sia perché, probabilmente, il finanziatore prende la cautela di non effettuare l’erogazione prima del compimento della richiesta pubblicità e del controllo della regolarità dei sistemi contabili, sia perché, visto dall’altra parte, la mancata costituzione della separazione rappresenta la continuazione del pregresso sistema di responsabilità, per cui nulla cambia per i creditori.

[106] Essendo fin dall’inizio detti proventi destinati alla soddisfazione del finanziatore, il vincolo di destinazione creato limita la libera dispo­nibilità degli stessi da parte della società, per cui investimenti saranno possibili solo di concerto con il creditore; questo è tanto più necessario in quanto qualsiasi investimento presenta un’alea che non può farsi ricadere sull’inconscio finanziatore. In mancanza di qualsiasi indica­zione è da ritenere che, con l’accordo del creditore, la società possa investire i proventi dell’affare in qualsiasi operazione, il cui rischio massimo deve essere rappresentato dalla perdita della somma investita in modo da non far ricadere l’alea di un pessimo investimento sul restante patrimonio sociale a disposizione dei creditori. Cfr. Santagata R., Patrimoni destinati e rapporti intergestori, Torino 2005.

[107] Un addentellato in questo secondo senso lo si coglie nell’ultimo comma della norma in esame, ove si dice che la nota integrativa relativa ai beni di cui al quarto comma deve contenere l’indicazione dei vincoli relativi ai beni, ma sorge il fondato sospetto che vi sia un errore nel richiamo del comma; probabilmente il legislatore intendeva riferirsi al quinto comma, ove si tratta del vincolo sui beni strumentali di cui si è detto, e non al quarto, ove si accenna soltanto agli investimenti al solo scopo di precisare che i frutti dello stesso rientrano nel patrimonio separato, ma non si parla di alcun vincolo sull’oggetto dell’investimento.

[108] Locoratolo S.,  Patrimoni destinati e insolvenza, Napoli 2005.

[109] Come modificato dal D.Lgs. 310/2004, recante le “Integra­zioni e correzioni alla disciplina del diritto societario ed al testo unico in materia bancaria e creditizia”. Tale modifica (cfr. art. 20 del suddetto decreto) alla più generica precedente disposizione in base alla quale “Si applicano in tal caso, in quanto compatibilz; le disposizioni sulla liquidazione della società”, è stata l’unica ad interessare l’intera disciplina dell’istituto dei patrimoni destinati ad uno spe­cifico affare e senza, tra l’altro, considerevoli cambiamenti. Anche in tal caso l’esigenza – espressa nella Relazione che accom­pagna il decreto correttivo – “di contenere al minimo le modlficazioni ( … ) per­ché è necessario che la riforma viva nell’esperienza della pratica prima di poter es­sere sottoposta ad un completo esame consuntivo sulla sua efficienza (. .. )”, non può giudicarsi legittima di fronte alla vigente mancanza di coordinamento e all’esistenza di vuoti normativi e interpretativi nel regolare la dinamica fallimentare dei patrimoni destinati; che non può certamente essere lasciata all’interpreta­zione degli operatori pratici.

[110] Per ulteriori più recenti contributi in tema di insolvenza dei patri­moni destinati, cfr. Caiafa A., Il patrimonio destinato: profili lavoristici e fallimen­tari, in Il diritto fallimentare, n. 3-4, 2004;  Falcone G., Patrimoni «destinati» e finanziamenti “dedicati”: la posizione dei creditori e le prospettive concorsuali, in Diritto della banca e del mercato finanziario, n. 2, 2005; Laudonio A., Patrimoni destinati e insolvenza: una prospettiva comparatistica, in Banca borsa e titoli di credito, n. 3, 2006; Meoli B., Patrimoni destinati e in­solvenza, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 2, 2005; Salamone L., I patrimoni destinati a speczfici affari nella s.p.a. riformata: insolvenza, esecuzione individuale e concorsuale, in Rivista dell’esecuzione forzata, n. 1, 2005; Stesuri A., Patrimoni destinati: problemi applicativi in ambito fallimentare, in Diritto e pratica delle società, n. 6, 2005; Terrusi F., I patrimoni delle società per azioni destinati a uno specifico affare: analisi della disciplina e verifica degli effetti, in Giustizia civile, n. 3, 2005; Tomasi T., Novità concorsuali in tema di patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Impresa Commerciale Industriale, n. 12,2005.

[111] Cfr. art. 2447 novies, co. 2, c.c. La richiesta va avanzata mediante let­tera raccomandata da inviare alla società. La liquidazione del patrimonio desti­nato avverrà esclusivamente secondo le disposizioni sulla liquidazione delle società di cui al capo VIII, laddove compatibili. Si ritiene, infine, che essa deve essere realizzata dagli stessi amministratori. Cfr. Stesuri A., Patrimoni destinati: problemi applicativi in ambito fallimentare, in Il Sole 24 Ore – Diritto e Pratica delle Società 11 aprile 2005, n. 6, p. 28 ss.

[112] Cfr. art. 2447 novies, co. 3 c.c

[113] Trattasi quindi di una disposizione posta quale deterrente contro azioni volte a far rientrare, prima della richiesta di liquidazione, beni del patri­monio destinato nel patrimonio generale al solo scopo di sottrarli alla liquida­zione stessa. Cfr. Meoli B., Patrimoni destinati e insolvenza, in Fallimento, 2005, fasc. 1, pag. 113 ss.

[114] In tal senso: Tomasi T  op. cit., pp. 50-51.

[115] Cfr. Ciampi F., Patrimoni e finanziamenti destinati in rapporto con le regole del concorso fallimentare, in Le Società, n. lO, 2004, p. 1213.

[116] In tal senso, tra gli altri: Vincre S., Patrimoni destinati e fallimento, in Giurisprudenza commerciale, n. 1, 2005, pp. 129-135. Secondo tale autore, peraltro, la possibilità per i credi­tori particolari di soddisfarsi sul patrimonio destinato (senza che questo venga annesso al residuo patrimonio generale) è subordinata non alla richiesta di li­quidazione del patrimonio separato, atteso che detta liquidazione è conse­guenza diretta della sentenza di fallimento della società, ma alla dichiarazione di ricoprire la qualifica di creditore particolare. In mancanza, a detta dell’autore, il patrimonio destinato si confonderebbe con il patrimonio generale della società, a beneficio di tutti i creditori.

[117] Si vedano anche le indicazioni ivi fornite per l’imputazione delle spese per la procedura fallimentare (ad esempio, per la custodia e l’amministrazione dei beni delle due porzioni patrimoniali), nonché per quelle generali di procedura (ad esempio, il compenso del curatore, del legale, ecc.). L’autore precisa, ancora, che per il creditore per spese generali della società, potrebbero aver si due soluzioni con riguardo alle proprie ragioni di credito, ovvero quella di presentazione di un’unica domanda di insinuazione al passivo o, al contrario, di due distinte domande

[118] Ciò è stato recentemente confermato dall’art. 155 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (rubricato “Patrimoni destinati ad uno specifico af­fare”), come modificato dall’art. 137 del D.Lgs. 05/2006 recante la “Riforma organica delle procedure concorsuali”, secondo il quale: “Se è dichiarato il falli­mento della società, l’amministrazione del patrimonio destinato (. .. ) è attribuita al curatore che vi provvede con gestione separata. Il curatore provvede a norma dell’art. 107 alla cessione a terzi del patrimonio al fine di conservarne la funzione produttiva. Se la cessione non è possibile, il curatore provvede alla liquidazione del patrimonio secondo le regole della liquidazione della società in quanto compatibili. Il corrispettivo della cessione al netto dei debiti del patrimonio o il residuo attivo della liquidazione sono acquisiti dal curatore nell’attivo fallimentare, de­tratto quanto spettante ai terzi che vi abbiano effettuato apport/~ ai sensi dell’ arti­colo 2447-ter, primo comma, lettera d), del codice civile”.

[119] Ciampi F., op. cit., p. 1215. Del resto, poi, è quello che è espressamente previsto in caso di fallimento della società che abbia fatto ricorso al modello finanziario. Cfr. art. 2447 decies, co. 6, c.c.

[120] Sembra, ad evidenza, più probabile, nell’ipotesi in esame, la sussi­stenza di un residuo attivo atteso che i singoli patrimoni destinati non sono la causa del fallimento, presentando, al contrario, un netto patrimoniale posi­tivo, laddove nell’ipotesi d’insolvenza del pa­trimonio destinato e non della società è maggiormente plausibile dopo liquida­zione la sussistenza di un residuo passivo, per le ragioni inverse. Nel primo caso, allora, la liquidazione avverrà, di norma, in blocco, ovvero liquidando l’intero ramo d’azienda o attività per la quale era stato istituito il patrimonio destinato.

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