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La responsabilità della struttura sanitaria per i danni derivati al feto ed ai genitori in conseguenza del parto tardivo

Il caso – Tribunale di Marsala, sez. civ., sentenza del 27.02.2008

A seguito di un trauma da asfissia generato da una non infrequente complicanza, durante la gravidanza, un nascituro subiva danni corrispondenti ad una invalidità permanente del 100%. I genitori, in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sul figlio minore, agivano nei confronti dei medici intervenuti e dell’ente ospedaliero, per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non, patiti a causa di una inesatta procedura di induzione al parto e di una asserita non tempestiva estrazione del feto in stato di sofferenza asfittica, condotte, queste, che secondo l’assunto attoreo avrebbero determinato l’invalidità del figlio.

Il Tribunale, esclusa la sussistenza di un nesso causale tra il procedimento di induzione al parto e la sofferenza fetale acuta, determinata dall’evento naturale del c.d. “giro di funicolo”, riconosceva invece una responsabilità, in capo all’ente ospedaliero ed all’anestesista, per il ritardo di quaranta minuti intercorrente tra l’inizio effettivo dell’estrazione del feto ed il momento in cui esso sarebbe dovuto cominciare.

In particolare, la responsabilità dell’ospedale veniva configurata nel non aver predisposto un reparto autonomamente attrezzato per interventi chirurgici, in violazione del contratto di spedalità; la responsabilità dell’anestesista, nell’aver optato per l’anestesia spinale anziché per quella generale, determinando un ulteriore ritardo di venti minuti, addebitabile a titolo di responsabilità contrattuale derivante da contatto sociale.

Nel risarcire il danno, la Corte di merito riconosceva, al minore, oltre al danno patrimoniale, il danno biologico, quello morale e anche quello esistenziale, individuato nella permanente alterazione delle abitudini e degli interessi relazionali derivanti dall’invalidità. Riconosceva infine ai genitori del minore le spese patrimoniali di assistenza e di accompagnamento presenti e future, nonché il danno morale e, pure in questo caso, quello esistenziale.

Il ritardo quale fonte di danno

La pronuncia in esame fornisce una lucida e chiara ricostruzione delle maggiori problematiche e degli attuali orientamenti in tema di responsabilità medica e di danno risarcibile.

Prima di analizzare approfonditamente questi due profili giova sottolineare come entrambi trovino un condizionamento nella configurazione della fattispecie concreta.

La menomazione subita dal neonato viene collegata causalmente in parte ad un evento  naturalistico non prevedibile né prevenibile – e dunque non imputabile-, in parte al comportamento dell’azienda ospedaliera e dell’anestesista, comportamento estrinsecatesi in un ritardo nell’estrazione del feto in condizione asfittica, che avrebbe avuto un rilievo assolutamente preminente nell’aggravarsi delle condizioni del nascituro.

Il fatto che responsabilità e danno derivino da un ritardo conduce necessariamente ad affrontare delle considerazioni, anche alla luce di recenti pronunce giurisprudenziali.

In particolare, il ritardo, non costituendo a rigore una mancata esecuzione della prestazione dovuta ma solo una postergazione della stessa, è normalmente qualificato come ipotesi di inesatto adempimento, fatti salvi i casi in cui il termine fosse termine essenziale. Lo stesso art. 1218 c.c. del resto affianca al vero e proprio inadempimento il mero ritardo, come ipotesi di inesatto adempimento.

In questo senso la sentenza in commento costituisce una coerente applicazione di quanto affermato dalle Sezioni Unite con la nota sentenza n. 13533 del 2001, in relazione agli oneri probatori gravanti su chi deduca l’inesatto adempimento. Oltre a contestare la fittizia distinzione tra azioni di risoluzione o risarcimento e adempimento infatti, la Cassazione privava di legittimazione il precedente orientamento in base al quale, se avesse agito per l’inesatto adempimento, l’attore, avendo implicitamente ammesso che un adempimento c’era pur stato, si sarebbe gravato dell’onere di provarlo, in deroga a quanto di regola accade in materia di responsabilità contrattuale. La distinzione veniva contestata, non trovando un appiglio nel testo dell’art. 1218 c.c., il quale prevede una disciplina per chi “non esegue esattamente”, senza distinguere tra una totale inesecuzione ed una parziale inesecuzione, e senza giustificare dunque una differente disciplina.

Ancora, l’omessa estrazione del feto entro il lasso temporale minimo necessario, il ritardo, che a sua volta trova la propria causa in una omissione da parte dell’Ente ospedaliero ed in una responsabilità commissiva ascrivibile all’anestesista (è stato l’aver errato nella somministrazione dell’anestetico a determinare inevitabilmente un ulteriore ritardo nell’estrazione del feto), va collegato all’evento-danno secondo le regole della causalità omissiva. Si accertava dunque, alla stregua di un giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza e di leggi scientifiche, che, ipotizzandosi come realizzata dal medico e dall’Ente ospedaliero la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato.

Giova qui sottolineare che l’evento imputato a titolo di colpa all’anestesista ed all’Ente ospedaliero è costituito dall’aggravamento delle condizioni del neonato, non dalla condizione finale in sé e per sé considerata. Contribuiva all’esito finale anche un evento naturale non prevedibile né prevenibile, che andava certamente ad influire sull’esito finale, avendo esso stesso innescato il procedimento causale, ma che non era tale da interrompere il nesso causale tra comportamento omissivo e danno (art. 41 co. 2 c.p., in combinato disposto con l’art. 45 c.p.). La concausa preesistente non escludeva il nesso di causalità tra l’omissione e l’evento, in quanto sarebbero residuati notevoli spazi per un’azione medica atta a contenere gli effetti dell’evento naturalistico.

In questo senso è necessario sottolineare che il danno cui ci si riferisce, addebitandolo all’inadempimento in parte dell’Ente ospedaliero, in parte dell’anestesista, è quello dell’aggravamento delle condizioni del neonato, non dell’esito finale delle sue condizioni. Non si cada nell’equivoco dunque di confondere le percentuali di danno imputabili alla condotta umana, quantificate nel 70% del danno finale, e all’evento naturalistico (30%), con le percentuali probabilistiche che avrebbero ricollegato il danno alla condotta. La percentuale viene riferita al danno, non al nesso di causalità, che sembra superare di gran lunga le soglie del 70%, in assenza di concause che nel caso concreto abbiano inciso sull’aggravarsi della situazione del nascituro.

La pronuncia in esame ancora una volta ricostruisce la fattispecie in ossequio a dettami forniti da autorevole giurisprudenza (si tratta dell’ormai notoria sentenza “Franzese”, n. 30328 del 2002), stabilendo con ragionevole certezza che se l’Ente ospedaliero avesse provveduto all’adeguata predisposizione di un Reparto autonomamente attrezzato per interventi chirurgici interni d’emergenza, l’estrazione del feto sarebbe stata anticipata di venti minuti. Ancora, se l’anestesista avesse optato per l’anestesia spinale, anziché per quella generale, l’operazione avrebbe potuto avere inizio con un ulteriore anticipo di venti minuti. In assenza di ulteriori fattori causali, l’aggravamento della condizione del feto, individuato nel 70% dell’esito finale, viene eziologicamente ricollegato, con ragionevole certezza, al sommarsi di questi due ritardi, imputabili in parti uguali all’Ente ospedaliero ed all’anestesista.

A precisazione delle affermazioni fatte, giova sottolineare che, avendo invocato gli attori una responsabilità di tipo contrattuale, a rigore il nesso di causalità tra condotta ed evento passerebbe in secondo piano, rilevando invece più propriamente sul piano probatorio il collegamento tra inadempimento e danno. Secondo la prospettiva della responsabilità contrattuale infatti – in verità non senza difficoltà di trasposizione in campo medico, soprattutto quando si tratti di responsabilità omissiva o “da ritardo”- in virtù del pregresso rapporto tra debitore e creditore, l’individuazione del soggetto responsabile, che ha “cagionato” il danno, cadrebbe sempre inevitabilmente sul debitore rimasto inadempiente. Pertanto la causalità opererebbe non già tra fatto ed evento (chè il comportamento inadempiente genera di per sé inadempimento), ma tra evento e danno, per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile.

L’indagine del resto si muove su un difficile terreno. Come sottolineato dalla sent. n. 21619 del 2007, che rivendica peraltro un’autonoma ricostruzione del nesso causale in sede civile rispetto a quella penale (e ci si riferisce ancora alla sent. “Franzese”), gli artt. 1227 e 2043 c.c. strutturano, rispettivamente, il rapporto tra fatto – doloso o colposo- ed evento – dannoso- in termini di “cagionare”, senza ulteriori specificazioni, lasciando aperte numerose problematiche in merito alle differenze tra causalità materiale e giuridica, al criterio di collegamento da adottare (alto grado di probabilità, probabilità, seria e grave possibilità, semplice possibilità) tra la condotta e l’evento di danno, nonché della collocazione del caso fortuito nell’ambito della colpa  o del nesso causale.

D’altra parte lo stesso fatto che l’art. 1227 c.c. co. 2, sicuramente riferibile a casi di responsabilità contrattuale, preveda l’ipotesi in cui il fatto del creditore/danneggiato intervenga a spezzare il legame causale tra comportamento del soggetto agente ed evento, escludendo la totale imputabilità del fatto all’agente, e limitando di conseguenza la responsabilità di quest’ultimo, sta a significare che pure in ambito contrattuale rileva il nesso comportamento-evento.

Del resto anche la recente pronuncia Sez. Unite, n. 577 del 2008, citata dallo stesso giudice di merito, afferma che “l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.”

Ad ogni modo, non essendo questa la sede per ulteriori approfondimenti, ciò che emerge nettamente in sede di legittimità (cfr. anche Cass. n. 4400 del 2004 e Cass. n. 7997 del 2005), è che il metodo di accertamento rigorosamente delineato in sede penale, è necessario in virtù di un codice di rito che richiede al giudice la certezza, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato (art. 27 Cost.), ma è estraneo ad un processo come quello civile, dove l’accertamento causale può aversi anche per presunzioni (art. 2727 c.c.), e dove lo stesso termine “accertamento”, accontentandosi di un parametro probabilistico, finisce con l’apparire improprio.

Quanto alla sentenza in esame, il fatto che i venti minuti ascrivibili all’Ente ospedaliero abbiano riguardato una prima fase della sofferenza fetale, ed i secondi, ascrivibili al comportamento dell’anestesista, ne abbiano provocato la permanenza, avrebbero potuto indurre ragionevolmente l’organo giudicante a verificare se l’incidenza sull’esito finale di ciascun ritardo fosse stata effettivamente la stessa. Infatti, pur trattandosi di lassi temporali equivalenti, non stupirebbe riscontrare che il permanere in stato asfittico del feto comporti un aumento esponenziale, più che graduale, delle conseguenze sulle condizioni dello stesso. Tuttavia, queste considerazioni, tutte da verificare peraltro sul piano scientifico, nulla tolgono alla encomiabile linearità della pronuncia in esame.

Contratto di spedalità e responsabilità dell’ente ospedaliero

Una volta accertato che il ritardo di venti minuti nell’inizio dell’operazione di estrazione del feto aveva determinato un aggravamento delle condizioni del nascituro, e che tale ritardo era stato causato dalla mancata presenza dell’equipe operatoria sul posto (due medici ostetrici-ginecologi ed un anestesista) e dai conseguenti tempi tecnici di raggiungimento dell’ospedale e della sala operatoria da parte dei medici reperibili, spettava al Tribunale stabilire se tra gli obblighi gravanti in capo all’ospedale vi fosse anche quello di garantire la presenza dell’equipe operatoria sul posto.

L’originario orientamento (Cass. 21 dicembre 1978), che pur riconosceva l’esistenza di un rapporto contrattuale tra struttura ospedaliera e privato (chè non assumeva rilievo il fatto che l’obbligo di pagamento del corrispettivo non fosse stato attuato dal privato ma dallo Stato o da un’assicurazione privata), ricostruiva il rapporto dando applicazione in via analogica alla disciplina del contratto d’opera professionale. In questo modo dunque, similmente a quanto affermato da chi sosteneva l’applicabilità dell’art. 1228 c.c., 2049 c.c. o addirittura la sussistenza di una “immedesimazione organica” tra l’ente e il proprio dipendente, focalizzando l’attenzione unicamente sulla prestazione fornita dal medico, qualsiasi disfunzione che non fosse stata a questi riconducibile non era oggetto di imputazione a titolo contrattuale. In assenza di una responsabilità relativa all’esecuzione del contratto d’opera, nulla poteva essere eccepito all’ente ospedaliero.

Al contrario, recependo quanto già da lungo tempo sostenuto in dottrina e oggi accolto anche in sede giurisprudenziale, la Corte di merito ritiene che tra le obbligazioni assunte dall’ente ospedaliero al momento della stipula del contratto con il paziente, vi siano non solo quella di assicurare la prestazione medica richiesta (per cui il parametro saranno effettivamente le prestazioni eseguite dal personale dipendente), ma anche altre obbligazioni funzionali e strumentali alla realizzazione di questa prestazione medica, derivanti anche dagli obblighi di buona fede previsti dall’art. 1175 c.c.. Tali obblighi, definiti di c.d. protezione o accessori, che insieme considerati costituiscono e delimitano il “contratto di spedalità”, vanno ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, quali il servizio di ristorazione o il ricovero nelle proprie strutture, e comprendono “anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni” (Cass. civ., Sez. Un., n. 577 del 2008).

Peraltro tali pronunce, con quella in esame, pongono fine anche ad un’altra incertezza interpretativa, sorta dalla stessa constatazione dell’essere il contratto di spedalità (o di assistenza sanitaria) un contratto complesso atipico. Come accade spesso in tema di contratti atipici infatti (si pensi al caso del leasing) il problema della qualificazione, e del conseguente assorbimento del contratto in una disciplina negoziale, aveva finito col costringere il negozio atipico entro confini che non gli sono propri. Così, in tema di contatto di spedalità, non erano mancati  i sostenitori della necessaria applicazione, in virtù del principio di prevalenza della disciplina prevista per la prestazione principale, della normativa relativa al contratto d’opera professionale, con conseguente vanificazione di ogni tentativo di individuare un’autonoma responsabilità dell’ente ospedaliero.

Altro punto, su cui si esprime la pronuncia in commento, è quello relativo alla delimitazione concreta dell’obbligo di “buona organizzazione” gravante sull’ente ospedaliero, ossia su quali norme debbano concorrere a definire questo concetto (similmente al “buon andamento” di cui all’art. 97 Cost.) di per sé stesso abbastanza generico. Da alcuni sono stati invocati il concetto di “rischio d’impresa” gravante su chi la esercita, la clausola generale della buona fede nell’esecuzione della prestazione contrattuale, e la stessa identificazione del paziente come un consumatore (1469-bis c.c.), alle prese con beni di consumo ben più meritevoli d tutela dei beni di consumo.

La sentenza in esame sembra più propensa a valutare l’adeguatezza delle prestazioni fornite dall’ente ospedaliero attraverso il parametro di specifiche previsioni, quali il d.p.r. 14.01.1999, rubricato “Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private”, il decreto dell’Assessore per la Sanità della Regione Sicilia del 26.02.2006, nonché dalla stessa contrattazione collettiva nazionale del settore medici (Ccnl del 05.12.1995 e del 08.05.2000). Tali previsioni, costituenti specificazione dell’obbligo generale di “buona organizzazione”, sono state ritenute dal Tribunale idonee a fondare l’obbligo dell’ente ospedaliero di assicurare la presenza in loco di una equipe operatoria, anche in considerazione della natura stessa dell’attività medica svolta, e “dell’elevato grado di imprevedibilità che connota il momento preciso della nascita ed i rischi di complicanze connaturali alla gravidanza”.

Del resto è condivisibile la considerazione per cui, considerata l’elevata incidenza in termini percentuali, ciò che singolarmente è imprevedibile, diventa, se considerato in termini di attività continua e prolungata, prevedibile. Diventa perciò esigibile un certo livello, anche quantitativo, di prestazione, in modo da non creare fasce temporali non protette, anche in virtù della “natura inviolabile e costituzionalmente garantita dei beni vita e salute, tanto della madre quanto dell’infante, su cui incide la prestazione di assistenza medica in esame”.

D’altra parte, proprio la natura dei beni tutelati impone al Tribunale di definire il contratto di spedalità in esame come un contratto ad effetti protettivi nei confronti del nascituro. Ciò accade, come è noto, quando il contratto ha ad oggetto una pluralità di prestazioni in cui accanto ed oltre al diritto alla prestazione principale, è garantito e rimane esigibile un ulteriore diritto di carattere accessorio e derivante dai doveri di protezione, a ce non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. Si pensi al caso di nascita indesiderata, e all’inadempimento nei confronti, oltre che della madre, anche del padre. Si pensi ancora, all’azione contrattuale di danni che hanno i familiari di fato conviventi con il portiere contro il condominio che aveva fornito al portiere stesso un alloggio umido e malsano (App. Roma, 30 marzo 1971).

La necessità di protezione si fa ancora più chiara nel caso di specie, ove si consideri l’obbligo di protezione scaturente dall’attività medica, obbligo che è stato poto a fondamento della stessa figura della responsabilità sociale da contatto sociale, e che induce a fornire di una autonoma tutela anche chi, al moment della prestazione, era ancora privo di capacità giuridica.

La responsabilità da contatto sociale ed il ruolo dell’equipe medica

L’ulteriore ritardo di venti minuti nell’estrazione del feto, viene addebitato alla “improvvida” scelta dell’anestesista di praticare una anestesia spinale, che richiede tempi di attuazione e di attesa più lunghi, anziché quella generale. Tale comportamento inoltre viene supportato dall’elemento soggettivo della colpa, perché, sebbene in linea di principio l’anestesia spinale sia da preferirsi, essa è sconsigliata nei casi in cui la situazione imponga un intervento immediato, come accadeva nel caso di specie. L’anestesista dunque, nel non considerare le esigenze del caso, incorreva in errore, tenendo un comportamento non conforme agli obblighi di diligenza e perizia che su di esso gravavano.

La responsabilità viene individuata dal Tribunale secondo lo schema, ormai comunemente accettato dal diritto vivente, della responsabilità contrattuale da “contatto sociale”. Come già si riconosceva con la famosa sent. 589/1999, l’art. 1173 c.c. riconosce come fonti di obbligazione non solo il contratto e il fatto illecito, ma anche qualsiasi altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. In alcuni casi, un mero rapporto di fatto, un mero contatto sociale, viene considerato idoneo, in ragione della funzione protettiva che una parte assume nei confronti dell’altra, a generare la c.d. “obbligazione senza prestazione”, ossia a vincolare il soggetto sotto un profilo che è effettivamente di tipo contrattuale.

In particolare, la responsabilità da contatto sociale del medico è stata giustificata in ragione del valore, come si diceva, dei beni oggetto della sua prestazione, essendo essi costituzionalmente protetti (art. 32 Cost.). Ciò si riverbera anche sulla natura, per così dire “protetta”, dell’attività medica, in quanto necessitante di una abilitazione da parte dello Stato (348 c.p.). Entrando in contatto col paziente, il sanitario viene gravato da un obbligo di protezione nei suoi confronti, obbligo che dovrà adempiere con il rispetto degli obblighi di diligenza gravanti su ogni parte contrattuale, a maggior ragione se trattasi di professionista.

Emerge così la rilevanza pratica che, più di tante elaborazioni teoriche, ha legittimato la suddetta ricostruzione: la necessità di dotare il paziente di una adeguata forma di tutela. Quando il paziente (che ha stipulato un contratto con l’ente ospedaliero) viene affidato alle cure del medico (a sua volta legato all’ente da un contratto di lavoro dipendente) si determina un contatto sociale qualificato, ossia un rapporto contrattuale di fatto, in ragione del quale il sanitario è obbligato a tenere gli stessi comportamenti specifici a cui sarebbe tenuto se fosse egli stesso parte del contratto col paziente. Da tale contratto non derivano obblighi di prestazione, ma solo doveri di protezione, che, però, non possono che essere ontologicamente identici ai primi. Pertanto, la responsabilità del medico per inadempimento o inesatto adempimento sarà di natura contrattuale, e sarà quella tipica del professionista. Ne consegue che rileveranno il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto al regime di ripartizione dell’onere probatorio e i principi del contratto d’opera intellettuale professionale, relativamente alla diligenza ed al grado della colpa.

Tale tipo di ricostruzione peraltro sembra trovare ad oggi ampio accoglimento sia in campo dottrinale che giurisprudenziale, tanto che alla responsabilità da contatto sociale del medico si sono affiancate altre ipotesi, quale ad esempio la responsabilità della banca che paga assegno circolare a persona diversa dal legittimato (Cass. civ., Sez. Un., 29 giugno 2007, n. 14712), o quella dell’insegnante in caso di danno autocagionato dall’allievo (Cass. civ., Sez. Un., 27 giugno 2002, n. 9346).

Considerato che al momento della presa in cura della paziente nasceva in capo all’anestesista un dovere di protezione nei suoi confronti nonché nei confronti del feto (ossia con effetti protettivi per il terzo, in virtù del valore dei beni tutelati, come accade per il contratto di spedalità) , che l’errata scelta del tipo di anestesia era stata connotata da colpa e che essa aveva provocato un danno al nascituro rapportato all’entità del ritardo (35% dell’esito finale), appare scontata la responsabilità dell’anestesista a titolo contrattuale nei confronti del neonato.

In realtà la situazione veniva complicata, nel caso concreto, dalla necessità di considerare le conseguenze che di regola si connettono al fatto che ad operare non sia il singolo, ma l’equipe. Come è noto infatti, la circostanza che più professionisti assistano contemporaneamente lo stesso paziente, anche in maniera indipendente, induce a verificare se vi siano degli obblighi specifici di ciascun sanitario di verificare la correttezza dell’operato degli altri. In particolare, se l’assistenza sia data all’interno di una stessa struttura ospedaliera, magari da professionisti dotati di diverse competenze, di norma si suole distinguere il caso in cui non vi sia un rapporto gerarchico all’interno dell’equipe, da quello in cui tale rapporto vi sia. Nel primo caso trova applicazione il noto principio dell’affidamento, che si coniuga, nella fattispecie specifica, come diritto di confidare nella competenza specifica di altri e dovere di non interferire nell’attività altrui. Nel caso in cui invece i membri dell’equipe operino secondo uno schema gerarchico, accanto al principio generale di affidamento (per cui ciascuno risponde solo dell’inosservanza delle leges artis del proprio specifico settore), sorge un dovere di controllo e di sorveglianza in tutti quei casi in cui il collegamento funzionale ed ambientale consenta di accertare comportamenti inadeguati o errori di condotta (si pensi al proposito agli neri di controllo gravanti sulla figura del primario).

Nel caso di specie correttamente il Tribunale opera una considerazione preliminare, attinente allo stesso elemento soggettivo, ossia alla colpevolezza della condotta dell’anestesista. La doverosa opzione per l’anestesia generale anziché per quella spinale, presupponeva la conoscenza dell’estrema gravità delle condizioni fetali e della necessità di procedere immediatamente all’intervento, conoscenza di cui però non si aveva la certezza. Dalle risultanze processuali non risultava provato che gli operatori ostetrici avessero correttamente informato l’anestesista (il che avrebbe escluso la sussistenza di colpa nel suo operato), tuttavia la Corte ritiene di desumerlo da una regola di comune esperienza: “si presume, in altri termini e fino a prova contraria, che un anestesista chiamato ad intervenire d’urgenza s’informi e venga informato delle condizioni della paziente”.

La responsabilità degli altri componenti dell’equipe invece veniva esclusa, per vero un pò frettolosamente, in ragione della “peculiarità e della autonomia” della figura professionale dell’anestesista.

Per vero la nota sentenza 6 aprile 2005, Malinconico e altro, esaminando il caso di un intervento di taglio cesareo nel corso del quale era stata lasciata nell’addome della paziente una garza laparotomica, dalla cui dimenticanza e dai successivi interventi chirurgici, necessitati proprio dall’esigenza di sopperire alle gravi complicazioni alle quali aveva dato luogo la permanenza della garza nell’addome, erano conseguite lesioni gravi per la paziente, la Corte affermava che, nel caso di lavoro svolto in équipe, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto a osservare gli obblighi a ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico. Sottolineava la Suprema Corte che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.

Proprio questo sembra il punto di discrimine tra errore rilevabile da altro specialista e necessario affidamento: la non settorialità, e dunque la riconoscibilità dell’errore. E’ questa la motivazione che giustifica la pronuncia Cass. civ., sez. IV, 12 luglio 2006, in cui la Corte confermava la sentenza di merito che aveva ritenuto corresponsabili della morte di una partoriente, avvenuta nel corso di un intervento di parto cesareo, i due anestesisti, cui era stata addebitata l’effettuazione erronea, nel corso dell’anestesia generale, delle manovre di intubazione che avevano determinato l’evento letale. La Corte, condividendo il ragionamento del giudice di merito, evidenziava che anche il secondo anestesista doveva ritenersi responsabile, per non essersi avveduto della prima manovra di intubazione eseguita dall’altro, onde aveva provveduto a effettuare altra manovra di intubazione, parimenti erronea, in tal modo partecipando attivamente alle fasi dell’intervento da cui era derivata la morte della paziente. Il possesso delle medesime qualifiche e l’adibizione alle medesime mansioni avrebbero dovuto condurre in questo caso i membri dell’èquipe non solo ad avvedersi degli altrui errori, ma anche a porvi rimedio.

Il riconoscimento del danno esistenziale, pericoli di iniusta locupletatio ed il rapporto con il danno psichico

La pronuncia in esame merita interesse anche in ordine a come il Tribunale si esprime sulla questione, ancora tra le più dibattute, della configurabilità dell’autonoma voce di danno c.d. “esistenziale”, e del paventato fenomeno di iniusta locupletatio cui essa darebbe luogo.

Raggiunto faticosamente un accordo sul fatto che il danno morale, consistente nel patema d’animo transeunte (pretium doloris), sia risarcibile nei casi previsti dalla legge, e dunque non solo in presenza di reato, ma anche in caso di lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti; ricondotto anche il danno biologico, quale lesione dell’integrità psicofisica del soggetto, alla sfera del danno non patrimoniale; il dibattito continua ad accendersi in relazione alla figura del danno esistenziale.

Molto si è discusso in ordine a questa categoria di danno, molteplici ne sono state le applicazioni pratiche, più o meno consone alla sua portata originaria.

In particolare, secondo una impostazione per vero assai estensiva, il danno esistenziale si verificherebbe quando, in conseguenza di un qualsiasi altrui comportamento, il soggetto provi disagio, stress, malessere, con peggioramento della qualità di vita, a causa del venir meno della possibilità di svolgere le attività areddituali realizzatrici di sé. Sono state così giustificate ipotesi di risarcibilità del danno esistenziale in casi di vacanza rovinata, ma anche di errato taglio di capelli di una sposa, difettosa videoripresa delle nozze, carente informazione sui ritardi aerei, e via dicendo.

La categoria, a seguito di questa moltiplicazione esponenziale, ha perso di credibilità, nonostante il tentativo della Cassazione di limitare il risarcimento ai soli casi in cui il peggioramento è esito della violazione di diritti costituzionalmente protetti. Si pensi al diritto alla sessualità, compromessa a seguito di incidente automobilistico, all’informazione prematrimoniale, lesa in caso di sottaciuta impotentia coeundi, alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, lesa in caso di mobbing, dequalificazione o demansionamento professionale. Si pensi ancora alla lesione fisica che comporti, come al neonato coinvolto nel caso di specie, “una definitiva compromissione delle normali potenzialità di esplicazione e realizzazione della personalità umana (…), tanto in ambito familiare, quanto nelle relazioni verso soggetti terzi, in violazione degli artt. 2, 4, 29 e 30 della Costituzione”. Ancora, e sempre nel caso in esame, al rapporto coniugale o familiare, leso in caso di uccisione o lesione del coniuge o del familiare, per cui ai genitori del neonato, pur in assenza di qualsiasi danno biologico, veniva riconosciuto un risarcimento per la “lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione”.

Il riconoscimento di un danno esistenziale sia in capo al neonato che in capo ai genitori, ha posto necessariamente il Tribunale dinanzi a due distinte quanto diffuse problematiche. In relazione al neonato la difficoltà, stante l’avvenuto riconoscimento di un evidente, e cospicuo, danno biologico, si rinviene nell’evitare quella iniusta locupletatio paventata da tanta giurisprudenza. Infatti, come riconosciuto da illustre dottrina (CENDON) e dalla stessa pronuncia in esame, la liquidazione del danno biologico secondo  i criteri tabellari adottati dai vari Tribunali, comprenderebbe non solo l’aspetto statico del danno biologico, ma anche quello dinamico-relazionale, in termini di danno alla vita di relazione e di danno estetico.

In questo senso la pronuncia in esame offre una soluzione per certi versi innovativa, distinguendo i casi in cui il danno biologico sia di lieve o media entità, da quelli in cui esso si presenti come grave o gravissimo. Mentre, si dice, nella prima ipotesi, si potrà ritenere già compreso (salva prova contraria), il danno esistenziale in quello biologico, individuato secondo i criteri tabellari, nelle ipotesi di danno grave o gravissimo, e si tratta del caso di specie, resterà spazio per la liquidazione del danno esistenziale.

Applicando in via analogica l’art. 138 del Codice delle assicurazioni (d.lgs. 209/2005), secondo il quale “qualora la menomazione fisica accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, l’ammontare del danno determinato ai sensi della tabella unica nazionale può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento, con equo e motivato apprezzamento circa le condizioni soggettive del danneggiato”.

Il Tribunale pertanto perviene alla liquidazione del danno esistenziale attraverso un aumento percentuale del danno biologico subito dal neonato. Simile operazione non è invece possibile per i genitori, che per vero non hanno subito alcun danno biologico, pur avendo richiesto il risarcimento di un presunto danno psichico. Per chiarire la fattispecie, il giudice di merito opera una puntualizzazione in merito alla differenza che intercorre tra danno psichico e danno esistenziale (ritenendo peraltro irrilevante, per la qualificazione ed il relativo riconoscimento, il nomen iuris attribuito dagli attori).

Il danno psichico derivante dalla lesione o dalla morte di un familiare è un danno di natura strettamente biologica, senza punti di coincidenza né con il danno morale (transeunte), né con quello esistenziale (permanente). Del resto fu la stessa Corte Costituzionale, nel 1994, con la nota sentenza n. 372, a individuare le caratteristiche di tale danno, differenziandolo a quello morale, e chiarendo come “il danno alla salute che il familiare di persona uccisa patisca in conseguenza della morte del congiunto sia il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo”. Precisava la Corte Costituzionale, sottolineando la fondamentale distinzione tra patema d’animo e danno alla salute, che “in persone predisposte da particolari condizioni, anziché esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato d’angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente. Pertanto in presenza di tale trauma, il risarcimento dei danni “non patrimoniali” (…) deve razionalmente essere commisurato non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, ma alle conseguenze del trauma in termini di perdita di qualità personali”.

Ne consegue che, in assenza di fondato riscontro probatorio di un danno biologico iure proprio in capo ai familiari della vittima, che si sia effettivamente estrinsecato in una vera e propria patologia (si pensi ad un infarto da shock, o ad una grave patologia neoplastica sopravvenuta, a gravi depressioni secondarie o ad altre malattie psichiche, attinenti alla sfera neurologica o psichiatrica, diverse dal mero disagio psicologico, sempre che si possa ritenere provato il relativo nesso di causalità), potranno essere riconosciuti solo il danno morale e/o esistenziale, la cui prova può essere raggiunta anche attraverso mere presunzioni.

La tematica del danno esistenziale, linearmente affrontata dalla pronuncia in esame, non sembra dar luogo a particolari difficoltà, che emergono invece quando si apra lo sguardo al vasto panorama giurisprudenziale attuale. Non è un caso che, da ultimo, Cass. civ., sez. III, ordinanza del 25.02.2008 n° 4712, abbia rimesso questione alle Sezioni Unite proprio in relazione alla configurabilità, a fianco del danno morale soggettivo e del danno biologico, di un danno esistenziale (quale danno derivante dalla lesione di valori/interessi costituzionalmente garantiti, e consistente nella lesione al fare a-reddituale del soggetto), anche per ottenere una pronuncia chiarificatrice su quali siano i criteri risarcitori cui ancorare l’eventuale liquidazione di questo tertium genus di danno, onde evitare illegittime duplicazioni di poste risarcitorie. Ci si chiede se effettivamente possano all’uopo soccorrere, in parte qua (come accade per il danno morale soggettivo e come ha fatto il Tribunale nella fattispecie in esame) le tabelle utilizzate per la liquidazione del danno biologico, ovvero sia necessario provvedere all’elaborazione di nuove ed autonome tabelle.

Infine, sempre per quanto qui di interesse, ci si chiede se un danno che non abbia riscontro nell’accertamento medico, ma incida tuttavia nella sfera del diritto alla salute inteso in una ben più ampia accezione (come pur postulato e predicato in sede sovranazionale) di “stato di completo benessere psico-fisico” possa dirsi o meno risarcibile sotto una autonoma voce di danno esistenziale da lesione del diritto alla salute di tipo non biologico dacché non fondato su lesione medicalmente accertabile.

Le problematiche dunque, nonostante la linearità della pronuncia esaminata, appaiono tuttora controverse, in attesa dell’invocato intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.

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