Pubblicazioni

Gli investitori istituzionali

  1. Il processo di privatizzazione e le riforme normative

Il tipo di influenza che il processo di privatizzazione esercita sulla corporate governance dipende non solo dalla positività delle norme, ma anche dalla interpretazio­ne che se ne dà e dai fini perseguiti dalla sfera politica in senso lato, che nei processi di privatizzazione dei diversi paesi assume necessariamente un ruolo rilevante. In al­tri termini, è strettamente legato agli obiettivi che la privatizzazione si propone[1].

Dal punto di vista ideologico le privatizzazioni derivano dalla grande evo­luzione sociale e politica che a livello mondiale ha registrato la sconfitta storica delle economie di comando o pianificate. La competizione fra i sistemi di mercato e quelli centralizzati ha visto i secondi soccombenti soprattutto a partire dagli anni settanta, cioè da quando i sistemi di mercato hanno iniziato a fondare sempre più consistentemente il proprio sviluppo sull’innovazione[2].

Ebbene, è proprio negli anni settanta, in concomitanza con l’intensificarsi dell’innovazione nelle strategie competitive delle imprese, che si creano le condizioni per l’accettazione della supply side economics, una concezione di politica economica che punta a favorire al massimo la messa in opera di capacità produttive efficienti. È una concezione centrata sulla figura dell’imprendi­tore che individua opportunità e le realizza in modo più efficiente e prima dei con­correnti, in una gara in cui unico arbitro è il mercato.

La cre­scente interdipendenza delle economie sviluppate favorisce il diffondersi di tali im­postazioni, che finiscono per divenire cogenti per i singoli paesi.

Il fenomeno delle privatizzazioni diventa dunque una vera ondata che si estende anche a paesi come la Francia, dove una cultura secolare aveva abituato alla gestione pubblica di importanti branche dell’economia, sviluppando competenze eccellenti; o come alcuni paesi ex-comunisti dell’Europa Orientale, che al contrario vi giungevano del tutto impreparati sia dal punto di vista politico che da quello delle competenze degli operatori.

Le finalità che per semplicità si sono definite di tipo ideologico sottese alle pri­vatizzazioni assegnano dunque al processo il compito di far uscire lo Stato dalla pro­prietà del sistema produttivo e di sostituirlo con i privati, al contempo ricavandone ri­sorse utili a risanare le pubbliche finanze.

In Italia è invece il 1992 la data di effettivo inizio delle privatizzazioni

Ed invero, la gestione industriale delle imprese fu lasciata nelle mani dei rispettivi manager che vennero così responsabilizzati completamente anche nei con­fronti del mercato. È così che il processo di privatizzazione ha contribuito sostanzialmente allo sviluppo delle strutture del mercato finanziario. Sono stati posti sul mercato buoni titoli, atti­rando nuovi investitori; sono state innovate le regole aumentando la tutela degli azio­nisti non di controllo; gli stessi processi di collocamento sono stati gestiti in modo da favorire la crescita delle competenze professionali degli operatori finanziari italiani.

Le privatizzazioni orientate all’obiettivo puro e semplice di fare uscire lo Stato dalla gestione delle imprese incidono sulla corporate governance soprattutto quando lo Stato stesso, al momento di uscire, vuole in qualche modo predeterminare l’assetto proprietario che le imprese stesse dovranno assumere dopo la privatizzazione.

Le motivazioni funzionali alle privatizzazioni discendono dalla convinzione che le attività economiche svolte dalle imprese di proprietà pubblica esprimano di re­gola livelli di efficienza inferiori rispetto a quelli registrati dalle imprese sottoposte alla disciplina del mercato. L’assunto si basa,  sulla impossibilità logica di otte­nere nel lungo termine risultati migliori di quelli assicurati da un mercato corretta­mente funzionante. Questo è in grado di valutare capillarmente ogni singola iniziati­va e si suppone capace di indirizzare risorse e conoscenze laddove esse rendono maggiormente, la molteplicità degli operatori supplendo a qualunque loro carenza in­dividuale, attraverso la crescita dei più efficienti e l’eliminazione degli inefficienti. trasparenza e dedicare adeguata attenzione alla politica di comunicazione.

  1. Il principio di separatezza tra banca e industria

Presupposto per la corretta applicazione delle norme di cui si discorre è il principio secondo il quale l’intermediario, ad esclusione delle società di investimento a capitale variabile, è tenuto alla separazione patrimoniale. Il Tuif sancisce, infatti, che, nell’ipotesi di prestazione dei ser­vizi di investimento, tra cui si comprende la gestione indivi­duale di portafogli di investimento[3], gli strumenti finan­ziari e le somme di denaro dei singoli clienti costituiscono patrimonio distinto dal patrimonio dell’intermediario stesso e da quello degli altri clienti (art. 22, comma 1, Tuif)[4]; nell’ipotesi di gestione collettiva, ciascun fondo comune di inve­stimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo distinto dal patrimonio della società di gestione del risparmio, da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima so­cietà (art. 36, comma 6, Tuif)[5]. Ciò comporta che i creditori dell’intermediario non possono aggredire il patri­monio separato, mentre i credi tori dei singoli clienti possono agire nei limiti, del patrimonio di proprietà di questi, o nei li­miti delle quote di partecipazione se si tratta di fondi[6].

La separazione patrimoniale è un vincolo obbligatorio imposto al gestore, che condizione sia la struttura, sia il com­portamento dello stesso[7]. Sotto il primo profilo, nella ge­stione individuale, si tratta di distinguere contabilmente le operazioni finanziare che fanno capo ai singoli clienti da quelle che riguardano il patrimonio dell’intermediario, la se­parazione riguardando taluni rapporti giuridici di cui un sog­getto risulta titolare dagli altri rapporti facenti capo allo stesso soggetto o facenti capo all’intermediario[8]; nelle gestioni collettive la distinzione del patrimonio del fondo si ot­tiene, invece, attraverso l’affidamento dello stesso ad una banca depositaria, soggetto terzo rispetto alla società di ge­stione e ai partecipanti al fondo. La ripartizione delle compe­tenze tra banca depositaria, società che promuove e società che gestisce, nonché le rispettive responsabilità nei confronti dei partecipanti, garantisce sicurezza nelle operazioni[9].

Sotto il secondo profilo sono imposti specifici doveri di trasparenza e di informazione che consistono non solo nel mettere a conoscenza il cliente o il partecipante al fondo della natura e dei rischi delle operazioni nel momento della conclu­sione del contratto di gestione, ma anche nell’informarlo pe­riodicamente attraverso rendiconti, relazioni e nel consentirgli l’accesso ai documenti che attestano i risultati[10].

  1. Gli investitori istituzionali negli assetti proprietari della società e mancato sviluppo

Dal quadro normativo ora delineato emerge con evidenza l’esistenza di una procedura organizzativa che ogni interme­diario è tenuto a rispettare per potere operare nel mercato e di una procedura comportamentale che lo stesso deve osser­vare ogni qual volta debba compiere una determinata operazione. I due piani non sono completamente separati poiché, se talvolta la legge prescrive esplicitamente un comporta­mento, considerandolo in una disposizione specifica, tal altra, invece, sono le norme sulla organizzazione che condizionano e, dunque, impongono una certa condotta agli investitori isti­tuzionali.

Appare allora evidente come il fine specifico cui è rivolta la gestione del risparmio, ossia la realizzazione di un “pro­gramma di investimento” nell’interesse di un terzo[11], as­suma rilievo anche per l’ordinamento. li legislatore, infatti, con norme particolari delinea l’organizzazione degli interme­diari, nel momento in cui investono risparmio altrui; le re­gole alle quali gli stessi debbono attenersi nell’esercizio dell’attività di gestione del risparmio e condiziona il loro com­portamento a quel fine.

Ciascun gestore agisce, nell’osservanza dei criteri di com­portamento, in modo diverso secondo il tipo di gestione, de­gli obiettivi prefissati, degli strumenti finanziari gestiti. Si può indagare, allora, se nonostante tale diversità determinata dalla differenza di tipologia di gestori e dalla diversità di ge­stioni offerte, esista un metodo[12] comune che valga a definire e ad identificare il comportamento[13] degli investitori istituzionali. Si tratta, cioè, di valutare se i molteplici com­portamenti, ognuno dei quali nato per soddisfare un diverso interesse e conseguire un diverso risultato in momenti e si­tuazioni differenti, possano essere ricondotti ad unità. E, quindi, se sia individuabile una “maniera generale di ope­rare”[14], uno schema astratto nel quale riportare il modo di operare degli investitori istituzionali[15].

Sussistono dei fattori essenziali che consentono di defi­nire, in generale, il concetto di comportamento. In par­ticolare, si ritiene che la nozione di comportamento si fondi sulla contemporanea presenza di più elementi che interagi­scono tra loro. Qualsiasi atteggiamento di un soggetto che agisce di propria iniziativa, producendo un effetto sulla realtà esterna, è inquadrabile nell’ ampia categoria di compor­tamento. Si tratta di aspetti che definiscono la struttura del comportamento, ma che, tuttavia, non sono sufficienti nel momento in cui si deve anche identificarlo e distinguerlo da ogni altro atteggiamento. In tale ipotesi è necessario un criterio ulteriore di identificazione che si preoccupi di consi­derare la funzione della specifica condotta, piuttosto che la sua struttura. Si è sostenuto che “ciò che permette di identificare una iniziativa comportamentistica è il risultato al quale è diretta, l’orientamento, che indirizza il comporta­mento e gli dà un senso”[16].

Sotto questo profilo, perciò, non rileva se la gestione sia offerta al pubblico o a determinate categorie di investitori, non rileva se sia effettuata in nome e per conto del cliente oppure in nome proprio, non rileva neppure se al gestore sia lasciata piena disponibilità nelle scelte di investimento o se, invece, il cliente abbia la facoltà di indicare specifici settori di investimento e, in altri casi, di impartire istruzioni vinco­lanti. Quali che siano le modalità operative di gestione, ciò che attribuisce significato all’iniziativa del gestore è il risul­tato verso cui questa iniziativa è diretta, quello di investire il patrimonio affidatogli nell’interesse del cliente alla valorizza­zione di quel che ha investito. Il minimo comune denomina­tore risulta perciò essere la destinazione del patrimonio ge­stito ad uno scopo[17], ossia la destinazione all’investi­mento al fine di valorizzare quell’investimento.

Tale destinazione ad uno scopo particolare, a cui è assog­gettato un insieme di beni, e il risultato che con tale destina­zione si vuole raggiungere, condiziona il rapporto tra sog­getto e azione[18] e orienta, quindi, il comportamento del gestore. L’investire per conto di colui che quel patrimonio contribuisce a creare, specifica ulteriormente la direzione verso cui il comportamento è indirizzato[19].

  1. Dalla tutela del risparmio bancario al risparmio gestito

Ciò che caratterizza un contratto di gestione del risparmio è il compimento di va­rie operazioni finanziarie[20] che un soggetto effettua per conto di terzi. L’interesse economico che con il contratto tra gestore e risparmiatore si intende soddisfare è la gestione di una somma di denaro altrui dietro corrispettivo. Con l’affida­mento di tale somma un soggetto incarica l’altro di ammini­strarla (investendo, ma anche disinvestendo), in modo da ot­tenere il miglior rendimento possibile. La gestione è diretta verso un risultato, che è quello di accrescere il valore dell’in­vestimento.

La finalità che la gestione di patrimoni si propone è di impiegare produttivamente il capitale accumulato e, attraverso la valorizzazione degli investimenti effettuati, ottenere un incremento delle risorse per i risparmiatori. Al consegui­mento di tale fine sono disposte quelle regole che, discipli­nando lo svolgimento dei servizi, l’esercizio dell’attività di ge­stione e il rapporto tra incaricato e committente, impongono agli operatori, direttamente o indirettamente, di agire se­condo modalità ben delineate.

Sebbene le disposizioni riguardino tutte le attività svolte dagli investitori e, quindi, in generale, la prestazione dei ser­vizi di investimento e accessori e il servizio di gestione collet­tiva del risparmio, in questa sede si intende circoscrivere l’in­dagine alla gestione del risparmio, comprendendo accanto alla gestione collettiva solo il servizio di gestione di portafogli su base individuale.

La disciplina specifica dei servizi di investimento (della gestione di portafogli e della gestione collettiva) si sviluppa sia sul piano normativo sia sul piano regolamentare e prende le mosse dalle disposizioni generali che il Testo unico dell’in­termediazione finanziaria stabilisce per i soggetti abilitati all’esercizio di tali servizi. In particolare, è attraverso lo stru­mento della vigilanza che si mira ad affidare alle autorità preposte, precipuamente la Banca d’Italia e la Consob, il controllo del rispetto, da parte degli intermediari, dei criteri dalle stesse stabiliti per garantire la trasparenza, la corret­tezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori, alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del mercato finanziario (art. 5, comma 5)[21]. In tale prospettiva, la Banca d’Italia è competente a garantire il contenimento del rischio e la stabilità patrimoniale (art. 5, comma 2, Tuif) e, vigila, dunque, sui profili strutturali e organizzativi dell’intermediario[22], mentre la Consob, a cui è affidata la vigilanza sui profili dei rapporti esterni[23], provvede a salvaguardare la trasparenza e la correttezza dei comportamenti (art. 5, comma 3, Tuif)[24].

Nella sua funzione di vigilanza regolamentare, la Banca d’Italia, secondo quanto disposto dall’art. 6, comma 1, letto a) Tuif, ha emanato, dapprima il Provvedimento 1 luglio 1998 e il Provvedimento 20 settembre 1999, che riguardano le società di gestione del risparmio e le società di investi­mento a capitale variabile e, successivamente, il Provvedi­mento 4 agosto 2000, il quale si occupa specificamente dello svolgimento delle attività da parte delle sim[25].

L’importanza che riveste il profilo dell’organizzazione dell’intermediario ai fini dello svolgimento del servizio rileva non solo per la possibilità attribuita alle società di gestione del risparmio di svolgere sia gestioni collettive sia gestioni individuali (art. 33 Tuif), ma anche per la circostanza, cui so­pra si accennava, per cui le società di gestione del risparmio, che svolgono servizi di gestione collettiva, possono scindere 1’attività di promozione, istituzione e organizzazione dei fondi comuni da quella di gestione (art. 36, comma 1, Tuif). È inoltre prevista, sia per le società che svolgono funzioni di gestione dei fondi, sia per quelle che svolgono gestioni indi­viduali, la possibilità di delegare l’incarico di investimento (art. 33, comma 3, e art 24, comma 1, lett. l, Tuif)[26].

L’ampliamento dei servizi offerti e dei modi del loro svolgimento operato dal Tuif ha determinato, dà un lato, l’e­sigenza di fissare taluni criteri organizzativi atti a garantire una sana e prudente gestione e, dall’ altro, la necessità, per certi aspetti dell’organizzazione, di una maggiore elasticità.

Riguardo al primo profilo, è solo in presenza di determi­nate condizioni che l’esercizio del servizio di gestione collet­tiva del risparmio e del servizio di gestione su base indivi­duale di portafogli di investimento, da parte di una società di gestione del risparmio, può essere autorizzata dalla Banca d’Italia, così come può essere autorizzata la costituzione di una società di investimento a capitale variabile[27]. Per garantire 1’adeguatezza patrimoniale minima e il contenimento del rischio, ossia che ciascun intermediario abbia un patri­monio tale da consentirgli di affrontare i rischi nascenti dall’esercizio delle sue attività, la Banca d’Italia fissa l’ am­montare patrimoniale delle società di gestione del risparmio, i requisiti patrimoniali per la gestione dei fondi, che devono essere determinati in funzione del tipo e delle dimensioni del fondo che la società gestisce, e il patrimonio di vigilanza[28]. Nel provvedimento, inoltre, si definisce la disciplina relativa alla partecipazione al capitale delle società di gestione del ri­sparmio e delle sicav, avendo riguardo in particolare agli ob­blighi di comunicazione cui sono tenuti quei soggetti che, ac­quisendo o intendendo acquisire partecipazioni nelle società, superano le percentuali stabilite. A tali obblighi informativi risulta sottoposto anche chi intende cedere una partecipa­zione sociale[29].

Nella seconda prospettiva, di rendere più agevole ed effi­ciente lo svolgimento delle funzioni, è attribuita agli interme­diari, nel quadro delle possibilità offerte dal Tuif, la facoltà di disegnare schemi operativi che si adattino alle specifiche esigenze. Il provvedimento della Banca d’Italia determina, a tal fine, solo criteri di carattere generale. A questi debbono attenersi gli intermediari nel delineare la loro struttura orga­nizzativa e nel regolare i rapporti reciproci, nell’ipotesi che l’attività di promozione e di gestione siano svolte in modo separato, i rapporti tra società di gestione del risparmio e banca depositaria, i rapporti tra società di gestione del ri­sparmio e intermediario cui è stata conferita la delega e quelli tra società di gestione del risparmio e soggetti incaricati del collocamento delle quote. Inoltre, lo stesso provvedi­mento contiene le disposizioni che riguardano l’assetto orga­nizzativo interno[30] e, dunque, la struttura delle deleghe in­terne agli organi amministrativi, i sistemi informativi, in modo da consentire alle componenti aziendali la possibilità di assumere decisioni tempestive e idonee al raggiungimento degli obiettivi predisposti, i sistemi contabili, idonei a regi­strare correttamente i fatti relativi alla gestione e a fornire una rappresentazione della situazione economico-patrimo­niale, finanziaria e di rischi dell’impresa e dei patrimoni in gestione, e il sistema di controllo interno.

I pericoli insiti nell’attività di gestione e, principalmente, il pericolo di compromettere la stabilità patrimoniale, sono considerati anche dal Provvedimento della Banca d’Italia 20 settembre 1999, emanato a norma dell’art. 6, comma 1, lett. a) e lett. c) Tuif, il quale, oltre a determinare le partecipa­zioni detenibili dalle società di gestione del risparmio[31], fissa le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio applicabili agli organismi di investimento collet­tivi, ossia ai fondi comuni di investimento e alle sicav. Tale normativa contiene, infatti, i limiti alla composizione com­plessiva del portafoglio dei fondi e si riferisce ai fondi aperti, nell’ ambito dei quali si distinguono i fondi armonizzati, e ai fondi chiusi. È bene rilevare, tuttavia, che nel caso in cui un fondo aperto o chiuso preveda che la partecipazione sia ri­servata a investitori qualificati[32] o preveda che il fondo in­vesta in beni diversi da quelli individuati dall’art. 4, comma 2, d.m. 24 maggio 1999, n. 228[33], le disposizioni cui si ac­cenna possono essere derogate.

Per tutti i tipi di fondi sussiste un generale limite all’in­vestimento in strumenti finanziari dello stesso emittente[34]. Ulteriori limiti riguardano gli investimenti in strumenti finan­ziari di uno stesso gruppo di emittenti[35] e gli investimenti in depositi bancari[36]. Sono poi sottoposti a condizione gli investimenti in strumenti finanziari derivati e le altre opera­zioni a termine[37].

Analoghe disposizioni in materia di vigilanza, di partecipa­zioni detenibili, di organizzazione amministrativa e contabile, di controlli interni, di adeguatezza patrimoniale e di conteni­mento del rischio, si trovano nel Provvedimento Banca d’Italia 4 agosto 2000, che, come si è detto, riguarda la prestazione di servizi di investimento da parte delle sim[38].

La ricerca delle migliori opportunità di rendimento e le esigenze di regolamentare la destinazione delle risorse e l’im­piego dei capitali al fine di evitare operazioni troppo ri­schiose, si riscontrano anche nelle disposizioni che riguar­dano i fondi pensione[39] i quali, tuttavia, hanno funzioni e obiettivi diversi da quelli degli altri gestori collettivi del ri­sparmio e, specificamente, dai fondi comuni. In questi ultimi sia pure con l’ulteriore distinzione tra fondi aperti e fondi chiusi[40] il fine è essenzialmente quello speculativo di massimizzazione dei profitti, nei fondi pensione, invece, la fi­nalità è principalmente di natura previdenziale e l’esigenza di diversificare il portafoglio è sentita proprio per evitare scelte tipicamente speculative[41].

Nella prospettiva generale che si è delineata, le disposi­zioni richiamate, in particolare quelle che dettano limiti agli investimenti, evidenziano l’esistenza di un obbligo di diversi­ficazione del portafoglio, comune a tutte le attività di ge­stione del risparmio, che costituisce una regola di comporta­mento a cui i gestori devono attenersi. L’intermediario finanziario è tenuto a compiere scelte di investimento in ti­toli diversi, in società operanti in settori economici e paesi diversi che, in relazione al tipo di obiettivi che l’operatore si propone, tendano a ridurre i rischi[42] e a garantire il massimo rendimento. Si rileva, quale tratto comune delle norme, la volontà di razionalizzare le scelte di investimento e i relativi rischi dettando criteri che consentano il loro fra­zionamento. Ciò che, invece, differisce, in relazione alla ti­pologia di gestione, è la misura di questa diversificazione, che varia secondo i tipi di prodotti finanziari offerti e, quindi, secondo gli obiettivi perseguiti e le aspettative del cliente[43].

Risulta dal quadro brevemente delineato che, attraverso il rispetto dei criteri organizzativi individuati dalla Banca d’I­talia, ciascun intermediario deve perseguire non solo l’interesse alla trasparenza, alla correttezza dei comportamenti e alla sana e prudente gestione, ma anche l’interesse alla valo­rizzazione dell’investimento, al corretto funzionamento del mercato, alla stabilità dell’intero sistema, a che sia accresciuta la competitività delle imprese nelle quali l’intermediario inve­ste diversificando il portafoglio[44]. li gestore ha, e deve avere, dunque, di mira il risultato globale del complesso dell’attività gestoria che chiaramente non coincide con quello del singolo strumento gestito.

Sotto il profilo dei rapporti tra investitore e risparmiatore, l’art. 6, comma 2, del Tuif dispone che la Consob, sentita la Banca d’Italia e te­nuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei mede­simi, disciplina con regolamento, tra l’altro[45], il comportamento da osservare nei rapporti con gli investitori, anche considerando l’esigenza di ridurre al minimo i conflitti di in­teressi e di assicurare che la gestione del risparmio su base individuale si svolga con modalità aderenti alle specifiche esi­genze dei singoli investitori e che quella su base collettiva av­venga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell’OICR (lett. b).

Occorre preliminarmente osservare che esiste una clau­sola generale che vincola tutti gli intermediari a comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza. Tale obbligo è im­posto ai soggetti abilitati alla prestazione dei servizi di inve­stimento (att. 21 Tuif, lett. a) nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati e alle società di gestione del risparmio nell’interesse dei partecipanti ai fondi (art. 40 Tuif, lett. a)[46]. Si è, tuttavia, ritenuto che dette prescrizioni, presenti nel quadro normativo da tempo, siano superflue, poiché l’obbligo di agire secondo correttezza e diligenza nell’ adem­pimento delle obbligazione è già previsto, in via generale, da­gli artt. 1175 e 1176 c.c.[47]. Si è poi anche osservato che le altre regole di comportamento, previste dall’art. 21 Tuif, lett. b), c), d), e)[48] e dall’art. 40 Tuif, lett. b), c), sono semplice­mente specificazioni del principio generale[49].

È, tuttavia, possibile ritenere che, nella prospettiva degli investimenti finanziari, l’obbligo di comportarsi secondo cor­rettezza e diligenza sia dettato anche in funzione del mer­cato. Rileva, pertanto, non solo la correttezza e diligenza nell’adempimento di una obbligazione (quella dedotta nel con­tratto relativo al servizio di gestione di patrimoni), ma anche la correttezza e diligenza professionale, nel senso di una ade­guata organizzazione degli operatori nell’ ottica di una logica di mercato efficiente[50].

Invero, in un sistema in cui il rapporto fiduciario che, nell’ambito dei negozi in cui un soggetto è preposto alla cura e alla gestione degli interessi di un altro, lega l’incaricato e il committente, cede piano piano il passo ad un modello in cui tale rapporto è disciplinato da regole dettagliate, ma standar­dizzate per tipologia di contratti, la valutazione dell’ obbligo di agire secondo diligenza si sposta “dal comportamento dell’incaricato alla valutazione di adeguatezza dell’organizza­zione” che l’incaricato si è dato[51].

In particolare, per il profilo che qui interessa, gli investi­tori istituzionali debbono organizzarsi in modo tale da ri­durre il rischio di conflitto di interessi, rischio che si accen­tua, soprattutto, quando il gestore appartiene ad un gruppo finanziario, presta congiuntamente più servizi o instaura rap­porti di affari propri o di società del gruppo da cui potrebbe derivare un conflitto.

  1. La gestione collettiva del risparmio

Il Testo Unico detta una disciplina organica delle forme di gestione collettiva di patrimoni coordinandola con l’attività di gestione individuale di portafogli d’investimento[52].

Difatti la gestione collettiva del risparmio antecedentemente al Testo Unico era contenuta in una pluralità di leggi i cui connotati essenziali erano: la prevalenza riconosciuta alla normativa primaria nella definizione delle strutture e delle modalità operative dei fondi e delle società di gestione; la mancanza di una disciplina d’insieme del fenomeno della gestione in monte, essendo la disciplina stessa orientata alla definizione dei singoli prodotti piuttosto che dell’attività di gestione complessivamente intesa, il carattere rigorosamente esclusivo dell’attività di gestione in conformità alla normativa comunitaria (direttive 85/61/CEE e 88/220/CEE) .

Passando ora ad esaminare la normativa vigente va osservato che l’art. 33, comma 1 Testo Unico dispone che la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio è riservata alle società di gestione del risparmio e alle Sicav.

Si tratta di una riserva in senso tecnico, la cui violazione risulta sanzionata penalmente per il profilo dell’abusivismo d’attività (cfr. art. 166 t.u.) ed amministrativamente per l’abuso di denominazione (art. 188 t.u.).

Per individuare il contenuto del servizio di gestione collettiva del risparmio occorre però fare riferimento alla definizione contenuta nella lettera n), dell’art. 1, comma 1.

Questa disposizione introduce sul piano organizzativo due distinte attività quella della promozione, organizzazione ed amministrazione del fondo e quella della sua concreta gestione, prevedendosi la possibilità di affidare l’una e l’altra anche a distinte società[53].

In passato invece questa possibilità restava circoscritta ad ipotesi espressamente previste dalla legge, quali la gestione di patrimonio di Sicav (d.lgs. n. 84 del 1992) o di fondi di pensione (D.lgs. 124 del 1993) da parte di società di gestione di fondi comuni[54].

Tanto detto,va osservato che la nuova ed articolata definizione del servizio di gestione collettiva lascia in ogni caso aperte numerose questioni.

Ad esempio irrisolta è rimasta la questione se, con riferimento all’attività della società promotrice, la promozione, l’istituzione, l’organizzazione e l’amministrazione del fondo costituisca un “unicum” indissolubile ovvero sia legittimo che la società promotrice demandi ad altri soggetti taluno dei citati compiti, conservando al contempo la qualifica di società di gestione del risparmio.

Sempre poi con riferimento al profilo definitorio, il servizio di gestione collettiva del risparmio, anche se svolto per conto terzi, resta confinato ad attività promozionali-organizzative riferibili a fondi comuni ovvero ad attività gestorie concernenti fondi comuni e patrimoni di Sicav[55], così come la gestione di altri patrimoni collettivi, quali i fondi pensione (art. 1, c. 1, lett. n).

Ne deriva che la gestione da parte dei soggetti abilitati (banche, sim, società di gestione del risparmio) di un fondo pensione, viene a rientrare nelle ipotesi di gestione individuale, trattandosi pur sempre dal punto vi vista del gestore di un patrimonio unitario.

Ebbene ricollegare alla gestione di un fondo pensione l’applicazione delle norme relative alle gestioni individuali e collettive non è senza conseguenze, almeno per quei profili in cui le regole primarie e secondarie delle une e delle altre restino divergenti[56].

Alla luce delle considerazioni suesposte si ricava che si è registrato un passaggio pertanto da una “rigida tipizzazione” ad una “configurazione dinamica” delle forme di gestione collettiva ammesse dall’ordinamento, laddove invece l’individuazione dell’oggetto dell’investimento da effettuarsi dal Ministero del Tesoro ai sensi dell’art. 37, costituisce il presupposto per l’individuazione delle categorie generali entro le quali ricomprendere a posteriori le varie forme di gestione collettiva ed individuare la relativa disciplina applicabile[57].

Le attività che possono essere svolte dalla società di gestione del risparmio, oltre a quella di gestione collettiva, sono elencate al 2 co., dell’art. 33. Preliminarmente va notato che la disposizione fa richiamo solo alle Sgr non menzionando le Sicav, in quanto per queste ultime le attività da svolgere restano circoscritte a quelle connesse e strumentali che sono indicate dalla Banca d’Italia su parere della Consob (6 co. dell’art. 43)[58].

La particolare struttura istituzionale non consente di gestire alle Sicav i fondi comuni istituiti da società di gestione, i patrimoni di altre Sicav, i fondi pensione e, più in generale, di prestare servizi di gestione individuale.

Sotto il profilo strutturale e di vigilanza la Sicav si caratterizzano per l’assenza di un patrimonio proprio, distinto da quello dell’intero gruppo dei sottoscrittori e in grado di costituire un adeguato presidio patrimoniale per l’attività di gestione svolta per conto terzi[59].

Per quanto concerne l’attività di gestione per conto terzi, il consentire alle Sicav lo svolgimento di tale compito avrebbe sollevato il problema dell’individuazione del soggetto da considerare come imprenditore. Perciò, anche se volessimo individuare tale figura nelle mani di chi controlla la Sicav, è difficile immaginare che gli investitori, con la sottoscrizione delle azioni, possano acquistare allo stesso tempo il diritto a godere dei risultati della gestione collettiva per conto proprio e degli altri utili derivanti dalle commissioni delle gestioni svolte per conto terzi considerando anche tutto quello che ne consegue sotto i profili della pubblicazione del “prospetto informativo”.

Senza considerare poi che una soluzione quale quella in discus­sione avrebbe aumentato in misura esponenziale il conflitto d’inte­ressi, atteso che, se le società di gestione di fondi comuni operano su patrimoni individuali o collettivi che non sono direttamente a loro imputabili, nel caso delle Sicav il patrimonio gestito collettiva­mente è ad esse direttamente riferibile[60].

La disposizione in commento, nel consentire alle società di gestione del risparmio di prestare il servizio di gestione individuale, si presenta come sostanzialmente ripropositiva del principio già previsto nell’articolo 18, comma 2, del T.U., senza che alla speci­ficazione del carattere di “professionalità”, contenuta nella norma ultima citata, possano ricollegarsi particolari dubbi interpretativi.

Il carattere di professionalità è infatti connaturale alla prestazio­ne di qualsiasi servizio d’investimento e come tale deve ritenersi implicito anche nella previsione dell’art. 33 T.U.

D’altro canto, la riconosciuta possibilità per le Sgr di prestare il servizio di gestione individuale, pur facendo assumere l’attività gestoria complessivamente intesa una sua specifica rilevanza po­tendo ora detta attività essere svolta da soggetti ad hoc, in via soggettivamente ed oggettivamente esclusiva lascia in ogni caso distinte le norme che governano la gestione su base individuale e in monte e che continueranno ad applicarsi a seconda della tipologia di gestione esercitata.

Partendo dalla struttura degli intermediari preesistente, l’unifica­zione della funzione gestoria in un unico soggetto, può avvenire o attraverso un ampliamento dell’operatività delle società di gestione di fondi comuni da collettiva anche ad individuale ovvero attraverso un restringimento alla sola attività di gestione individuale delle attività svolte da banche e Sim, con collegata estensione operativa alla gestione collettiva (e conseguente trasformazione in Sgr).

È stato rilevato come ai sensi dell’art. 200 del T.U. la transizione appare molto più semplice per le ex società di gestione dei fondi per le quali è previsto un meccanismo ex lege di autorizzazione e di iscrizione nell’albo; d’altro canto la ragione della maggior com­plessità che caratterizza la trasformazione di banche e Sim in socie­tà di gestione del risparmio[61] va rinvenuta proprio nella liquidazione delle altre attività svolte, diverse dalla gestione, e, nel caso di Sim autorizzate alla sola gestione, nella verifica da parte delle autorità della sussistenza dei ben più strin­genti requisiti patrimoniali ed organizzativi richiesti per la gestione in monte.

In mancanza di puntuali riferimenti nella legge e nel regolamen­to applicativo è stata sollevata anche la questione se le Sgr possano prestare il servizio di gestione individuale anche quando le stesse in concreto non esercitino la gestione collettiva in alcuna forma o limitino la propria attività alla promozione, istituzione ed organiz­zazione dei fondi ovvero alla sola gestione.

Relativamente alla prima delle questioni prospettate, ragioni di ordine sistematico hanno indotto a ritenere necessario lo svolgi­mento effettivo di entrambe le tipologie di gestioni autorizzate, anche se la necessità del cumulo delle attività non implica necessa­riamente che esso debba essere attuale, così che resterebbero salve situazioni collegate all’inizio dell’attività o comunque di carattere temporaneo.

Al di fuori delle richiamate eccezioni inevitabile sarebbe l’espe­ribilità della procedura di decadenza dall’autorizzazione di cui all’art. 34, comma 3, del T.U. (con eventuale trasformazione in Sim) nei confronti della Sgr autorizzata ad entrambe le tipologie di ge­stione, ma operante solo nel campo della gestione individuale.

Con riguardo alla seconda fattispecie, la già richiamata esigenza di specializzazione, che è a fondamento della disciplina in esame, orienta per la legittimità del comportamento di intermediari che, da un lato, prestino servizi di gestione individuale e, dall’altro, operino esclusivamente come “società promotrici” o come “gestori” nel settore di quelle collettive. D’altronde, se la nozione di gestione collettiva del risparmio di cui all’art. 1, comma 1, lett. n) del testo unico, fa riferimento ad un servizio unitario che si articola in due diverse tipologia di attività (quella sostanzialmente promozionale ed amministrativa e quella prettamente gestoria), le successive let­tere o) e p) dell’articolo 1, qualificano come “società di gestione del risparmio” sia la società promotrice che il gestore, ed è alle “società di gestione del risparmio” (senza alcuna qualifica aggiuntiva) che è riconosciuta la possibilità di prestare il servizio di gestione indivi­duale[62].

Il regime di separatezza dell’attività di gestione in monte rispet­to alle attività d’intermediazione mobiliare, posto a tutela di un aumento esponenziale dei conflitti d’interessi, impedisce che le Sgr svolgano, oltre la gestione individuale, altre attività che non siano quelle espressamente consentite.

Tra queste vanno ricomprese sia l’istituzione e la gestione di fondi pensione (art. 33, comma 2, lett. a) del T.U.) che le attività connesse e strumentali stabilite dalla Banca d’Italia, sentita la Con­sob (art. 34, comma 2, lett. b) del T.U.). Espressamente consentita è poi anche la prestazione di servizi collegati alla sollecitazione di deleghe di voto, di cui all’art. 140 del T.U., nonché l’offerta fuori sede di strumenti finanziari, limitatamente a quote ed azioni di OICR (art. 30, comma 3, lett. b) del T.U.).

Quanto alla prima previsione, essa rappresenta la naturale esten­sione di potenzialità operative già riconosciute alle società di ge­stione di fondi comuni d’investimento mobiliare aperti dagli articoli 6 e 9 del d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124. A tutte le società di gestione del risparmio è quindi ora consentita la gestione di fondi pensione, con la sola eccezione rappresentata da quelle società di gestione che intendano gestire fondi c.d. “speculativi” e che, sulla base delle disposizioni emanate dalla Banca d’Italia, devono avere oggetto esclusivo a ciò limitato[63].

Con riguardo alla individuazione delle attività connesse e stru­mentali, va invece sottolineata la riserva di amministrazione posta dal legislatore a conferma del carattere tendenzialmente circoscritto dell’ attività delle società di gestione, laddove per converso le Sim sono direttamente abilitate a svolgere oltre i servizi accessori anche attività connesse e strumentali (art. 18, comma 4, T.U.).

Tale riserva d’amministrazione riguarda anche l’eventuale esten­sione indiretta dell’operatività delle società di gestione, realizzata attraverso l’acquisizione di partecipazioni in altri intermediari, materia questa che ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lett. a), T.U. resta disciplinata dalla Banca d’Italia, sentita la Consob[64].

Il regolamento attuativo precisa che connessa è l’attività che con­sente di promuovere e sviluppare l’attività principale esercitata ed ammette le Sgr che prestano il servizio di gestione su base individuale a prestare i servizi accessori previsti dall’art. 1, comma 6, del T.U.

Strumentale è invece l’attività che ha carattere ausiliario rispetto a quella principale svolta, rientrando in tale novero, a titolo esem­plificativo, le attività: a) di studio, ricerca ed analisi in materia economica e finanziaria; b) di elaborazione, trasmissione e comu­nicazione di dati ed informazioni economiche e finanziarie; c) la predisposizione e la gestione di servizi informatici o di elaborazio­ne dati; d) l’amministrazione di immobili ad uso funzionale[65].

Va poi sottolineato che il regolamento consente alle società di gestione del risparmio abilitate alla prestazione del servizio di ge­stione su base individuale di prestare i servizi accessori previsti dall’art. 1, comma 6, del T.U., la qual cosa non manca di destare perplessità considerato che esse non per questo assumono la veste di imprese d’investimento. Se, infatti, appare giustificabile che pre­stino quei servizi d’investimento effettivamente accessori a quello di gestione individuale, quantomeno singolare è che possano presta­re anche i servizi di consulenza alle imprese (art. 1, comma 6, lett. f del T.U.)[66].

Notevoli dubbi interpretativi solleva poi la citata possibilità, che le società di gestione del risparmio (e le Sicav) offrano fuori sede “quote ed azioni di OICR” (art. 30, comma 3, lett. b) del T.U.).

Il testo unico, infatti, nel confermare che l’offerta fuori sede non costituisce un’attività a sé stante, ma semplicemente una modalità di prestazione del servizio di collocamento[67], a differenza del decreto Eurosim (art. 22, comma 2, lett. b), con riferimento alle Sgr e alle Sicav, non limita espressamente l’offerta “alle quote di partecipazione e alle azioni dagli stesse emesse”.

Si è pertanto sostenuto che alle Sgr e alle Sicav è ora consentito di procedere al collocamento fuori sede anche di quote ed azioni di OICR emesse da soggetti diversi, argomentando ciò dalla diversità delle formulazioni succedutesi nel tempo ovvero dal diverso trat­tamento riservato alle imprese d’investimento e alle banche (art. 30, comma 4, secondo periodo)[68].

Invero, l’ambigua formula legislativa frutto di un emendamen­to proposto dal Senato alla bozza di testo unico deliberata in prima lettura dal Governo[69], sembra possa giustificarsi in relazione all’articolazione dell’attività di gestione in monte in due attività[70], cosicché la possibilità di collocare strumenti finanziari in de­roga alla riserva di attività, dovrebbe ritenersi consentita alle Sgr e alle Sicav non indiscriminatamente, ma in presenza di un collega­mento tra collocatore e gestore[71] che valga a qualificarli nei confronti della clientela obla­ta come “società promotrice” e “gestore” di un certo “prodotto fondo”[72], e non vi siano norme statutarie che limitino l’oggetto sociale di chi intende offrire fuori sede alla sola gestione di fondi di altrui istituzione[73].

La soluzione prospettata è confermata anche dall’art. 55 del rego­lamento Consob adottato con delibera n. 11522 del 1 luglio 1998[74], come modificato con delibera 12409/2000[75], che ha ribadito, anche con riferimento alle azioni di Sicav (in precedenza non menzionate), che il collocamento diretto, anche fuori sede, delle società di gestione del risparmio ha per oggetto “quote di fondi comuni d’investimento di propria istituzione o di OICR per i quali svolgono la gestione”.

Deve quindi ribadirsi in via generale l’impossibilità che le so­cietà di gestione del risparmio collochino quote o azioni di OICR di cui non siano promotrici, oppure gestori ex art. 36, comma 1, ovvero soggetti delegati alla gestione ai sensi dell’art. 33, comma 3, del T.U.[76]

In particolare, la norma da ultimo citata, prevede la possibilità che il gestore del fondo affidi specifiche scelte d’investimento a intermediari abilitati a prestare servizi di gestione di patrimoni, nel quadro di criteri di allocazione del risparmio definiti di tempo in tempo dal gestore stesso[77].

Si tratta della c.d. delega di gestione, che non comporta che il “delegato” sia parte del contratto con il sottoscrittore dell’OICR, quanto piuttosto rivesta la figura di sostituto dell’intermediario gestore ai sensi dell’art. 1717 c.c., e che non è riconducibile ad ipotesi di gestione collettiva, essendo la delega affidabile solo a soggetti autorizzati alla prestazione del servizio di gestione di por­tafogli su base individuale.

Trattasi di un’ipotesi di delegabilità parziale della funzione ge­storia, ancorate a specifiche condizioni, laddove la facoltà di delega generale non risulta consentita, in quanto l’intervento di un sogget­to specializzato a cui affidare tutte le scelte d’investimento è risolto all’interno della nozione di gestione collettiva, con l’articolazione delle attività di cui essa si compendia e con la previsione di “società promotrici” e “gestori”[78].

Il carattere necessariamente parziale della delega in discorso, richiede quindi che il gestore individui puntualmente i settori e i criteri cui resta circoscritta l’attività dell’intermediario delegato, né possa esimersi dalla verifica, unitamente alla banca depositaria, del rispetto dei limiti del mandato conferito[79].

La delega infatti non implica alcun esonero o limitazione di responsabilità della Sgr delegante, né sotto il profilo civilistico, né sotto i profili di vigilanza di competenza di Banca d’Italia e Con­sob. A tal proposito, la normativa secondaria emanata da dette au­torità dispone che la delega deve poter essere revocata in ogni momento, prevedere che il delegato si attenga nelle scelte degli investimenti alle istruzioni impartite periodicamente dai competenti organi della società di gestione, nonché disciplinare il flusso “gior­naliero”[80] di informazio­ni, che consenta la ricostruzione del patrimonio gestito[81].

La disposizione in parola non rappresenta comunque una novità assoluta rispetto al regime previgente, considerato che, oltre l’ipo­tesi di delega di poteri di gestione dalle Sicav alle società di gestio­ne di fondi comuni (art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 84 del 1992), la Banca d’Italia in passato aveva ritenuto “possibile accedere a soluzioni organizzative in base alle quali si rendeva possibile dele­gare a terzi professionisti le scelte specifiche degli investimenti nell’ ambito di strategie di asset management previamente definite dagli organi responsabili della società di gestione”[82].

La fattispecie in esame si discosta poi da quella regolata dall’ar­ticolo 24, comma 1, lett. f) del T.U. in tema di gestione su base individuale, in quanto la delega, in tale ultimo caso, previa autoriz­zazione scritta del cliente, può riguardare sia l’intero portafoglio di gestioni dell’intermediario che parte di esso, così come il singolo rapporto di gestione, in parte o nella sua interezza[83].

La ragione di tale diversità di disciplina viene ricollegata all’esi­genza di restringere la riserva di attività nelle gestioni collettive a tipi organizzativi meno soggetti all’insorgere di conflitti di interessi[84], nonché al potere d’indirizzo riconosciuto all’investitore nelle gestioni individuali (e non anche in quelle collettive) di autorizzare come sin­golo, modifiche del contratto originario[85]. Motivazioni queste già alla base dell’accentramento delle funzioni gestorie collettive in soggetti che non svolgono altre forme di intermediazione finanziaria.

Diversa da quelle in discorso è infine l’ipotesi di delega di ge­stione riferita al patrimonio di Sicav (art. 43, comma 7), in quanto in tal caso la delega può essere conferita solo a Sgr, può riguardare l’intero patrimonio e non necessita della preventiva definizione di linee guida d’investimento[86].

In particolare, sul punto, è stata criticata la limitazione sogget­tiva della qualifica di delegato alle sole società di gestione del ri­sparmio, già contemplata dal d.lgs. 84 del 1992, ma in un panorama normativo che vedeva la delega di gestione come evento eccezionale[87], laddove detta limitazione soggettiva, por se opinabile, trova come detto ragion d’essere nella definizione del servizio di gestione collettiva data dall’art. 1, comma 1, lett. m) ed n) del T.U.

  1. La SGR come socio: gestione attiva o passiva?

È interessante osservare che uno dei principi ispiratori della delega legislativa che è dietro al testo unico delle finanza è la tutela delle minoranze[88].

Infatti, la Sezione II del Capo III del Titolo III della parte IV del testo unico è appunto rubricata “tutela delle minoranze”, all’interno poi di tale sezione il concetto si ritrova espressamente menzionato nella rubrica dell’art. 125  riferito alla convocazione dell’assemblea su richiesta della minoranza, ed ancora nell’art. 148, comma 2, sul collegio sindacale, ove si legge che almeno un sindaco deve essere eletto dalla minoranza.

Relativamente poi alla rappresentanza degli interessi delle minoranze per quanto concerne gli organi delle società quotate, la scelta del Legislatore è stata quella di limitare al minimo l’intervento imperativo, delegando all’autorità statutaria l’adozione di regole più pervasive.

Difatti tutelare le minoranze non vuol dire soltanto consentire ai singoli azionisti l’esercizio dei diritti individuali del socio, ma anche e soprattutto favorire l’aggregazione dei soci minoritari. Invero sono le aggregazione dei soci che possono negoziare con il gruppo di controllo[89].

La ratio del testo unico è incentrata alla finalità che le minoranze si coagulino  intorno a centri esponenziali dei loro interessi.

L’investitore istituzionale, che mira alla massima redditività dell’investimento e non al controllo dell’emittente, sembra poter dare migliori garanzie di trasparenza, ferma restando la necessità di vigilare attentamente sui possibili conflitto di interesse[90].

La capacità della SGR di porsi quale gestore unico del risparmio indirizzato verso l’investimento azionario nelle varie forme previste dalla legge, né fa un soggetto potenzialmente idoneo a svolgere quel ruolo di aggregazione a cui si faceva riferimento prima.

Tuttavia ci si è chiesti se effettivamente sussista un interesse degli investitori istituzionali a servirsi dei poteri attribuiti alle minoranze[91]. Le perplessità sorgono in virtù del fatto che i poteri attribuiti alle minoranze nel testo unico sono “poteri di rottura” poteri il cui esercizo è “price sensitive” cioè incidente sul valore del titolo[92].

Per questo motivo si è orientati nel ritenere che l’investitore istituzionale non avrebbe interesse ad esercitarli potendo al massimo servirsene come strumento di negoziazione con la maggioranza e con il management come minaccia per ottenere maggiori informazioni sulla gestione della società partecipata[93].

In verità se l‘investitore istituzionale non ha interesse ad esercitare questi poteri anche la possibilità di minacciarne l’uso è piuttosto residuale.

Non di recente peraltro ci si è interrogati[94] sul contegno della SGR nelle assemblee delle società quotate in cui detengano partecipazioni, con specifico riferimento alla presentazione di liste di minoranza. In particolare si è cercato di individuare:

1) quali comportamenti siano da tenere in occasione delle assemblee,  per la presentazione delle dette liste di minoranza ai fini della nomina degli organi sociali

2) quali comportamenti pur concertati siano estranei dalla nozione di patto fatta propria dal testo unico

3) quali comportamenti, invece, siano qualificati “patti” e, perciò, siano da comunicare alla Consob e al mercato.

La decisione di una pluralità di società di gestione del risparmio di presentare una comune lista dei candidati in prossimità di un’assemblea ordinaria, convocata per deliberare il rinnovo delle cariche  sociali, trova la propria giustificazione pratica nell’esigenza di consentire il raggiungimento della percentuale di capitale, per cui spesso gli statuti subordinano la presentazione di liste di minoranza, oltre che nell’intenzione di accrescere la probabilità di elezione dei candidati indicati, agevolando la convergenza dei voti delle società di gestione sui nomi inclusi nella lista.

In conclusione alla luce delle considerazioni suesposte non può che ribadirsi il valore precettivo pieno dell’enunciato dell’art. 40, comma 2, t.u. per il quale “la società di gestione del risparmio provvede, nell’interesse dei partecipanti, all’esercizio dei diritti di voto inerenti agli strumenti finanziari di pertinenza dei fondi gestiti”.[95]

Per quanto attiene specificatamente il diritto di voto, rimuove ogni dubbio circa l’ascrivibilità dello stesso alla società di gestione.

La scelta del Legislatore non è dunque nel senso della privazione del diritto di voto, ma del limite e della funzionalizzazione del suo esercizio all’interesse dei partecipanti.

Ed inero, va esclusa la legittimità di una linea di comportamento che preveda la sistematica astensione dall’esercizio del diritto d’intervento e di voto: detta evenienza oltre a no corrispondere al modello di governo societario ipotizzato dal legislatore e al ruolo attivo pensato per gli investitori istituzionale, potrebbe precludere alle SGR di esercitare, nel caso concreto, un’azione dissuasiva rispetto a decisioni del management o del gruppo di controllo considerate pregiudizievoli per l’interesse della società e contrastanti con l’obiettivo di realizzare la massimizzazione del valore delle azioni. Va ulteriormente condannato il comportamento che si traduca nella sistematica approvazione in sede assembleare delle proposte formulate dal management o dall’azionista  di riferimento, senza effettuare una ponderata valutazione dell’incidenza che tale proposta può esercitare sul valore delle azioni.

In sostanza il gestore può adottare liberamente e nell’apprezzamento dell’interesse dei partecipanti, una scelta in termini:

1) di non partecipazione all’assemblea

2) d’intervento al fine di favorire la costituzione dell’assemblea seguito da astensione dalla votazione

3) d’intervento e di partecipazione al voto, in adesione, dissenso rispetto alla proposta di deliberazione formulata dagli amministratori dell’emittente[96].

Gli investitori istituzionali quindi, sono soggetti il cui contegno si distacca tanto da quello degli azionisti che intendono utilizzare la partecipazione come strumento di governo dell’impresa, quanto da quello degli azionisti risparmiatori.

Gli investitori istituzionali si interpongono infatti, tra formazione del risparmio disposto all’investimento azionario e formazione del capitale rischio delle imprese che a quel risparmio attingono, garantendo una selezione ed una gestione professionale degli investimenti, nel segno della diversificazione e della stabilità dei rendimenti.

  1. I fondi comuni di investimento: regole di comportamento e controlli

I fondi comuni di investimento più conosciuti dal pubblico sono i c.d. fondi aperti (open-end investment trust), offerti ai risparmiatori continuativamente per la loro sottoscrizione in quote.

Il capitale dei fondi aperti varia continuamente per effetto delle nuove sottoscrizioni o per i rimborsi e sono detti “aperti” in quanto i sotto scrittori sono liberi di uscire dal fondo in ogni momento, chie­dendo il rimborso delle quote secondo le modalità previste dallo schema di funzionamento (Regolamento) del fondo ed è proprio nella liquidazione dell’investimento che si manifesta una delle prin­cipali caratteristiche dei fondi aperti: non solo la libertà di ingresso, ma anche e soprattutto la libertà di uscita per il risparmiatore.

Il fondo aperto è suddiviso in parti, che rappresentano quote di partecipazione al patrimonio comune e il prezzo di ciascuna parte si determina come rapporto tra il totale delle attività nette del fondo e il numero delle quote in circolazione.

Gli strumenti e i prodotti finanziari di proprietà del fondo sono custoditi da una banca (banca depositaria) che vigila sulla effettiva esi­stenza di tali valori e che accerta la legittimità delle operazioni di emis­sione e rimborso delle quote del fondo, sul calcolo del loro valore e sulla destinazione dei proventi del fondo. La banca depositaria ac­certa, altresì, che nelle operazioni del fondo, la controprestazione sia ad essa rimessa nei termini d’uso e provvede ad eseguire le operazioni di investimento disposte dalla SGR verificando ne la regolarità.

La struttura organizzati va dei fondi comuni di investimento verte pertanto sui seguenti tre soggetti[97]: la Società di gestione del risparmio; la Banca depositaria; l’insieme dei partecipanti.

I capitali versati dai sottoscrittori formano un patrimonio auto­nomo (fondo comune) sul quale la società di gestione del risparmio esercita le funzioni di amministrazione e la banca depositaria quelle di custodia dei titoli e di controllo sull’attività svolta dalla SGR, as­sumendosene le relative responsabilità.

In particolare, alla banca depositaria è affidata la custodia degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide del fondo comune.

L’adozione di un tale modello organizzativo offre una mag­giore tutela ai partecipanti, in quanto la netta separazione delle di­verse funzioni consente di realizzare da un lato, una più spiccata professionalità tecnica nell’ambito della SGR e dall’altro una pre­cisa individuazione della sua attività, il che a sua volta favorisce le funzioni di controllo rendendo meno facili pericolose commistioni per gli interessi dei sotto scrittori.

Dal canto loro, i sottoscrittori non hanno diritto ad influire sull’attività di gestione del patrimonio del fondo; essi si limitano ad aderire ad una proposta contrattuale integralmente precostituita e trovano la loro tutela nel controllo amministrativo dell’organo di vi­gilanza sul contenuto del regolamento. A fronte di tale adesione, ai sottoscrittori possono essere rilasciati certificati rappresentativi della quota di partecipazione al fondo, che nel caso di fondi aperti sono rimborsabili in ogni momento[98].

I fondi comuni aperti armonizzati investono il proprio patrimo­nio in: strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati; parti di OICR – ovvero quote di fondi, azioni di Sicav e azioni di ETF “armonizzati”; strumenti finanziari non quotati, per i quali esiste un mercato attivo; strumenti finanziari derivati[99].

La detenzione di liquidità è ammessa solo per esigenze di teso­reria.

Per impedire operazioni ad alto rischio, la Banca d’Italia ha introdotto in via generale i seguenti divieti:

  1. a) concedere prestiti in forme diverse da quelle previste in ma­teria di operazioni a termine su strumenti finanziari (prestito titoli, pronti contro termine);
  2. b) vendere allo scoperto strumenti finanziari o assumere posi­zioni in strumenti derivati equivalenti alle vendite allo scoperto;
  3. c) investire in strumenti finanziari emessi dalla SGR;
  4. d) acquistare metalli o pietre preziosi o certificati rappresenta­tivi dei medesimi.

Per garantire la necessaria liquidità del patrimonio, la Banca d’Italia ha altresì introdotto limiti all’investimento in titoli non quotati fis­sando al 10% dell’attivo del fondo l’ammontare complessivo degli strumenti finanziari non quotati che possono essere detenuti da un fondo. In tale ammontare deve essere fatto rientrare anche il va­lore corrente dei contratti derivati OTC (ad es. valore del premio per l’acquisto di opzioni).

Per garantire il frazionamento del rischio attraverso la diversifi­cazione degli investimenti, sono stati altresì previsti limiti all’investi­mento in titoli di uno stesso emittente. Il fondo aperto infatti, non può essere investito in strumenti finanziari di uno stesso emittente o in parti di uno stesso OICR per un valore superiore al 5 per cento del totale delle attività.

La regola intende limitare l’esposizione del fondo/comparto di Sicav nei confronti di uno stesso emittente, qualunque sia la ti­pologia di strumento finanziario emesso, siano essi titoli di de­bito, titoli rappresentativi del capitale di rischio, o comunque converti bili in capitale di rischio. Il valore percentuale deve essere calcolato prendendo come denominatore il totale delle attività del prospetto contabile giornaliero del fondo e non il valore netto (Nav).

Detto limite è elevato al 10 per cento, a condizione che si tratti di strumenti finanziari quotati e che il totale degli strumenti finan­ziari degli emittenti in cui il fondo investe più del 5 per cento delle proprie attività, non superi il 40 per cento del totale delle attività del fondo medesimo.

Ciò implica che al gestore è consentito superare la soglia del 5 per cento di investimento dell’attivo del fondo in strumenti di un unico emittente, a condizione che tutti gli strumenti finanziari dell’e­mittente costituenti l’aggregato investito siano quotati.

Il limite di concentrazione è altresì elevabile al 35 per cento, quando gli strumenti finanziari sono emessi o garantiti da uno Stato aderente all’OCSE o da Organismi internazionali di carattere pub­blico di cui fanno parte uno o più Stati membri dell’Unione Europea (BEI, BIRS ecc.).

Infine, il regolamento ammette l’investimento fino al 100 per cento di strumenti finanziari emessi da uno Stato aderente all’OCSE, a condizione, però, che tale facoltà di investimento sia con­templata nel regolamento di gestione del fondo, e che il valore di ciascuna emissione non superi il 30 per cento del totale delle attività del fondo.

Per evitare l’insorgere di conflitti di interesse, la Banca d’Italia ha altresì introdotto limiti all’investimento in titoli emessi o collo­cati da società appartenenti ad un medesimo Gruppo, fissando una soglia massima del 30 per cento del totale delle attività del fondo. Tale limite è ridotto al 15 per cento quando il gruppo è quello di appartenenza della SGR.

I limiti indicati nel presente paragrafo non si applicano nel caso dei fondi che prevedono, come politica di investimento, di riprodurre la composizione di un determinato indice di borsa sufficientemente diver­sificato, di comune utilizzo, gestito e calcolato da soggetti di elevato standing e terzi rispetto alla SGR.

L’investimento in parti di altri OICR è ammesso se la composi­zione del portafoglio degli OICR acquistati (riscontrabile dalle pre­visioni regolamentari, se trattasi di fondo comune, o dallo statuto, se trattasi di Sicav), risulti compatibile con la politica di investi­mento del fondo acquirente.

Con riguardo all’investimento in Fondi/Sicav della stessa SGR, la Banca d’Italia ha stabilito che la possibilità di acquistare quote di altri OICR promossi o gestiti dalla stessa SGR o da altra SGR del gruppo (OICR “collegati “) debba essere prevista dal regolamento del fondo.

Al fine di evitare che sul fondo di fondi possano gravare, oltre alle commissioni di gestione “dirette”, anche quelle indirettamente pagate sui fondi acquisiti, la norma specifica “che il regolamento del fondo deve prevedere che sul fondo acquirente non verranno fatti gra­vare spese e diritti di qualsiasi natura relativi alla sottoscrizione e al rimborso delle parti degli OICR acquisiti e che la parte del fondo rap­presentata da parti di OICR “collegati” non viene considerata ai fini del computo delle commissioni di gestione “.

L’investimento in parti di OICR è ammesso solo se tratta si di fondi/azioni di Sicav rientranti nell’ambito di applicazione della Di­rettiva 85/611/CEE, (“armonizzati”) e nel limite massimo (per sin­golo Oicr o per insieme di Oicr acquistati) del 5 per cento dell’attivo del fondo. In tale ambito, va specificato che l’investimento in azioni di un ETF, qualora quest’ultimo replichi un indice “armonizzato” che rispetti i limiti imposti dalla Direttiva 85/611[100], può essere ef­fettuato nel limite del 5%, dato che l’ETF, come detto, rientra nel coacervo degli Oicr[101].

L’investimento in strumenti finanziari derivati invece[102] è consentito a condizione che il regolamento del fondo definisca i criteri di utilizzo e le finalità perseguite (es. copertura dei rischi) e che tale investi­mento non alteri il profilo di rischio indicato tra gli obiettivi del fondo espressi nel regolamento stesso. In ogni caso, l’attività in de­rivati non deve mai determinare posizioni equivalenti a vendite allo scoperto[103].

La SGR può effettuare operazioni su contratti derivati standar­dizzati negoziati su mercati regolamentati, su altri strumenti finan­ziari derivati c.d. over the counter. In quest’ultimo caso, a condi­zione che siano negoziati con controparti di elevato standing sotto­poste alla vigilanza di un’Autorità pubblica e che abbiano ad og­getto titoli quotati, tassi di interesse o di cambio nonché indici di borsa o valute. L’ammontare degli impegni in derivati assunti dal fondo non può comunque essere superiore al valore complessivo netto del fondo stesso[104].

Nella determinazione degli impegni assunti dal fondo le opera­zioni di compravendita a termine con regolamento oltre 5 giorni sono equiparate ai contratti future.

A fronte degli impegni rivenienti dalle operazioni in strumenti finanziari derivati di ammontare complessivamente superiore al 10 per cento del valore complessivo netto del fondo, nel patrimonio dello stesso dovranno essere presenti, per un ammontare pari all’eccedenza e per tutta la durata delle operazioni, alternativamente:

  1. a) i titoli o le altre attività che il fondo si è impegnato a consegnare;
  2. b) i titoli o le altre attività idonee a generare i flussi di cassa ceduti nell’ambito dei contratti derivati aventi ad oggetto tassi, indici o valute (es. IRS);
  3. c) disponibilità liquide o titoli di rapida e sicura liquidabilità il cui valore corrente sia almeno equivalente a quello degli impegni as­sunti.

Nel calcolo dei limiti di investimento, le operazioni in strumenti finanziari derivati su tassi e valute non si riflettono sulla posizione in titoli riferita a ciascun emittente e gli strumenti derivati che hanno per oggetto titoli di singoli emittenti (es. future o equity swap relativi a titoli specificamente individuati) sono equiparati ad operazioni a termine sui titoli sotto stanti e, pertanto determinano, alternativa­mente, un incremento o una riduzione della posizione assunta dal fondo su tali titoli. Nel caso di acquisto di indici di borsa in cui vi sia una presenza significativa di alcuni titoli la SGR deve verificare che la posizione complessiva riferita ai singoli emittenti tali titoli ­tenendo anche conto degli altri strumenti finanziari dell’emittente detenuti dal fondo sia coerente con i limiti di concentrazione so­pra riportati[105].

L’utilizzo di strumenti derivati riveste sempre una valenza stru­mentale rispetto ad altre posizioni in essere, ovvero contingenti. Nello specifico, tale investimento può assumere una duplice conno­tazione:

– finalità di copertura di posizioni già esistenti, attraverso l’i­stituzione di una posizione finanziariamente opposta a quest’ultima;

– finalità speculative, entro specifici limiti, che, grazie all’ef­fetto leva intrinseco negli strumenti derivati, permette una più effi­ciente gestione della liquidità.

L’esigenza di copertura può insistere su varie tipologie di rischio quali: rischio di svalutazione della posizione, rischio di deprezza­mento per le posizioni in divisa e rischio di insolvenza dell’emit­tente/controparte. Per ognuna di queste tipologie esiste una specifica strategia imp1ementabile tramite l’assunzione di impegni in stru­menti derivati.

Per quanto attiene, invece, l’esigenza speculativa, i derivati, quali ad esempio i future, consentono di porre in essere un investi­mento su un determinato indice e per un determinato controvalore, impegnando un capitale notevolmente inferiore. La differenza d’im­porto può essere, così, utilizzata per acquistare, a titolo esemplifica­tivo, titoli del mercato monetario, che permettono di perseguire gli obiettivi di garanzia previsti per questa tipologia di investimenti e, nello stesso tempo, ottenere anche un rendimento minimo.

Il provvedimento Banca d’Italia 20 settembre 1999 prevede, per questi strumenti, a prescindere dalla finalità che ne sottende l’uso, specifici vincoli sull’utilizzo da parte di Oicr armonizzati e, in particolare:

  1. il divieto di operazioni equivalenti a vendite allo scoperto;
  2. il divieto di assunzione di impegni superiori al valore netto del fondo.

Con riferimento al punto 1, si considera possibile, nel limite del 10% del valore netto del fondo, acquistare opzioni Put, ovvero ven­dere future su indici azionari o su panieri di titoli obbligazionari per un’efficiente gestione di portafoglio.

Riguardo invece al punto 2, è opportuno precisare che, oltre a tale limite generale, sussiste un vincolo specifico di utilizzo che pre­vede, per impegni rivenienti superiori al 10% del valore complessivo netto del fondo, che nel patrimonio siano ricompresi, per un am­montare pari all’eccedenza e per tutta la durata delle operazioni, alternativamente:

  1. i titoli o le altre attività che il fondo si è impegnato a consegnare;
  2. i titoli o le altre attività idonee a generare i flussi di cassa ceduti nell’ambito dei contratti derivati aventi ad oggetto tassi, indici o valute;
  3. disponibilità liquide o titoli di rapida e sicura liquidabilità il cui valore corrente sia almeno equivalente a quello degli impegni assunti.

Rispetto a questo ulteriore vincolo, si fa presente come la ratio dello stesso, unitamente al divieto di impegnare il fondo tramite de­rivati per un importo superiore al Nav, sia quella di impedire un le­verage economico dell’Oicr, che consentirebbe per il fondo l’insor­genza di una potenziale posizione debitoria, con possibile insolvenza dello stesso.

A differenza dei fondi armonizzati, i fondi non armonizzati, se­condo il Provvedimento della Banca d’Italia 20 settembre 1999, possono investire anche in depositi bancari presso banche aventi sede in uno Stato membro dell’Unione Europea o appartenente al “Gruppo dei dieci” (G-10). Tali depositi non possono avere vin­colo di durata superiore a 12 mesi per almeno il 50 per cento de­vono essere rimborsa bili a vista o con un preavviso inferiore a 15 giorni.

Il patrimonio del fondo non può essere investito in misura supe­riore al 20 per cento del totale delle attività in depositi presso un’u­nica banca. Tale limite è ridotto al 10 per cento nel caso di investi­menti in depositi presso la banca depositaria del fondo. In ogni caso i depositi presso banche di uno stesso gruppo, non possono eccedere il 30 per cento del totale delle attività del fondo. Nel caso di depositi presso banche del gruppo di appartenenza della SGR, le condizioni praticate al fondo devono essere almeno equivalenti a quelle appli­cate dalla banca medesima alla propria clientela primaria. Nel caso in cui il fondo detenga strumenti finanziari emessi da una banca presso la quale ha effettuato depositi, i limiti del presente paragrafo sono calcolati sommando il valore di tali strumenti a quello dei de­positi bancari in essere. Ai fini della verifica dei suddetti limiti, non si tiene conto della liquidità detenuta per esigenze di tesoreria presso la banca depositaria.

  1. I fondi azionari chiusi in Italia tra opportunità e ostacoli allo sviluppo

I fondi chiusi in Italia sono stati istituiti con la legge n. 344 del 14 settembre 1993.

La legge 344/93 ha contribuito ad elevare il numero degli intermediari finanziari specializzati nell’offerta di capitale di rischio alle imprese. La disciplina dei fondi chiusi si fonda su un modello trilaterale: società di gestione, ban­ca depositaria, patrimonio comune, ricalcando così la normativa sui fondi d’investimento aperti[106] introdotti dalla legge n. 77/83.

Le SGR che gestiscono fondi comuni di investimento di tipo chiuso sono tenute ad ac­quisire in proprio una quota pari ad almeno il 2% del patrimonio di ciascun fondo[107]. Qualora le attività di gestione e promozione del fondo siano svolte da distinte SGR[108], ciascuna di esse deve acquisire in proprio una quota pari all’1% del patrimonio del medesimo fondo.

Le SGR devono operare con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei par­tecipanti al fondo, organizzandosi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitto di interesse tra i patrimoni gestiti e adottando misure idonee a salvaguardare i diritti dei sottoscrittori ai fondi.

Per quanto riguarda i diritti di voto relativi agli strumenti finanziari posseduta dal fondo, la SGR provvede, nell’interesse dei partecipanti, all’esercizio dei medesimi, salvo diversa disposizione di legge.

Al fine di evitare che la SGR ponga in essere comportamenti fraudolenti, il TUF dispone che la custodia delle disponibilità liquide e degli strumenti finanziari, che costituiscono il patrimonio del fondo, sia affidata ad una banca[109], la quale è tenuta ad eseguire le istruzioni del­la SGR, salvo diversa disposizione della legge o dei regolamenti degli organi di vigilanza.

Nell’esercizio delle proprie funzioni la banca depositaria[110] accerta la legittimità delle operazioni di emissione e di rimborso delle quote del fondo, il calcolo del valore e la desti­nazione dei redditi del fondo.

Inoltre, è responsabile nei confronti della SGR e dei partecipanti al fondo di ogni pre­giudizio da essi subito in caso di inadempimento[111].

Il patrimonio di un fondo chiuso viene raccolto attraverso un’unica emissione di quote, tutte di uguale valore e con uguali diritti.

Queste devono essere sottoscritte entro diciotto mesi dalla data di approvazione del regolamento del fondo da parte della Banca d’Italia o, nel caso in cui le quote siano offerte al pubblico, dalla data di pubblicazione del relativo prospetto informativo.

Il patrimonio del fondo è autonomo e distinto a tutti gli effetti sia dai patrimoni della SGR e della banca depositaria, che da quelli di ciascun partecipante.

Tale indipendenza si concreta nel divieto di compiere su di esso ogni tipo di azione ese­cutiva da parte dei creditori della SGR e della banca depositaria; le azioni dei creditori dei singoli investitori sono invece ammesse nei limiti delle rispettive quote di partecipazione.

Dunque i fondi chiusi sono stati istituiti al fine di stimolare lo sviluppo di operazioni di finanziamento a medio e lungo termine, con impegno partico­lare nel capitale di rischio e nella gestione delle piccole e medie imprese ancora non quota­te in una borsa valori.

Per quanto riguarda il profilo strutturale, nei fondi introdotti con la legge n.344/93, l’ammontare del capitale da sottoscrivere è prefissato e determinato al momento della pro­mozione del fondo: quindi non vi è la libertà di entrata e uscita che caratterizza i fondi aperti.

La normativa sui fondi chiusi è stata in seguito sottoposta ad una sostanziale riforma mediante due ulteriori provvedimenti: il Testo Unico della Finanza (TUF), cioè il D.Lgs. n. 58/98, ed il D.Lgs. n. 461/97, che ha regolato il trattamento fiscale del fondo.

Il TUF definisce quale “fondo chiuso” il fondo comune d’investimento, costituito da un patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte, in cui il diritto al rimborso delle quote viene riconosciuto ai partecipanti solo a scadenze predeterminate.

Tale istituto è inserito nella disciplina relativa agli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR), insieme ai fondi aperti ed alle società di investimento a capitale va­riabile (SICAV) e rientra nel fenomeno espressamente previsto dal legislatore di gestione collettiva del risparmio[112], attività che, ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. 58/98, è riservata alle società di gestione del risparmio (SGR) ed alle SICAV[113].

La novità della disciplina risiede nell’introduzione del gestore unico del risparmio, rap­presentato dalla SGR, la quale, ai sensi del D.Lgs. 58/98, di cui all’art. 33, è autorizzata a prestare sia il servizio di gestione collettiva, sia quello di gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi; può inoltre istituire e gestire fondi pensione e svolgere le attività connesse o strumentali a quelle appena elencate.

Il TUF ha in sostanza abrogato la legge 344/93 e, nell’ambito di un processo di pro­gressiva delegificazione, ha delegato alla normativa secondaria il compito di disciplinare nel dettaglio la materia.

A seguito del TUF, infatti, sono stati emanati i regolamenti della Banca d’Italia del 1 luglio 1998 e del 20 settembre 1999, la delibera della Consob[114] n. 11522 del 1 luglio 1998 ed il decreto del Ministero del Tesoro n. 228 del 24 maggio 1999.

Il primo provvedimento della Banca d’Italia, per quanto attiene ai fondi mobiliari chiusi, ha regolato in particolare l’attività delle SGR disciplinandone l’autorizzazione, l’ade­guatezza patrimoniale, il contenimento del rischio, la partecipazione al capitale, l’organizzazione amministrativo-contabile, i controlli interni e l’operatività all’estero.

La Banca d’Italia ha inoltre provveduto a fissare i criteri generali per la redazione ed il contenuto minimo del regolamento dei fondi comuni d’investimento, dettando una specifica normativa inerente l’offerta in Italia di quote di fondi comuni di Paesi dell’Unione Europea.

Il secondo provvedimento ha ad oggetto la disciplina delle partecipazioni detenibili dal­le SGR, il contenimento ed il frazionamento del rischio, i criteri di valutazione del patrimo­nio del fondo, le operazioni di fusione e scissione di SGR e la procedura di fusione tra fondi comuni.

L’ultima parte del provvedimento è dedicata alla regolamentazione delle caratteristiche dei certificati di partecipazione ai fondi e alle condizioni per l’assunzione dell’incarico di banca depositaria.

La delibera Consob individua, invece, le informazioni da fornire al pubblico nell’ambito della commercializzazione delle quote e determina le modalità con cui devono essere resi pubblici elementi contrattuali quali il prezzo di emissione, di vendita, di riacquisto e di rim­borso delle quote.

Il regolamento del Ministero del Tesoro, infine, determina i criteri generali cui devono u­niformarsi i fondi comuni d’investimento con particolare riguardo all’oggetto dellìinve­stimento, alle categorie di investitori cui è destinata l’offerta delle quote, alle modalità di partecipazione ai fondi aperti e chiusi ed all’eventuale durata minima e massima degli stessi.

  1. Il private equity come asset class per gli investitori istituzionali

Con l’espressione private equity si individua un’organizzazione preposta allo svolgimento di attività quali l’assunzione di partecipazioni al capitale di rischio delle imprese non finanziarie, l’organizzazione e il finanziamento di operazioni di leva finanziaria (Leverage Buy-Out, LBO) per la parte attinente il capitale azionario[115], la consulenza in tema di assetti proprietari.

Il private equity combina l’attività di finanziamento, che è realizzata attraverso l’assunzione di partecipazioni al capitale azionario delle aziende finanziate, con quella di servizio, che consiste nell’ideazione, montaggio e gestione dell’operazio­ne stessa.

Il private equity può essere sia un intermediario finanziario di diritto italiano, attualmente nelle possibili configurazioni di SGR preposta alla gestione di fondi chiusi di investimento, oppure un intermediario finanziario ai sensi degli artt. 107 e 108 del TUB, sia un intermediario finanziario di diritto estero, sia una società non classificabile come intermediario finanziario e quindi non soggetta alla vigilanza del­la Banca d’Italia.

Con riferimento all’attività di finanziamento, il private equity distingue tra l’as­sunzione di partecipazioni di maggioranza e quelle di minoranza.

Nelle partecipazioni di maggioranza l’investitore è interessato a conseguire il controllo dell’azienda al fine di disporre di tutte le leve necessarie per influenzarne la gestione e lo sviluppo, fatti salvi gli eventuali accordi sottoscritti all’interno dei patti parasociali; per operare in questo segmento sono necessarie competenze industriali e tecnologiche marcate poiché l’investitore diventa proprietario dell’azienda ed è quindi, di conseguenza, chiamato a gestirla o direttamente oppure, più frequentemente, attraverso la nomina di un management di fiducia; in questo segmento del mercato, oltre alle aziende industriali, che esulano dalla trattazione, sono attivi numerosi fondi chiusi di diritto estero che possono essere sia portatori di propri progetti industriali[116] sia partner finanziari di team manageriali e imprenditoriali che vogliono sviluppare una propria business idea[117].

Nelle partecipazioni di minoranza l’investitore entra nel capitale dell’impresa seguendo una logica finanziaria di ritorno economico sull’investimento; egli valuta il pro­getto imprenditoriale del soggetto gestore, che ha e vuole mantenere il controllo dei diritti proprietari dell’azienda, e ha un grado minore di interesse a entrare direttamente nella sua conduzione; in questo ambito rientrano gli interventi volti a sostenere finan­ziariamente i progetti di sviluppo delle imprese, soprattutto a proprietà familiare[118], e altre operazioni di natura finanziaria volte, almeno nelle intenzioni degli intermediari finanziatori, a condurre l’impresa verso forme di finanza diretta (per esempio, quotazio­ne nel mercato azionario)[119].

Dietro l’eti­chetta “di minoranza” si cela una pluralità di operazioni, e quindi di tipologie di par­tecipazioni, che hanno tra di loro caratteristiche diverse.

A questo proposito si avanza una classificazione delle partecipazioni articolata in due macroaree:

  • gli investimenti cosiddetti in bonis;
  • gli investimenti a seguito di situazioni patologiche d’impresa.

I primi individuano quelle aziende sane dal punto di vista operativo e che hanno bisogno di aumentare il capitale di rischio per:

  • ristrutturare la struttura finanziaria, al fine di riequilibrarla a favore del capitale azionario (rientro del quoziente di leva finanziaria);
  • raccogliere risorse finanziarie esterne che eccedono le disponibilità di autofinan­ziamento della compagine proprietaria in concomitanza con operazioni di natura straordinaria (per esempio, un’acquisizione, il ridisegno della compagine proprie­taria ecc.) e comunque di sviluppo delle dimensioni aziendali.

Gli investimenti a seguito di situazioni patologiche Individuano la macroarea delle imprese in crisi che ha un particolare rilievo nei porta­fogli di partecipazioni delle banche a fasi cicliche in corrispondenza del manife­starsi di numerose crisi d’impresa quali quelle nella prima metà degli anni Novanta dello scorso secolo e dell’inizio dell’attuale decennio. Elemento cruciale relativo a questa forma di partecipazione è la capacità dell’azienda partecipata di ristabilire una sana gestione operativa attraverso il recupero della propria posizione competi­tiva nel mercato.

Gli interventi di risanamento si articolano in due segmenti specifici:

  • interventi di ristrutturazione stragiudiziale. Riguardano la fase di crisi conclamata, quando l’azienda è in una situazione di illiquidità e spesso di temporanea insolven­za. L’esperienza maturata nel corso degli anni Novanta ha ampliato il tipico inter­vento di risanamento dal modello del piano economico-finanziario, che poteva prevedere la conversione del debito in capitale di rischio, a quello dell’intervento “chirurgico”, volto a isolare rapidamente la parte sana dell’azienda da quella malata al fine di venderla sul mercato delle acquisizioni e, con il ricavato, sanare le posizioni debitorie pregresse. Considerata l’estrema difficoltà a operare in questo ambito e le competenze specialistiche che sono necessarie, appare molto improba­bile che gli intermediari finanziari generalisti abbiano convenienza a entrare nel segmento, come pure non vi sono allo stato attuale intermediari specializzati attivi in Italia[120];
  • interventi di turn around. Queste operazioni possono porsi a monte o a valle di una crisi conclamata. In entrambi i casi la patologia aziendale non è così acuta come negli interventi di ristrutturazione. L’azienda ha un calo dei profitti oppure perdite dovuti alla minore competitività e necessita di capitale di rischio per poter disporre di un capitale paziente per finanziare gli investimenti che sono alla base del programmato recupero della competitività stessa. In termini operativi queste opera­zioni possono essere assimilate al capitale per lo sviluppo, anche se il rischio aziendale che presentano è superiore rispetto alla casistica delle imprese in bonis. Proprio a causa del rischio elevato si preferisce condurre questi interventi attraver­so soggetti specializzati.

L’obiettivo del private equity che opera nel mercato del capitale per lo sviluppo attraverso l’acquisizione di partecipazioni prevalentemente di minoranza è quello di ap­portare nell’impresa il capitale necessario[121] per sostenere un progetto-strategia di cre­scita ideata e gestita dal gruppo imprenditoriale – proprietario – dirigente dell’azienda, preesistente al momento dell’investimento[122].

Il capitale introdotto deve essere utilizzato per favorire l’incremento del valore dell’azienda, che è ottenibile attraverso la realizzazione della strategia finanziata. Al ter­mine del periodo di investimento tale aumento di valore dovrà essere concretizzato attraverso la cessione della partecipazione a un prezzo che sia superiore rispetto a quello di carico e che sia rappresentativo dell’incremento di valore (guadagno in con­to capitale, cosiddetto capital gain). Il processo lungo il quale si assume una decisio­ne di investimento di questo tipo da parte del private equity è caratterizzato da alcuni elementi fondamentali:

  • l’individuazione dell’azienda target;
  • l’attività di analisi delle prospettive di sviluppo dell’azienda;
  • la valutazione del prezzo di acquisto delle azioni;
  • il regolamento dei rapporti tra l’azionista di maggioranza (il gruppo imprenditoria­le) e quello di minoranza (l’investitore finanziario);
  • la gestione e l’uscita dall’investimento.

La prima fase del processo consiste nell’individuazione delle azien­de che possono essere dei potenziali investimenti. Le caratteristiche ricercate nelle aziende target sono: a presenza di interessanti prospettive di crescita dimensionale attraverso la realizzazione di strategie di innovazione di prodotto/di processo, di apertura di nuo­vi mercati geografici (internazionalizzazione), di integrazione verticale a monte e/o a valle al fine di presidiare la filiera produttiva e rafforzare la propria posizione competitiva; la possibilità di realizzare delle acquisizioni strategiche di concorrenti importanti dell’azienda al fine di accelerare il tasso di crescita, di acquisire nuovi vantaggi competitivi e di rafforzare la propria posizione nei mercati di sbocco; l’appartenenza a settori che prevedano interessanti tassi di sviluppo a breve e a medio termine meglio se frammentati e suscettibili di consolidamento nel medio periodo; la possibilità di realizzare margini crescenti e sostenuti nel breve e medio termine e superiori rispetto alla media dei settori industriali; una dimensione operativa e di struttura prospettica compatibile con l’ipotesi di una quotazione nel mercato azionario al termine del periodo di investimento[123]; una struttura aziendale sufficientemente articolata in termini di strumenti di pro­grammazione e di controllo delle performance e guidata da un team manageriale competente e con un’attribuzione delle deleghe operative bene definita.

Inoltre, gli operatori del capitale per lo sviluppo escludono le aziende che necessi­tano di interventi di ristrutturazione o di turn around per la ripresa delle prospettive di crescita perché l’intervento in questa tipologia di imprese viene giudicato come un ambito per specialisti.

Se il primo contatto ha buon esito, allora si approfondisce l’esame della situazione al fine di comprendere se l’operazione possa essere di reciproco interesse per entrambe le parti in causa. Questo supplemento di indagine si concretizza sia in una serie di incontri e colloqui per conoscere il management aziendale e il suo orientamento alla crescita sia nell’ampliamento e nell’approfondimento delle analisi competitiva e di bilancio avviate con il quick scan.

In particolare con riferimento al secondo punto, le indagini che tipicamente vengo­no svolte riguardano:

  • una due diligence fiscale preliminare al prosieguo delle trattative nel caso in cui si abbia il sospetto della presenza di pratiche volte all’evasione fiscale nell’ambito dell’impresa (per esempio, mancata contabilizzazione di ricavi e di costi);
  • un’attenta revisione e discussione del business plan aziendale, se presente, che è stato redatto dal management;
  • una prima determinazione di massima del fabbisogno finanziario esterno richiedi­bile dall’azienda e del valore del capitale economico aziendale.

Nel caso in cui le parti dimostrino una concreta intenzione a proseguire nella trattativa[124], si arriva a stipulare una lettera di intenti (letter of agreement), preliminare al contratto vero e proprio, volta a definire i possibili termini dell’operazione.

Nella lettera di intenti sono formalizzati, tra gli altri, i seguenti elementi: il prezzo base, ossia la valutazione del capitale economico, dal quale partire per determinare il valore di cessione della partecipazione, e i criteri di valutazione che saranno adottati; le aree aziendali che verranno indagate e le modalità di metodo che verranno applicate per compiere degli approfondimenti conoscitivi volti a verificare la veridicità dei prospetti contabili finora forniti al fine di arrivare a una corretta e veritiera valutazione del capitale economico; la concessione di un’esclusiva all’investitore per un periodo di tempo limitato (di solito due-tre mesi) con la quale l’impresa si impegna a non intrattenere rapporti né tantomeno a concludere la stessa operazione con altri investitori, per permettere all’operatore di effettuare le verifiche sub b (clausola di esclusività).

Inoltre sarà formalizzata ancora il disegno dei principi che regoleranno il rapporto tra azionisti di maggioranza e di minoranza (cosiddetti patti parasociali)[125] e l’impegno a rimuovere eventuali patti tra soci preesistenti che ostacolino l’ingresso di un socio finanziario; il rispetto dei principi di riservatezza e di correttezza da parte dell’investitore e di suoi consulenti che vengano chiamati a svolgere specifiche verifiche tecniche, in particolare per quanto riguarda la conoscenza sia dell’esistenza della trattativa all’esterno delle parti in causa sia di informazioni “sensibili” che, se divulgate, potrebbero essere di estremo interesse per i concorrenti dell’azienda;  l’individuazione dei tempi di durata dell’investimento e delle diverse opzioni di uscita a disposizione dell’intermediario;  infine le garanzie da richiedere alla proprietà sulle poste di bilancio ritenute critiche[126] e l’eventuale introduzione di una clausola di rottura delle trattative nel caso in cui la successiva due diligence contabile porti a evidenziare scostamenti di valore delle poste conta­bili, rispetto a quanto dichiarato in sede di redazione di bilancio, superiori a una percentuale concordata tra k parti (solitamente il 15 per cento).

Tutte queste verifiche, oltre a mettere l’investitore nelle condizioni ideali per conoscere la situazione attuale dell’azienda che si appresta a partecipare e le reali possibi­lità di raggiungere gli obiettivi di crescita dichiarati dal management aziendale, sono funzionali all’ottenimento di una valutazione corretta del capitale economico che concretizza, in termini numerici, l’accordo tra le parti (il prezzo). In parallelo all’atti­vità di verifica, il team legale lavora per predisporre una prima bozza di accordo con­trattuale che recepisca sia le indicazioni che man mano emergono dai colloqui tra le controparti sia i dati risultanti dalla due diligence.

La probabilità di trasformare un negoziato in un investimento (cosiddetto closing dell’operazione) non dipende però solo dall’accordo sul prezzo di cessione tra le parti. ma anche sulle norme che il gruppo proprietario è disposto ad accettare per regolare i suoi rapporti con il nuovo azionista.

Innanzitutto è fondamentale per r investitore definire contrattualmente la via/le vie d’uscita ipotizzabili. In via di principio, l’exit way preferita dagli intermediari è la quotazione nel mercato azionario[127]. Al momento della stipulazione dell’accordo la proprietà si impegna a portare. insieme all’interme­diario, l’azienda al listino al termine del ciclo dell’investimento nel caso in cui essa presenti le caratteristiche adeguate per la quotazione che vengono già definite e con­cordate nell’ambito del contratto stesso: se, per un qualsiasi motivo, la proprietà non terrà fede all’impegno alla scadenza contrattuale, essa si obbliga a riacquistare il pac­chetto azionario dell’intermediario (cosiddetto patto di riacquisto) al valore che pre­sumibilmente si otterrebbe nell’ambito di un collocamento.

Le altre possibili vie di uscita sono:

  • la fusione con altre aziende del settore fusioni sia orizzontali che verticali, per la costituzione di poli industriali;
  • la cessione a operatori terzi (un altro intermediario o un soggetto industriale/frode sale);
  • un’operazione di buy-ouf buy-in da parte di un gruppo manageriale con il concorso di un nuovo investitore finanziario (secondary buy-out);
  • la clausola di pari passu qualora l’azionista di maggioranza decida di vendere.

Esse vengono considerate dall’intermediario come soluzione di second best rispetto all’opzione della quotazione sul mercato e, in questi secondi casi, è spesso la proprietà a chiedere di porre una clausola di gradimento all’eventuale nuovo azionista se esso dovesse essere di natura industriale.

Un’ampia area dell’accordo verte anche sul regolamento dei rapporti nel corso dell’investimento; in particolare, l’investitore avoca a sé la possibilità di controllare la gestione e l’andamento della realizzazione della strategia sia attraverso la nomina di un suo rappresentante nel CdA sia riservandosi la possibilità di chiedere in ogni momento delle informazioni supplementari rispetto a quelle periodiche. Nell’ambito del CdA il rappresentante dell’investitore non ha di solito delle deleghe operative poiché questo sarebbe contrario all’orientamento di non ingerenza nella gestione dell’impresa; è comunque evidente che, qualora ve ne fosse bisogno e vi fossero le condizioni da parte dell’azionista industriale, il management dell’intermediario è disponibile a porsi in affiancamento a quello aziendale per affrontare problemi soprattutto nelle aree della finanza, della programmazione e del controllo di gestione, dell’organizzazione aziendale, del legale e dell’internazionalizzazione, anche attraverso l’inserimento nell’azienda di manager del settore che siano di sua fiducia; delle clausole di «richiesta di intervento» potrebbero essere anche comprese all’interno del contratto di investimento.

Nel caso in cui si sia trovato un punto di accordo tra le parti sulle principali aree che determinano il buon fine della trattativa[128] e che in fase di due diligence non siano emerse situazioni ostative che abbiano provocato il ricorso alla clausola di rottura, si procede alla stesura del testo definitivo del contratto che, dopo avere passato il vaglio dei consulenti legali di entrambe le parti, viene firmato[129]. L’intera operazione, dalla sottoscrizione della lettera di intenti a quella del contratto, richiede solitamente due – tre mesi di tempo, fatte salve complicazioni particolari. Immediatamente successiva alla firma del contratto è l’erogazione per cassa del capitale concordato (il prezzo dell’operazione), che può avvenire o in un’unica soluzione oppure in due o più tranches successive, a seconda degli accordi presi. Oltre al normale monitoraggio periodico della posizione, ai frequenti contatti tra manage­ment aziendale ed executive dell’investitore che segue l’investimento e alla partecipa­zione al CdA della società, spesso il capitale per lo sviluppo si caratterizza per una col­laborazione attiva per la crescita dell’azienda da parte dell’investitore stesso in termini di apporto di competenze specifiche che non sono presenti nell’azienda.


[1] Essi non possono derivarsi soltanto da quanto positivamente sancito dalle norme: la mol­teplicità delle situazioni che il governo delle imprese è chiamato ad affrontare e l’ampiezza della discrezionalità che la sfera politica deve necessariamente riservarsi di fronte ad essa fanno sì che la gamma degli obiettivi perseguiti, e le rispettive prio­rità al suo interno, possano significativamente variare anche a normativa costante. Tantazzi A., Corporate governance e proprietà azionaria, in Le nuove funzioni degli organi societari verso la Corporate Governance, Milano 2002; Barucci E., Messori M., Mercato dei capitali e corporate governance in Italia,  Roma 2006.

[2] Cfr. Gros Pietro G., Privatizzazioni e corporate governance, in Le nuove funzioni degli organi societari verso la Corporate Governance, Milano 2002.

[3] Art. l, comma 5, Tuif, il quale stabilisce che “Per servizi di investi­mento si intendono le seguenti attività quando hanno ad oggetto strumenti finan­ziari: a) negoziazione per conto proprio; b) negoziazione per conto terzi; c) collo­camento, con o senza preventiva sottoscrizione o acquisto a fermo, ovvero assun­zione di garanzia nei confronti dell’ emittente; d) gestione su base individuale di portafoglio di investimento per conto terzi; e) ricezione e trasmissione di ordini nonché mediazione.

[4] Briolini F., Articolo 22. Separazione patrimoniale, in Testo unico della finanza. 1. Intermediari e mercati. Commentario diretto da G.F. Campobasso, p., 183 ss.; Guguota G., Articolo 22. Separazione patrimoniale, in Il testo unico dell’intermediazione finanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, p., 191 ss.; Gaggero P., Art. 22. Separazione patri­moniale, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa-F. Capriglione, t. I, p., 233 ss. Da ultimo per una attenta ricognizione con particolare attenzione all’ipotesi di insolvenza, Cossu M., Principio di separatezza nella gestione di portafogli di investimento e in­solvenza della s.i.m., in Banca, borsa tit. cred., 2002, I, 606 ss.

[5] Cfr. Miola M., Briouni F., Articolo 36, Fondi co­muni di investimento, in Testo Unico della finanza 1. Intermediari e mercati. Com­mentario diretto da G.F. Campobasso. Torino 2002 p. 314 ss.; Soda A.P., Articolo 36. fondi comuni di investimento, in Il testo Unico dell’intermediazione finanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano 2000 p. 291 ss.; Pontolillo V., Art. 36. Fondi comuni di investimento, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa-F. Capriglione, Padova 1998 p. 384 ss. Si ritiene che la separazione patrimoniale sia massima nelle gestioni individuali dove il portafoglio di ciascun cliente costituisce patrimonio a sé e possa essere, invece, meno rigorosa nei fondi comuni di investimento o nei fondi pensione in cui vi è una commistione delle risorse conferite da ciascun parteci­pante che consente una maggiore diversificazione ed un accesso ad investimenti remunerativi anche nei casi in cui il conferimento individuale sia limitato. Così, Di maio A., Contratti di gestione finanziaria e separazione dei patrimoni, in Diritto dell’economia, Atti dei seminari tenuti nell’auditorium della Cassa Forense di Roma 11 ottobre 2001 – 8 febbraio 2002, a cura di M. de Tilla, G. Alpa, S. Patti, Milano 2002, 565 ss.

[6] Attraverso la separazione patrimoniale si mira, dunque, a costituire una speciale disciplina della responsabilità patrimoniale. Sull’argomento si veda la ricostruzione di Salamone L., Gestione e separazione patrimoniale, Padova 2001.

[7] La separazione patrimoniale nelle gestioni individuali è funzionale a “svolgere una gestione indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati” (art. 21, lett. e, Tuif) in quelle collettive ad “adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti ai fondi” (art. 40 lett. c, Tuif). COSTI R., Il mercato mobiliare, Torino 2008 p., 134 ss., il quale, con riferimento alla prestazione dei servizi di investimento, ritiene che la disposi­zione contenuta nell’art. 21, lett. e, Tuif, anticipi le norme sulla separazione patrimoniale (art. 22 Tuif).

[8] Si ritiene, infatti, che sia questo il senso da attribuire alla locuzione “patrimonio separato” escludendo che di separazione possa parlarsi con riguardo agli strumenti finanziari o al denaro che restano sempre di proprietà dei singoli clienti e non entrano, invece, nel patrimonio dell’intermediario. Sul punto, v. anche Briolini F., Articolo 19. Separazione patrimoniale, in L’Euro­sim, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415. Commentario a cura di G.F. Campobasso, Mi­lano 1997, 146 ss..

[9] Cfr.Forestieri G., Corporate e investment banking, Milano 2007, p. 73.

[10] Miola M., Piscitello P., Articolo 17. Criteri generali, in L’Eurosim, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415. Commentario a cura di G.F. Campobasso, Torino 2002 117 ss. Sul punto si veda anche la deliberazione Consob 11522/1998 e successive modifiche, art. 28 (relativo alle informazioni tra gli intermediari e gli investitori nella prestazione dei servizi di investimento) e l’art. 60 e ss. (riguardanti gli obblighi di attestazione, di rendicontazione e registrazione).

[11] Salamone L., Gestione e separazione patrimoniale, cit., p. 28, il quale os­serva che il gestore compie atti di disposizione funzionali all’incremento di un capitale. In questo senso si può dire che sia la ge­stione individuale, sia la gestione collettiva è diretta al compimento di una attività strumentale alla realizzazione di un “programma di investimento”.

[12] Sul concetto di metodo, Panuccio V., Saggi di metodologia giuridica, Milano 1995, p. XII ss. della premessa, il quale definisce il metodo come “un mo­dello astratto di procedimento che secondo una regola generale di esperienza si rivela praticamente possibile, indefinitamente reiterabile in condizioni normali, e particolarmente idoneo a conseguire un certo risultato”. L’Autore sottolinea come il metodo non sia in sé una attività, un comportamento concreto, quanto, piutto­sto, sia “una maniera generale di agire, un modus operandi considerato in astratto”. Il metodo, in sostanza, va definito come un modello astratto di attività che deve essere strumentalmente idonea al raggiungimento di un determinato ri­sultato.

[13] Per una definizione del comportamento, Falzea A., Comportamento in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, p. 711 ss.; ID., “Manifestazione”, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 135 ss. In termini più generali, ID., “Patto giuridico”, in Enc. dir., XVI, Milano 1967, p. 941 ss.

[14] Panuccio V., Saggi di metodologia giuridica, cit., p. XII ss. della pre­messa.

[15] Santoro V., Gli obblighi di comportamento degli intermediari mobi­liari, in Rivista delle società, 1994, fasc. 4, p. 791-805, il quale, pur riferendosi specificatamente ai servizi di intermedia­zione mobiliare operati dalle sim, ma con considerazioni che rilevano in termini generali, parla di standardizzazione dei comportamenti, quale precisa individua­zione ex ante di norme procedimentali.

[16] L’orientamento è inteso, come specifica l’A. (790, nota 68) quale “direzione che una sequenza di orienta­menti dell’organismo manifesta verso una determinata situazione”. Sussiste un forte legame tra orientamento e interesse, poiché “l’orientamento conferisce al comportamento l’ufficio di segnale dell’interesse del soggetto”. Nel senso cioè che il comportamento, orientato verso un risultato, sottolinea l’interesse del sog­getto che agisce a quel risultato.

[17] Per una ampia e approfondita trattazione sulle destinazioni del patri­monio, Bianca C. M., Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova 1996, p.98.

[18] Oppo G., Sui principi generali del diritto privato, in Le ragioni del di­ritto. Scritti in onore di L. Mengoni, III, Milano 1995, p. 2040 ss., il quale sottolinea come, giuridicamente, rilevi non solo il collegamento tra bene e soggetto, ma anche “il collegamento tra bene e atto (o attività), attraverso il quale si determina anche un collegamento funzionale tra beni e si realizza la destinazione o una de­stinazione concreta del bene”. Segnala la possibilità di attribuire “una valenza sistematica unitaria all’ assog­gettamento di una massa di beni ad una destinazione particolare”, sottolineando come la destinazione si ponga quale fattore che incide sulla disciplina dei beni e che fa emergere “accanto alla relazione beni-soggetto titolare, la relazione beni-at­tività”, Bianca C. M., Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., p. XIII della premessa e, ivi, per ulteriori riferimenti. Sulla rilevanza del collegamento tra beni e attività in termini generali e, in particolare, nell’impresa, si rinvia a Masi P., Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli 1985, p. 145.

[19] Sotto tale profilo la partecipazione ad una società da parte di un in­vestitore istituzionale potrebbe sottintendere un rapporto tra comportamento e interesse diverso da quello che comunemente caratterizza la partecipazione di un soggetto che investe per conto proprio. Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005, p. 211.

[20] Ferro-Luzzi P., L’assetto e la disciplina del risparmio gestito, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1998, fasc. 3-6, p. 191-206.

[21] L’art. 5, prevede che la Banca d’Italia e la Consob esercitino i poteri di vigilanza sui soggetti abilitati. Esso si discosta dal suo antecedente normativo, l’art. 4 d.lgs. 415/1996, in quanto, trattando di soggetti abilitati, amplia il novero degli intermediari tenuti all’osservanza dei regolamenti (e conseguentemente sot­toposti a verifica). Secondo l’art. 1, comma 1, lett. r) sono soggetti abilitati: le im­prese di investimento, le società di gestione del risparmio, le sicav, gli interme diari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 107 del Testo unico bancario e le banche autorizzate all’esercizio dei servizi di investimento. L’art. 4 d.lgs. 415/ 1996, invece, si rivolgeva solo alle imprese di investimento, le banche e gli altri soggetti abilitati, in conformità delle disposizioni del decreto stesso. Santoni G., Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Testo unico della finanza. 1. In­termediari e mercati. Commentario diretto da G.F. Campobasso, cit., p. 39 ss.; Rabitti Bedogni C., Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Testo unico dell’intermediazione finanziari. Commentano al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, cit., p. 59 ss.

[22] A norma dell’art. 6, comma 6, Tuif, la Banca d’Italia, sentita la Con­sob, disciplina con regolamento: a) l’adeguatezza patrimoniale e il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, le partecipazioni detenibili, l’organiz­zazione amministrativa e contabile e i controlli interni; b) le modalità di deposito e sub deposito degli strumenti finanziari e del denaro di pertinenza della clien­tela; c) le tegole applicabili agli oicr aventi ad oggetto: 1) i criteri e i divieti rela­tivi all’attività di investimento, avuto riguardo anche ai rapporti di gruppo; 2) le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio; 3) gli schemi-tipo e le modalità di redazione dei prospetti contabili che le società di gestione del ri­sparmio e le sicav devono redigere periodicamente; 4) i metodi di calcolo del va­lore delle quote o azioni di oicr; 5) i criteri e le modalità da adottare per la valu­tazione dei beni e dei valori in cui è investito il patrimonio e la periodicità delle valutazioni. Per la valutazione dei beni non negoziati in mercati regolamentati, la Banca d’Italia può prevedere il ricorso ad esperti indipendenti e richiederne l’in­tervento anche in sede di acquisizione e vendita dei beni da parte del gestore.

[23] A norma dell’art. 6, comma 2, Tuif la Consob sentita la Banca d’Ita­lia, disciplina con regolamento: a) le procedure anche di controllo interno, rela­tive ai servizi prestati e la tenuta delle evidenze degli ordini e delle operazioni ef­fettuate; b) il comportamento da osservare nei rapporti con gli investitori, anche tenuto conto delle esigenze di ridurre al minimo i conflitti di interessi e di assicu­rare che la gestione del risparmio su base individuale si svolga con modalità aderenti alle specifiche esigenze dei singoli investitori e che quelle su base collettiva avvenga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell’oicr; c) gli obblighi infor­mativi nella prestazione dei servizi; i flussi informativi tra i diversi settori dell’ or­ganizzazione aziendale, anche tenuto conto dell’esigenza di evitare interferenze tra la prestazione del servizio di gestione su base individuale e gli altri servizi di­sciplinati dalla presente parte. Per un commento all’art. 6, Piscitello P., Articolo 6. Vigilanza regolamentare, in Testo unico della finanza. 1. Intermediari e mercati. Commentario diretto da G.F. Campobasso, cit., p. 48 ss.; Lanotte M., Articolo 6. Vigilanza regolamentare, in Testo unico dell’intermediazione finanziari. Commenta­rio al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, cit., p. 82 ss.; Loizzo A., Art. 6. Vigilanza regolamentare, in Commentario al testo unico delle dispo­sizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa-F. Capriglione, t. I, cit., p. 74 ss.

[24] Sulla ripartizione delle competenze tra le due autorità e il relativo di­battito, Costi R., Il mercato mobiliare, cit.,p. 143 ss.; e, con specifico riferimento alle sim, Cera M., Le società d’intermediazione mobiliare, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, 1, Torino 1993, 3 ss., p. 113 ss.

[25] Si rileva, solo per inciso, che la vigilanza prevista dall’art. 6, comma 1, lett. a) riguarda tutti i soggetti abilitati, ma il provvedimento della Banca d’Ita­lia del 1 luglio 1998, puro emanato ai sensi di detto articolo, si riferisce solo alle società di gestione del risparmio e alle società a capitale variabile. È solo successi­vamente, con il provvedimento del 4 agosto 2000, che la Banca d’Italia si occupa delle società di intermediazione mobiliare.

[26] Sul risultato ottenuto con il Tuif di razionalizzare la gestione profes­sionale del risparmio e, in particolare, la gestione collettiva, Miola M., La ge­stione collettiva del risparmio nel T.u.i.f.: profili organizzativi, cit., p. 299 ss.

[27] Per ottenere l’autorizzazione, la società deve rispettare i presupposti oggettivi stabiliti dagli artt. 34 e 43 Tuif, fissare un capitale minimo, predisporre un programma in cui si illustri l’attività iniziale, le linee di sviluppo, gli obiettivi e le strategie che si intendono attuare per i loro perseguimento, nonché, per quel che riguarda le sicav, lo statuto e l’atto costitutivo. il provvedimento della Banca d’Italia si preoccupa anche di stabilire le norme per il controllo dei requisiti di professionalità e di onorabilità, fissati dal Ministero del Tesoro, e dei requisiti dei partecipanti al capitale della società. Qualora esista un gruppo a cui la società di gestione del risparmio appartiene la Banca d’Italia deve anche valutarne l’idoneità dell’articolazione.

[28] Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005.

[29] Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005.

[30] Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005.

[31] L’art. 5 stabilisce che le società di gestione del risparmio abbiano la possibilità di assumere partecipazioni in società del settore bancario, finanziario, assicurativo nonché in società strumentali, cioè in società che esercitano in via esclusiva o prevalente attività non finanziarie, ma che hanno carattere ausiliario dell’ attività delle società di gestione del risparmio, come per attività di studio, ri­cerca, analisi economica e finanziaria, gestione di immobili e di servizi informatici (art. 3 lett. e). È invece esclusa la possibilità di acquisire interessenze in società che operano in settori non finanziari. Le partecipazioni detenute non possono ec­cedere il 50% del patrimonio di vigilanza.

[32] Sulla definizione di investitori qualificati si rinvia a Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005, dove anche alcune considerazioni circa l’uso delle diverse espressioni di operatori qualificati, investitori professionali e investitori qualificati.

[33] Tale articolo stabilisce che il patrimonio del fondo è investito in: stru­menti finanziari quotati in un mercato regolamentato; strumenti finanziari non quotati in un mercato regolamentato; depositi bancari di denaro; beni immobili e diritti reali immobiliari; crediti e titoli rappresentativi di crediti; altri beni per i quali esiste un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale.

[34] Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005. È, pertanto, previsto un limite all’investimento in strumenti finanziari di uno stesso emittente o in parti di uno stesso oicr, nella misura del 5% del totale delle attività. Tale limite è però elevato: al 15% a condizione che si tratti di strumenti finanziari quotati e il totale degli strumenti finanziari degli emittenti in cui il fondo investe più del 5 % delle proprie attività non superi più del 40% del totale delle attività del fondo me­desimo; al 35%, quando gli strumenti finanziari sono emessi o garantiti da uno Stato aderente all’OCSE o da organismi internazionali di carattere pubblico di cui fanno parte uno o più Stati membri dell’Unione Europea; al 100% quando gli stru­menti finanziari sono emessi da uno Stato aderente all’OCSE, purché tale facoltà sia contemplata nel regolamento di gestione del fondo e il valore di ciascuna emis­sione non superi il 30% del totale delle attività del fondo; al 10%, nel caso di investimento in parti di OICR rientranti nel­l’ambito di applicazione della direttiva 85/611 CEE, limite ulteriormente elevato al 20% se il regolamento del fondo preveda di investire esclusivamente in parti di oicr.

[35] Limiti previsti in Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005, nella misura del 30% del totale delle attività del fondo, ridotto tuttavia al 15 % quando il gruppo di appartenenza è quello della società di gestione del risparmio. È, inoltre, stabilito che detto limite non si ap­plica nel caso in cui i fondi prevedono di riprodurre la composizione di un deter­minato indice di borsa sufficientemente diversificato, di comune utilizzo, gestito e calcolato da soggetti di elevato standing e terzi rispetto al fondo e nel caso di in­vestimenti in parti di oicr rientranti nell’ ambito di applicazione della direttiva 85/611 CEE (l’inapplicabilità del limite non rileva per i fondi chiusi; la norma è, invece, richiamata per i fondi armonizzati).

[36] I fondi aperti non possono essere in­vestiti in misura superiore al 20% del totale delle attività in depositi presso un’u­nica banca, riducibile al 10% nel caso di depositi presso la banca depositaria del fondo. I depositi in banche dello stesso gruppo non possono eccedere il 30% delle attività del fondo. Questa disposizione si applica, anche ai fondi chiusi, mentre non si applica ai fondi armonizzati a cui è fatto divieto di investire in depositi bancari.

[37] Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005.

[38] Tedeschi C., Poteri di orientamento dei soci nelle società per azioni, in Quaderni romani di diritto commerciale, Milano, 2005.

[39] L’art. 2, lett. a) del d.m. 21 novembre 1996, n. 703, regolamento re­cante norme sui criteri e sui limiti di investimento delle risorse dei fondi pensione e sulle regole in materia di conflitto di interessi, stabilisce che il fondo pensione operi in modo che le proprie disponibilità siano gestite in maniera sana e pru­dente avendo riguardo agli obiettivi di diversificazione degli investimenti; effi­ciente gestione del portafoglio; diversificazione dei rischi; contenimento dei costi e massimizzazione dei rendimenti. A tal fine i successivi artt. 4 e 5 dispongono precisi limiti per l’investimento del patrimonio del fondo e precisi vincoli per de­terminate operazioni.

[40] I fondi aperti sono fondi speculativi caratterizzati dalla necessità di avere sempre la liquidità necessaria alla liquidazione della quota che può essere richiesta in ogni momento dal sottoscrittore. I fondi chiusi, invece, liquidano le quote alla scadenza e ciò consente durante la vita del fondo il compimento di scelte di investimento profondamente diverse.

[41] Tra coloro che, per tale ragione, non considerano i fondi pensione come organismi di investimento collettivo, Ferrara F., Corsi F., Gli imprenditori e le società, Milano 1999, p. 828, nt. 1; Costi  R., Il mercato mobiliare, cit., p. 196, il quale, pur precisando che la funzione dei fondi pensione è previdenziale e non di investitore istituzionale, tuttavia considera che la loro attività di gestione delle ri­sorse, traducendosi normalmente in operazioni di investimento e disinvestimento mobiliare, li rende investitori istituzionali di grande rilevanza.

[42] In realtà, attraverso la suddivisione degli investimenti tra titoli diversi ed emessi da emittenti diversi, può essere diminuito solo il rischio specifico, che dipende dalle caratteristiche peculiari dell’ emittente, mentre il rischio sistemico, che è connesso alle fluttuazioni del mercato, non può essere ridotto attraverso la diversificazione del portafoglio

[43] Sul punto Enricques L., Dalle attività di intermediazione mobiliare ai servizi di investimento, in Riv. soc., 1998, p. 1013 ss.; Annunziata F., Conflitto di interessi e rapporti di gruppo nell’atti­vità di gestione di patrimoni, in I gruppi di società. Atti del Convegno internazio­nale di studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, vol. I, a cura di P. Balzarini, G. Carcano, G. Mucciarelli, Milano 1996, p. 613 ss. L’Autore riferendosi agli in­vestimenti in titoli del gruppo, ricorda l’art. 30 del regolamento Consob 8850/ 1994 (modificato con deliberazione 9422/1995) che consente al gestore di acqui­stare senza limiti quantitativi quote di organismi di investimento collettivi emessi o collocati da soggetti appartenenti al gruppo. Si veda anche una, non recentissima, comunicazione della Consob (19 febbraio 1992), la quale, pur non precisando quale debba essere l’importo minimo necessario per iniziare una gestione individuale, stabilisce che tale importo debba comunque consentire al gestore una appropriata diversificazione degli investimenti .

[44] Distingue tra finalità specifiche e finalità generali dell’ attività di vigi­lanza Rabitti-Bedogni C., Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Te­sto unico dell’intermediazione finanziari. Commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, cit., p. 66. Si sostiene, infatti, che esistono due gruppi di scopi: un primo gruppo di finalità definite specifiche che riguardano la trasparenza, la correttezza dei comportamenti, la sana e prudente gestione; un se­condo nucleo di finalità generiche che, invece, sarebbero quelle di tutela degli in­vestitori, della stabilità del buon funzionamento del sistema finanziario. Si discute se le finalità specifiche siano obiettivi strumentali rispetto alle finalità generiche le quali avrebbero solo una portata programmatica, mentre il valore precettivo della norma riguarderebbe solo le prime. Sulla portata del dibattito, Santoni G., Articolo 5. Finalità e destinatari della vigilanza, in Testo unico della finanza. 1. Inter­mediari e mercati, cit., p. 42 ss.

[45] Gli ampi poteri regolamentari della Consob riguardano anche la disci­plina delle procedure dei servizi prestati e, dunque, la previsione di regole rela­tive al sistema di controllo interno destinato a monitorare la regolarità dei servizi prestati, la indicazione di disposizioni riguardanti la tenuta degli ordini impartiti e le operazioni effettuati in modo da poterne verificare la corrispondenza (art 6, comma 2, lett. a). Inoltre, la disciplina regolamentare della Consob deve preoccu­parsi di disciplinare il sistema di flussi informativi in modo che l’intermediario, da un lato tenga al corrente il cliente delle operazioni, ma, dall’ altro, eviti interfe­renze tra i suoi diversi comparti (art. 6, comma 2, lett. c).

[46] Rabitti-Bedogni C., Articolo 21, comma 1, lett. a e b. Criteri generali, in Il testo unico dell’intermediazione fi­nanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, cit., p. 169 ss.; Vella F., Articolo 40. Regole di comportamento e diritto di voto, in Testo unico della finanza. 1. Interme­diari e mercati. Commentario a cura di G.F. Campobasso, cit., 357 ss.; Zizzi A., Articolo 40. Regole di comportamento e diritto di voto, in Il testo unico dell’inter­mediazione finanziaria, commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti Bedogni, cit., p. 309 ss.; Alpa G., Art. 21. Criteri generali, in Commentano al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa-F. Capriglione, cit., p. 212 ss.

[47] Santoro V., Gli obblighi di comportamento degli intermediari mobiliari, in Riv. soc., 1994, 791 ss., il quale sviluppa due considerazione: ove l’ordi­namento speciale presenti delle lacune soccorrerà l’applicabilità diretta dei prin­cipi generali (spec. 793 ss.); le norme speciali sono specificazione dei principi ge­nerali relativi agli obblighi di comportamento di chi agisce per conto altrui (spec. 799 ss.); Cera M., L’attività di intermediazione mobiliare e la disciplina contrattuale, in Banca, borsa tit. cred., 1994, I, p. 23 ss.

[48] Per quanto riguarda i criteri a cui le imprese di investimento e le ban­che debbono attenersi nella prestazione dei servizi, l’art. 21 Tuif, oltre all’obbligo di comportarsi con diligenza correttezza e trasparenza, impone di acquisire le in­formazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adegua­tamente informati.

[49] Cera M., L’attività di intermediazione mobiliare e la disciplina contrat­tuale, cit., 23 ss.; Annuniziata F., Regole di comportamento degli intermediari e ri­forme dei mercati mobiliari: l’esperienza francese, inglese e italiana, Milano 1993. Sul punto v. anche Costi R., Il mercato mobiliare, cit., p. 125, il quale, pur rite­nendo che i criteri generali dettati dal Tuif in materia di prestazione di servizi di investimento, siano in qualche misura ripetitivi di norme di diritto comune, tuttavia, ritiene che la loro esplicita previsione dovrebbe favorire sia l’attività di vigi­lanza sia il successo di eventuali azioni risarcitorie da parte dei clienti; Di maio A., La correttezza nell’attività di intermediazione mobIliare, in Banca, borsa e tit. cred., 1993, I, p. 289 ss. Per una più ampia indagine che attribuisce a chi esercita un’attività professionale i cosiddetti “obblighi di protezione”, Castronovo C., L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto, Scritti in onore di L. Mengoni, I, Milano 1995, p. 147 ss.; Scogliamiglio C., Sulla responsabilità dell’impresa bancaria per violazione di obblighi discendenti dal proprio status, in Giur. it., 1995, IV, p. 356 ss.; Venuti M.C., Le clausole generali di correttezza, diligenza e trasparenza nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziano, in Europa dir. priv., 2000, p. 1049 ss.

[50] Masi P., Articolo 92. Punto di trattamento, in Testo Unico della Fi­nanza. Commentario diretto da G.F. Campobasso, II, Emittenti, Torino 2002, p. 750 ss.; Di maio A., La correttezza nell’attività di intermediazione mobiliare, cit., 289 ss., il quale, riferendosi all’ attività di intermediazione mobiliare, sostiene che l’assetto tradizionale, per cui la professionalità è attributo della diligenza e in­sieme con questa caratterizza la perizia del soggetto che agisce in relazione all’ at­tività svolta e la correttezza indica la qualità del comportamento che si esige da un uomo medio, vada rivisto. Infatti, in un sistema in cui oggetto della disciplina è l’attività di intermediazione mobiliare, anche la correttezza acquista una valenza professionale, nel senso che la correttezza richiesta non è più solo collegata all’uomo medio, ma all’intermediario autorizzato in relazione alla specifica attività da esso svolta (spec. 292); Bianca C.M., La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 207 ss.

[51] Santoro V., Gli obblighi di comportamento degli intermediari mobiliari, cit., 799 ss., il quale sottolinea come “tale processo evolutivo porti a re­gole sempre più complesse e dettagliate per il cui rispetto si istituisce un con­trollo pubblico con la funzione di compensare il venire meno della fiducia tra le parti del singolo rapporto, per soppiantarla con una “fiducia” nel buon funziona­mento del sistema”.

[52] Per un commento generale alla nuova disciplina della gestione in monte . si rinvia a Tonelli C., Le società di gestione del risparmio, in AA.VV., Intermedia­ri finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, p. 15 e ss.; AA.VV., Commenti sub art. 33 e seguenti, in Il testo unico della intermediazione finanziaria, a cura di Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p. 275 e ss.; AA.VV. (Ferro Luzzi, Lener, Annunziata, Bisogni, Desiderio, Galante, Ristuccia, Sepe, Tofanelli e Zannotti), Testo unico delle dispo­sizioni in materia di mercati finanziari, in Quaderni di documentazione e ricerca di Assogestioni, n. 21, 1998, p. 95 e ss.; AA.VV., Commenti sub art. 33 e seguenti, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, tomo I, p. 349 e ss.; Recine, La gestione collettiva del risparmio, in AA.VV., Il testo unico dei mercati finanziari, Quaderni della Gazzetta giuridica Giuffrè – Italia Oggi, Milano, 1998, p. 39 e ss; Galante – Lener, Prime riflessioni sulle società di gestione del risparmio, in AA.VV., La riforma del mercato finanziario e delle società quotate, Milano, 1998, p. 530 e ss.; Lener A., La SGR nel regolamento Consob di attuazione del T.U.F., in Le società, 1998, p. 1123 e ss.; Galante D., La gestione collettiva alla luce dei regolamenti Consob e Banca d’Italia, in Le società, 1998, p. 1131 e ss.; Bisogni, I modelli organizzativi della SGR nella prestazione del servizio di gestione collettiva, in Le società, 1998, p. 1137 e ss.; Battigaglia e Pantano A., Società di gestione del risparmio: il provvedimento emanato dalla Banca d’Italia, in Le so­cietà, 1998, p. 1130 e ss.; Mongiello C., La società di gestione del risparmio (la nuova figura del “gestore unico”), in Contratto e impresa, n. 3, 1999, p. 1458 e ss.

[53] In tema Soda, Commento sub art. 33, cit., p. 279, e Mongiello C., La società di gestione del risparmio (la nuova figura del “gestore unico”), in Contratto e impresa, n. 3, 1999, cit., p. 1464 e ss.

[54] Sanguinetti A., Forte M., Le società di gestione del risparmio: novità legislative, prodotti, modalità di controllo dei limiti di contenimento del rischio, regole di comportamento, performance attribution, segnalazioni di vigilanza, Milano 2004; Sepe M., Il risparmio gestito,Bari 2000.

[55] Ciò è possibile evincere dal combinato disposto dell’art. 1, comma 1, lettere n) e m). Tonelli A., Le società di gestione del risparmio, cit., p. 33, con riferimento all’ipotesi di Sicav che deleghino alle Sgr poteri di gestione relativamente all’intero loro patrimonio, ai sensi dell’art. 43 comma 7 del TUF, ritiene la fatti specie non riconducibile a fenomeni di delega di gestione, né di gestione collettiva in senso pieno, bensì “la vicenda dell’ affidamento dell’ in­carico ad altro intermediario potrebbe essere piuttosto avvicinata (e comunque con tutte le riserve connesse alla diversità di fattispecie), all’articolazione del servizio nella “promozione” ecc., e nella “gestione” di cui all’art. 1, lett. n)”

[56] Cfr. Rabitti Bedogni C., Commento sub art. 33, in AA.VV., Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, cit., p. 357 e Mongiello C., La società di gestione del risparmio (la nuova figura del “gestore unico”), cit., p. 1469.

[57] Come è stato efficacemente sottolineato, Mongiello C., La società di gestio­ne del risparmio (la nuova figura del “gestore unico” ), cit., p. 1468, nota n. 30, se “nel vigore della previgente legislazione, a seconda della struttura del fondo si definivano i tipi di investimento effettuabili ed i limiti ad essi connessi, con l’emanazione del TUF, è invece a seconda dell’oggetto dell’investimento e quindi del comparto in cui il fondo si specializza, che si definiscono i casi in cui lo stesso debba assumere una particolare struttura”.

[58] La Banca d’Italia non ha ancora provveduto ad individuare le attività connesse e strumentali consentite alle Sicav, profilo questo già restrittivamente regolato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 84 del 1992, contrariamente a quanto fatto per le Sgr (cfr. provv. del 1.07.1998, cap. II, in G.U. n. 160 del 11.07.1998).

[59] Sul punto Costi, Il mercato mobiliare, in AA.VV., Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore, 1997, Torino, p. 806 e ss.

[60]Cfr. per tutti, Costi, op. ult. cit., p. 787.

[61] Con la necessità di dover seguire il procedimento autorizzativo di cui all’art. 34 T.U.

[62] Cfr. art. 18, comma 2 e art. 33 comma 2 del T.U. Ciò ovviamente non esclude che qualora una società di gestione del risparmio che svolge solo attività promozionale ed amministrativa intenda dedi­carsi alle gestioni individuali (e non anche a quelle collettive) debba comunque dimostrare all’autorità di vigilanza in sede autorizzatoria il possesso di compe­tenze tecniche e risorse adeguate per l’attività gestoria.

[63] Per i rilievi critici a tale previsione sono contenuti nel provv. del 20.09.1999 (in G.U. n. 230 del 30.09.1999). Dubbio poi resta anche se le società di gestione del risparmio di tipo speculativo possano o meno ricevere deleghe di gestione relative a patrimoni (che non siano di loro istituzione) diversi dai fondi speculativi.

[64] Vedi sempre il provv. della Banca d’Italia del 20 settembre 1999, secondo il quale le società di gestione del risparmio possono assumere parteci­pazioni nel settore bancario, finanziario e assicurativo, nonché quelle di natura strumentale, mentre resta esclusa la possibilità di acquisire interessenze in socie­tà che operano in settori non finanziari.

[65] Si tratta, in linea di massima, delle stesse attività considerate strumentali per le Sim, sulla base del previgente regolamento del 2 luglio 1991 (art. 4), con l’inserimento della amministrazione di immobili ad uso funzionale e l’esclusio­ne dell’ attività di formazione e addestramento del personale.

[66] Nello stesso senso Tonelli A., Le società di gestione del risparmio, cit., p. 18, il quale estende le sue perplessità anche alla prestazione di servizi accessori connessi all’emissione e al collocamento di strumenti finanziari, non considerando tuttavia che le società di gestione del risparmio possono offrire fuori sede (e quindi collocare) quote e azioni di OICR. In particolare, l’Autore, censura la liberalità ritenuta eccessiva ed inconsueta verso le società di gestione, stigmatizzando il rischio di un incremento “di situazioni di conflitto di interes­si del quale, in verità, non si sentiva affatto bisogno, considerato il livello, elevatissimo, già presente nell’ operatività del gestore unico”.

[67] In particolare, il testo unico conferma la separazione della disciplina dell’offerta fuori sede, intesa come modalità operativa per lo svolgimento dei servizi finanziari, da quella della sollecitazione del pubblico risparmio, attività quest’ultima che, in aderenza alle previsioni comunitarie (direttiva 93/22/CEE), ha perso la qualifica di autonomo servizio d’intermediazione mobiliare, in pre­cedenza riconosciutagli dall’art. 1, comma 1, lett. f), della legge n. 1 del 1991 (Zitiello C., Decreto Eurosim: la disciplina degli intermediari e delle attività, in Le società, 1996, p. 1015). Del resto già in passato era stato segnalato come l’art. 1/18 ter, della legge n. 216 del 1974, nel definire il concetto di sollecitazione del pubblico risparmio facesse “uso di categorie non interamente omogenee tra loro” e, in particolare, che il riferimento a “ogni forma di collocamento porta a porta, a mezzo circolari e mezzi di comunicazione di massa in genere” inducesse a porre l’attenzione “non tanto alla nozione di collocamento, quanto alle locuzioni indicate in corsivo, le quali stanno ad indicare le tecniche e gli strumenti materiali estesamente impiegati nella sollecitazione del rispar­mio” (Ferrarini C., I modi della sollecitazione del risparmio, in Banca borsa e tit. di cred., 1991, p. 16). Il testo unico, sulla scia del decreto Eurosim, ribadisce pertanto che l’offerta fuori sede di servizi e strumenti finanziari, siano propri o di terzi, non costituisce un servizio d’investimento a sé stante, ma solamente una tecnica di distribuzione degli stessi, una modalità con la quale realizzarne il collocamento (questo sì da considerarsi servizio d’investimento), dandone una definizione unitaria e ad ampio spettro, tale da coprire ogni forma di promozione e collocamento presso il pubblico di strumenti finanziari o di servizi d’investi­mento. Sul punto, ormai pacifico, cfr. per tutti Patroni Griffi M., Il decreto Eurosim e l’offerta fuori sede di strumenti finanziari e di servizi d’investimento, in Giur. comm., 1997, p. 5 e ss.; Pagnoni, Commento sub art. 30, in AA.VV., Commen­tario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, Padova, 1998, p. 323 e ss. Sul piano interpretativo si è posto il problema se la “mera promozione” integri la fattispecie in esame ovvero se l’espressione “pro­mozione e collocamento” vada unitariamente intesa, argomentandosi convincen­temente per la prima soluzione nonché in quale rapporto si collochi la “mera promozione” di prodotti e servizi finanziari con la pubblicità finanziaria. In dottrina vi è infatti chi ritiene che la promozione e il collocamento che integrano il concetto di offerta fuori sede siano cosa ben distinta dalla mera pubblicità finanziaria: i primi si svolgono all’interno di un rapporto diretto e personale, volto a stimolare la propensione all’acquisto del singolo investitore, la seconda si caratterizza per la sua destinazione in incertam personam e per il suo carattere prevalentemente informativo (in tal senso, con riferimento ai servizi finanziari AA.VV., Il diritto del mercato finanziario alla fine degli anni ottanta, a cura di Costi, Milano, 1990, p. 297; mentre con riferimento alla disciplina bancaria TALENTINO C., Commento sub art. 116, in AA.VV., Commenta­rio al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova, 1994, p. 586). Da altri, si afferma invece la natura sollecitatoria della pubblicità, incen­trandone il dato comune nella promozionalità del messaggio, considerato che “come ormai pare acquisito, la pubblicità è diretta più a persuadere che a informare” (con riferimento alla pubblicità finanziaria così Ferrarini C., op. cit., p. 28, mentre con riferimento alla normativa bancaria Gaggero A., Commento sub art. 116, in AA.VV., Disciplina delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Capriglione, Padova, 1995, p. 390). Sul punto pare preferibile la tesi che tende a mantenere distinta l’attività promozionale rivolta alla conclusione di contratti rispetto a quella meramente pubblicitaria, se non altro poiché lo stesso testo unico nel disciplinare all’articolo 32 la promozione e il collocamento mediante tecniche di comunicazione a distanza di servizi d’investimento e strumenti fi­nanziari, espressamente ripropone la distinzione tra tali tecniche e la pubblicità.

[68] L’argumentum a contrario è di Rabitti Bedogni A., Commento sub art. 33, in AA.VV., Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di inter­mediazione finanziaria, cit., p. 355, pur se l’art. 30, comma 4, si riferisce all’of­ferta fuori sede di “servizi d’investimento” e non anche di strumenti finanziari. Tonelli C., op. ult. cit., p. 21, nota 11, ritiene invece che la norma in questione non contempli le società di gestione del risparmio (e gli intermediari finanziari ex art. 107 TUB), in quanto questi soggetti non possono essere autorizzati alla prestazione del servizio di collocamento.

[69] L’art. 31, comma 3 (poi divenuto art. 30 comma 3) del testo approvato in via preliminare il 19 dicembre 1997, prevedeva infatti che l’offerta fuori sede di strumenti finanziari potesse essere effettuata “dalle società di gestione del risparmio e dalle Sicav, limitatamente alle quote di partecipazione e alle azioni emesse da OICR propri”. La specificazione di “propri” è venuta meno in con­formità al parere reso dal Senato (relatore Polidoro) l’11 febbraio 1998, che tuttavia non enuncia le ragioni della modifica.

[70] Quella promozionale – amministrativa e quella concretamente gesto­ria.

[71] Sia poi l’uno o l’altro l’istitutore del fondo.

[72] E ciò per evidenti ragioni di tutela della clientela stessa, considerata la responsabilità solidale che assumono nei suoi confronti gestore e società promo­trice. Il ragionamento può essere esteso anche al soggetto delegato alla gestione ex art. 33, in virtù della responsabilità che a lui fa capo anche con riguardo alla clientela.

[73] Limita la sua attenzione solo a questo secondo profilo Tonelli C., op. ult. cit., p. 22 e ss. il quale, sottolinea che, il problema non si pone quando la società di gestione del risparmio si dà quale oggetto sociale la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio o quello proprio delle società promotrici, in quanto l’offerta fuori sede di quote di OICR ben può essere definita come una modalità di esecuzione dell’attività di promozione, istituzione e organizzazione del fondo comune d’investimento.

[74] In G.U. 17 luglio 1998 n. 165, suppl. ord. n. 125.

[75] In G.U. 10 marzo 2000, n. 58.

[76] Negli stessi termini anche Di Carlo – Guffanti C., Commento alla delibera 12409/2000, in Le società, n. 5/2000, p. 630. Contra però Patroni Griffi M., L’offerta fuori sede, in AA.VV., Intermediari finanziari, mercati e società quo­tate, Torino, 1999, p. 247 e ss. che non ritiene decisivo il testo dell’art. 55 del regolamento Consob, quanto piuttosto il differente tenore della norma primaria rispetto quella previgente.

[77] Sul punto si veda Rabitti Bedogni A., Commento sub art. 33, cit., p. 360. Cfr. anche art. 53 del regolamento Consob n. 11522 del l luglio 1998, cit. (come modificato dalla delibera 12409/2000).

[78] C’è invece chi ritiene che sulla base dell’art. 53 del regolamento Consob n. 11522 la delega di gestione possa essere riferita alla totalità del patrimonio dell’OICR, Bisogni A., I modelli organizzativi della SGR nella prestazione del servizio di gestione collettiva, in Le società, 1998, p. 1140; e ABI, Circolare del 28 dicembre 1998, Serie tecnica n. 144, p. 21. Ma vedi Regolamento Banca d’Italia, 2 luglio 1998, cit., cap. VII, sez. II, par. 3, secondo il quale devono essere previsti “i settori e/o i mercati in cui il delegato è chia­mato a operare”.

[79] Sul punto vedi Regolamento Banca d’Italia, 2 luglio 1998, cit., cap. VII, sez. II, par. 3.

[80] Secondo B.I., “costante” secondo Consob.

[81] In altri punti, oltre quello della tempistica del flusso informativo, la norma­tiva secondaria emanata da Banca d’Italia e Consob (Regolamento Banca d’Italia, 2 luglio 1998, cit., cap. VII, sez. II, par. 3 e art. 53 del regolamento Consob n. 11522 del l luglio 1998, cit.) non appare pienamente sovrapponibile. In particolare, le disposizioni Banca d’Italia prevedono che: la delega non deve avere carattere esclusivo, non sia necessaria una durata determinata, debbano essere disciplinate le modalità di esercizio della funzione di controllo da parte del delegante e della banca depositaria. Nella regolamentazione Consob è invece richiesto che la delega abbia durata determinata (fatta salva la rèvoca immediata) e sia formulata in modo da assicurare il rispetto delle disposizioni in materia di conflitto d’interessi con riferimento a soggetto delegante e delegato. Viene poi espressamente esclusa la necessità per il delegante di impartire periodicamente istruzioni nel caso di delega i cui atti esecutivi siano subordinati al preventivo assenso del delegante.

[82] Cfr. Soda A., Commento sub art. 33, cit., p. 281.

[83] Cfr. AA.VV., Testo unico delle disposizioni in materia di mercati finan­ziari, in Quaderni di documentazione e ricerca di Assogestioni, n. 21, cit., p. 96 e ABI, Circolare del 28 dicembre 1998, Serie tecnica n. 144, p. 10 e 11, ove si chiarisce che la linea di demarcazione tra il ruolo del delegante e quello del delegato nelle gestioni individuali attiene non già alla percentuale di portafoglio che può essere delegato (c.d. limite quantitativo della delega), bensì alle attività delegabili o meno (c.d. limite qualitativo della delega) e che la delega può essere conferita solo a soggetti autorizzati a prestare il servizio di gestione individuale, anche se esteri, purché omologhi alle nostre Sgr, se dediti al contempo alla gestione in monte.

[84] Soda, op. ult. loc. cit.

[85] Rabitti Bedogni A., op. ult. cit., p. 360.

[86] Per la riconducibilità della fatti specie prevista dall’art. 43, comma 7, ad ipotesi di articolazione organizzativa del servizio unitario di gestione e non di delega in senso stretto.

[87] Antonucci C., Le società d’investimento a capitale variabile, in AA.VV., Intermediari finanziari, mercati e società quotate, Torino, 1999, p. 107 e ss. ove anche un’attenta analisi della compatibilità dell’art. 53 del regolamento Consob con i principi di cui all’art. 43, comma 7 del T.U. L’autrice segnala anche i rischi di illegittimità dell’art. 43, comma 7, ove questo fosse interpretato nel senso di disporre una riserva a favore delle Sgr italiane per il ruolo di soggetto delegato al patrimonio delle Sicav.

[88] Cfr. Assogestioni, La disiciplina delle gestioni patrimoniali: SGR, Fondi comuni e SICAV, in Quaderni di documentazione e ricerca, n. 23, 2000, p. 275 ss.

[89] Sul punto Angelici C., Attività e organizzazione : studi di diritto delle società, Torino 2007.

 il quale sottolinea la ricaduta della riforma introdotta dal testo unico sul ruolo dell’assemblea nelle società quotate, destinata a divenire, secondo l’autore “una stanza di compensazione” nella quale si ratificano accordi tra management e grandi investitori istituzionalizzati.

[90] Sul punto Preite A., Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni , in Le privatizzazioni in Italia a cura di Marchetti, Milano 1995, p. 255 ss.

[91] Avanza dubbi in proposito Angelici C., Attività e organizzazione : studi di diritto delle società p. 222

[92] In tal senso Angelici C., Attività e organizzazione : studi di diritto delle società p. 219.

[93] Il ricorso alla minaccia di avvalersi di “strumenti di rottura” da parte degli investitori istituzionali è noto all’esperienza statunitense degli ultimi anni ed ha costituto oggetto di riflessioni in dottrina. Sul punto soprattutto Coffee J., Liquidity versus control: The istitutional invento ras corporate monitor, in Columbia Law Review 91(1991), pp. 1618 ss.; Pound J., The rise of the political model of corporate governance and corporate control, in New York University Law Review 68(1993) p. 1007. Nella dottrina italiana cfr. Enriques A., Nuova disciplina delle società quotate e attivismo degli investitori istituzionali, fatti e prospettive alla luce dell’esperienza anglosassone, in Giur. comm. 1998, I, p. 680 e ss.

[94] Studio condotto da Assogestioni, maggio 1999, a cura di M. Maugeri

[95] Costi A., Risparmio gestito e governo societario, in Giur comm,, 1998, I, p. 313 ss.

[96] Quest’ultima ipotesi pone in astratto il problema di stabilire se, e entro quali limiti si applichi alla società di gestione, la disposizione dettata dall’art. 2373 c.c. In realtà un’analisi attenta del fenomeno gestorio dimostra che al gestore di patrimoni, per la stessa natura dell’attività esercitata, non può applicarsi la norma codicistica sul conflitto (e il connesso dovere di astensione) se non nell’ipotesi limite di conflitto tra interesse dell’emittente e interesse della società di gestione del risparmio ( es. in deliberazioni concernenti negozi che vedano i due soggetti come parti correlate o contrapposte, ovvero relative ad operazioni che investano la società controllante: la SGR).

[97] Sul complesso delle attività che svolgono i predetti soggetti è previsto il controllo della Banca d’Italia e della Consob.

[98] Gualtieri P., I fondi comuni di investimento in Italia: performance, costi, visibilità e flussi di sottoscrizione e riscatto, Bologna 2006.

[99] Per strumenti finanziari derivati si intendono: a) i contratti «futures» su strumenti finanziari, su tassi di interesse, su valute, su merci e sui relativi in­dici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; b) i contratti di scambio a pronti e a termine (swaps) su tassi di inte­resse, su valute, su merci nonché su indici azionari (equity swaps), anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; c) i con­tratti a termine collegati a strumenti finanziari, a tassi d’interesse, a valute, a merci e ai relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il paga­mento di differenziali in contanti; d) i contratti di opzione per acquistare o ven­dere gli strumenti indicati nelle precedenti lettere e i relativi indici, nonché i con­tratti di opzione su valute, su tassi d’interesse, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; e) le combinazioni di contratti o di titoli.

[100] La Banca d’Italia, ha specificato che i fondi aperti (della specie) che in­tendano qualificarsi come «armonizzati» (rientranti cioè nel campo di applica­zione della direttiva 85/611/CEE) sono tenuti a riprodurre un indice la cui com­posizione rispetti le regole di frazionamento del portafoglio previste dalla richia­mata direttiva.

[101] Assogestioni, con la Circolare 1276 del 2 agosto 2002 ha chiarito che per i fondi armonizzati valgono le limitazioni previste dalla direttiva 85/611 CEE. In particolare l’investimento in parti di altri OICR aperti armonizzati è consen­tito entro il limite complessivo del 5% del totale delle attività del fondo acqui­rente ed entro il limite del 10% del totale delle quote o azioni dell’OICR oggetto d’acquisto. Quanto all’investimento del patrimonio di un fondo armonizzato in parti di OICR chiusi, tale investimento è consentito a condizione che le parti dell’OICR di tipo chiuso siano quotate e che la composizione del portafoglio dell’OICR chiuso acquistato, quale risulta dalle previsioni regolamentari, sia compatibile con la politica d’investimento del fondo acquirente. Agli investimenti in questione si applica il limite di concentrazione del 5% del totale delle attività del fondo acquirente. Per quanto attiene all’investimento del patrimonio di un fondo aperto armonizzato in parti di OICR non armonizzati non quotati, questa Associazione, anche in considerazione del futuro recepimento della direttiva 2001/108/CE, intende sottoporre all’Autorità di vigilanza uno specifico quesito sul punto, stante l’impossibilità di risolvere la questione per le vie brevi. Com’è noto la direttiva 85/611/CE consente l’acquisto di parti di altri OICR di tipo aperto entro il limite complessivo del 5% del totale delle attività del fondo acquirente ed entro il limite del 10% del totale delle quote o azioni dell’OICR oggetto d’acquisto. Con la direttiva 2001/108/CE che modifica la direttiva 85/611/CE (di seguito: la Direttiva) gli OICR armonizzati potranno invece investire le loro attività in parti di altri OICR armonizzati e/o in parti di altri organismi di investimento collettivo di tipo aperto che investono anch’essi in attività finanziarie liquide e che operano in base al principio della ripartizione dei rischi (di seguito: OICR aperti non armonizzati), fino al 100% del totale delle attività del fondo acquirente, ma alle seguenti condizioni: – gli OICR aperti non armonizzati oggetto di investimento siano autorizzati in base ad una legislazione che ne preveda la soggezione a regole di vigilanza considerate dalle autorità competenti per il fondo armonizzato acquirente equivalenti a quelle stabilite dalla legislazione comunitaria. Deve inoltre risultare sufficientemente garantita la cooperazione tra le autorità; – il livello di protezione garantito ai sottoscrittori di quote di OICR aperti non armonizzati sia equivalente a quello previsto per i sottoscrittori di quote di un OICR armonizzato e in particolare le norme concernenti la segregazione degli attivi, i prestiti, concessi e assunti, e le vendite allo scoperto di valori mobiliari e di strumenti del mercato mobiliare siano soggetti a regole equivalenti a quelle previste dalla direttiva 85/611/CE; – l’operatività degli OICR aperti non armonizzati sia oggetto di relazioni semestrali e annuali che consentano una valutazione delle attività e delle passività, del reddito e delle operazioni compiute nel periodo di riferimento; – i regolamenti (o gli statuti) degli OICR aperti non armonizzati oggetto di potenziale acquisto devono prevedere che non oltre il 10% delle attività degli stessi OICR sia investito in quote di altri OICR armonizzati o di altri OICR aperti non armonizzati. – l’investimento complessivo in uno stesso OICR (armonizzato o aperto non armonizzato) non superi il 20% delle attività del fondo acquirente; – l’investimento in OICR aperti non armonizzati non superi il 30% delle attività del fondo acquirente. Il recepimento in Italia delle modifiche apportate alla Direttiva renderà quindi possibile con la figura del fondo armonizzato ciò che attualmente è consentito in Italia con il fondo aperto non armonizzato. Tuttavia, rispetto alla disciplina nazionale diverse sono le condizioni e i limiti d’investimento in parti di OICR aperti non armonizzati. Ed infatti, rispetto alla disciplina nazionale, la considerazione autonoma dell’investimento in parti di OICR aperti non armonizzati (a prescindere dalla quotazione o meno dell’OICR), consente, da un lato, l’ampliamento delle possibilità d’investimento in parti di OICR aperti non armonizzati non quotati, essendo tale investimento ammissibile entro il limite complessivo del 30% del totale delle attività del fondo acquirente ed il limite di concentrazione del 10% (e non già del 10% e del 5% come per la disciplina italiana); dall’altro comporta la limitazione dell’inves­timento complessivo in parti di OICR aperti non armonizzati quotati, essendo l’investimento possibile solo entro il limite complessivo del 30%, sebbene entro un limite di concentrazione più elevato del 20%.

[102] I warrant e i diritti di opzione connessi ad operazioni sul capitale delle società emittenti non sono considerati strumenti finanziari derivati. Tuttavia, il loro valore va a incrementare la posizione nel titolo cui danno diritto. Peraltro, si segnala che ai sensi dell’articolo 28 (Informazioni tra gli intermediari e gli inve­stitori), comma 3 del vigente Regolamento CONSOB n. 11522/1998: «Gli inter­mediari autorizzati informano prontamente e per iscritto l’investitore appena le operazioni in strumenti derivati e in warrant da lui disposte per finalità diverse da quelle di copertura abbiano generato una perdita, effettiva o potenziale, pari o superiore al 50% del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni. Il valore di riferimento di tali mezzi si rideter­mina in occasione della comunicazione all’investitore della perdita, nonché in caso di versamenti o prelievi. Il nuovo valore di riferimento è prontamente comu­nicato all’investitore. In caso di versamenti o prelievi è comunque comunicato all’investitore il risultato fino ad allora conseguito.

[103] Con Circolare n. 2524/99/C del 4 ottobre 1999, Assogestioni ha speci­ficato che la nuova disciplina afferma tre principi che costituiscono il riferimento principale per la valutazione di ammissibilità di ogni operazione in strumenti de­rivati o in titoli strutturati. Il rispetto operativo dei limiti di impegno deve essere integrato, comunque, da una più ampia e approfondita analisi della correttezza delle operazioni poste in essere. Il paragrafo 4.1 del nuovo Regolamento stabili­sce che: l) l’utilizzo di strumenti derivati è consentito a condizione che il regola­mento del fondo ne definisca i criteri di utilizzo e le finalità perseguite; 2) l’uti­lizzo di strumenti derivati non può in alcun caso alterare il profilo di rischio in­dicato tra gli obiettivi del fondo espressi nel regolamento; 3) l’utilizzo di strumenti derivati non può configurarsi come vendita allo scoperto. Le finalità e i cri­teri di utilizzo degli strumenti derivati che devono essere definiti nel regolamento del fondo si possono riferire ad almeno tre tipologie fondamentali: a) la copertura dei rischi, ossia la riduzione della sensibilità del valore del portafoglio alle flut­tuazioni dei prezzi degli strumenti finanziari detenuti. L’utilizzo di strumenti de­rivati si configura come una vendita delle attività finanziarie detenute in portafo­glio e un riposizionamento sulla liquidità; b) la gestione efficiente di portafoglio, che può configurarsi ad esempio nella rapida modifica delle caratteristiche di du­ration di un portafoglio obbligazionario qualora la compravendita dei titoli so t­tostanti risulti più lenta e onerosa a causa delle condizioni di liquidità e di diffi­coltà operativa; in generale l’efficient portfolio management si configura come una modifica del profilo di rischio che non ha l’obiettivo di ridurre la volatilità del valore di portafoglio, bensì quello di adeguarla ai cambiamenti repentini delle condizioni di mercato e che quindi è propedeutica al più graduale riposiziona­mento del portafoglio titoli. In quest’ambito si può ulteriormente precisare che, in ordine all’impiego di varie tipologie di contratti “swap”, i flussi debitori devono essere coperti da attività finanziarie detenute in portafoglio mentre i flussi creditori devono essere congruenti con le politiche di investimento del fondo; c) la gestione speculativa, ossia l’applicazione di un moderato grado di leva finanziaria (che come si argomenterà più avanti trova una delimitazione ben precisa nell’ambito del calcolo degli impegni ed è pari allo 0.10 puntuale). La finalità più propriamente speculativa si riferisce sostanzialmente alla possibi­lità di aumentare la volatilità attesa del portafoglio, al fine di ottenere un extra rendimento su quelle attività che appaiano palesemente sottovalutate.

[104] Il limite massimo agli impegni assunti attraverso l’utilizzo di strumenti derivati è pari al valore del patrimonio netto del fondo. Il limite si configura come un divieto incondizionato di superamento e l’utilizzo di strumenti finanziari non può in nessun caso determinare impegni eccedenti il patrimonio netto. Al di­vieto generale segue la determinazione di un secondo limite agli impegni, pari al 10% del patrimonio netto del fondo, il cui superamento non è vietato in via ge­nerale, bensì è condizionato alla disponibilità nel portafoglio del fondo per l’am­montare di impegno eccedente il limite stesso di: I) titoli o altre attività che il fondo si è impegnato a consegnare o che sono atti a generare i flussi di cassa de­bitori degli strumenti derivati; 2) disponibilità liquide o titoli di sicura e rapida liquidabilità il cui valore corrente sia almeno pari a quello degli impegni assunti in eccedenza. AI fine di comprendere la logica che sottende la duplice determina­zione dei limiti agli impegni, è importante approfondire il concetto di leva finan­ziaria e introdurre una distinzione presente anche in regolamentazioni di altri paesi e nella Direttiva 85/611. Il divieto generale di assumere impegni eccedenti il patrimonio netto del fondo si configura come un divieto a levereggiare “econo­micamente” il fondo, ossia a creare una potenziale posizione di indebitamento e quindi una potenziale situazione di insolvenza. La condizione applicabile agli im­pegni eccedenti il 10% del fondo si configura invece come un limite alla possibi­lità di levereggiare “finanziariamente” il fondo, ossia a generare un profilo di ri­schio che moltiplica la volatilità tipica del portafoglio di investimento. A titolo esemplificativo si può affermare che la leva economica ha luogo qualora un por­tafoglio includa anche una componente debitori a fronte della quale si procede ad investimenti in titoli volatili. Se il valore della componente attiva scende, la componente di indebitamento che grava il fondo potrebbe non essere onorata. Viceversa una leva puramente finanziaria è realizzabile per mezzo dell’acquisto di un’opzione «call» su un titolo quotato per l’intero ammontare del patrimonio netto del portafoglio. Infatti l’acquisto di una opzione “call” non può mai com­portare l’insolvenza del fondo (il fondo avendo acquisito un diritto), ma la vola­tilità del valore del fondo risulterebbe necessariamente pari ad un multiplo dell’e­quivalente volatilità di un investimento diretto delle disponibilità del fondo nel titolo sottostante all’ opzione. I due limiti agli impegni determinano dunque rispettivamente il limite alla leva economica e alla leva finanziaria che il fondo può porre in essere. Infatti il primo limite incondizionato vieta ogni forma di indebitamento “implicito” mentre il secondo limite condizionato determina la leva finanziaria massima (pari a 1.1 del valore nominale del fondo, senza riguardo alla composizione del portafoglio), disponendo che a fronte di impegni eccedenti il 10% si debbano detenere attività a rischio nullo (nella definizione del Regolamento, in attività “di rapida e di sicura liquidabilità”, ossia strumenti del mercato monetario o obbligazionario a breve termine il cui value-at-risk è quasi nullo).

[105] Il Regolamento del 20 settembre 1999, precisa che gli strumenti deri­vati e le componenti derivate dei titoli strutturati si riflettono sulla posizione complessiva per singolo emittente sulla base del valore del fattore delta se si tratta di opzioni o sulla base del peso nell’indice azionario di riferimento se si tratta di future o contratti di “swap”, Viceversa il peso delle singole componenti per singolo emittente degli indici obbligazionari non devono essere ricondotte al calcolo dei limiti di concentrazione dei rischi. La ratio della norma va ricercata nelle modalità di costruzione e revisione degli indici, che consentono una identi­ficazione agevole del peso dei singoli emittenti per i portafogli azionari mentre si richiederebbe una analisi gravosa qualora la posizione per singolo emittente do­vesse essere calcolata anche per i portafogli obbligazionari.

[106] Ai sensi del D. Lgs. 58/98, articolo 1 lettera k), il fondo aperto è “il fondo comune di investimen­to i cui partecipanti hanno diritto di chiedere, in qualsiasi tempo, il rimborso delle quote secondo le modalità previste dalle regole di funzionamento del fondo”.

[107] Per ulteriori approfondimenti cfr. Colavolpe, A., Il capitale minimo delle sgr dedicate ai fondi mo­biliari chiusi di venture capital, Società, 2002.

[108] La nuova disciplina ammette un’ideale scissione delle tre attività tipiche di gestione del risparmio, vale a dire la promozione, l’istituzione e l’organizzazione, stabilendo implicitamente l’esistenza di SGR promotrici, SGR di gestione e SGR integrate; queste ultime promuovono, istituiscono e gesti­scono contemporaneamente uno o più fondi. Cfr. Sgranga P., I fondi azionari chiusi in Italia tra opportunità e ostacoli allo sviluppo, in Quaderni Monografici Rirea, 2003, n. 15.

[109] Denominata banca depositaria.

[110] Il regolamento della Banca d’Italia del 20/9/99 dispone che, ferme restando le valutazioni di ca­rattere generale riguardanti la situazione tecnica della banca che intende svolgere la funzione di de­positaria, l’assunzione dell’incarico è subordinato al possesso dei requisiti di seguito indicati. Deve essere: al una banca italiana; una banca con sede in altro Stato membro dell’Unione Europea, avente una succursale in I­talia. In tal caso le funzioni di banca depositaria devono essere esercitate direttamente dalla succursale italiana; l’ammontare del patrimonio di vigilanza non deve essere inferiore a 100 milioni di euro; la banca deve avere maturato una esperienza adeguata all’incarico da assumere; l’assetto organizzativo deve essere idoneo a garantire l’efficiente e corretto adempimento dei compiti ad essa affidati.

[111] Il regolamento Banca d’Italia del 20/9/99 ricorda che l’art. 36, comma 4 del TUF prescrive alla banca depositaria, alla SGR promotrice ed alla SGR gestore (se diversi) l’obbligo di agire, nell’eser­cizio delle rispettive funzioni, in modo indipendente e nell’interesse dei partecipanti. Tenuto conto della delicatezza delle funzioni svolte dalla banca depositaria, si richiama l’attenzione sulla necessità che l’operato della stessa sia costantemente informato a tali principi. In tale quadro, l’incarico di depositaria non può essere conferito qualora il presidente del CdA, l’amministratore delegato, il direttore generale o i membri del comitato di gestione della SGR o della SICAV svolgano anche una delle seguenti funzioni presso la banca che intende assumere l’incarico: presidente del CdA, amministratore delegato, direttore generale; dirigente responsabile delle strutture organizzative della banca che svolge funzioni di banca depositaria.

[112] Ai sensi del D. Lgs. 58/98, articolo 1 lettera n), la gestione collettiva del risparmio è il servizio che si realizza attraverso: la promozione, istituzione e organizzazione di fondi comuni d’investimento e l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti; la gestione del patrimonio di OICR, di propria o altrui istituzione, mediante l’investimento avente ad oggetto strumenti finanziari, crediti, o altri beni mobili o immobili.

[113] Ai sensi del D. Lgs. 58/98, articolo 1 lettera i), la Sicav è “la società per azioni a capitale variabi­le con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni”.

[114] La Commissione Nazionale per la società e la Borsa (Consob) è un ente pubblico, istituito con legge n. 216/74, che ha il compito di esercitare il controllo sulle borse valori e sulle società aventi titoli quotati e di vigilare sulle informazioni divulgate da tutti coloro che si accingono a sollecitare il pubblico dei risparmiatori.

[115] Per una trattazione delle operazioni di LBO si rinvia Forestieri G., Corporate e investiment banking, Milano, 2007.

[116] A titolo d’esempio, rientrano in questa casistica gli investimenti effettuati da Permira & Associati nei settori della logistica, dei prodotti da bar e quelli relativi al settore dell’odontoiatria.

[117] Ancora Permira & Associati nel settore della cantieristica da diporto. Si tenga a mente che in questi casi l’operazione di investimento si configura come MBO (Management Buy-Our).

[118] A titolo d’esempio si segnalano gli oltre 130 investimenti sostenuti in circa vent’anni di attività da parte di Sofipa (oggi Capitalia Sofipa SGR).

[119] A questo proposito è stata significativa l’esperienza di assunzione di partecipazioni in medie imprese, volta all’uscita attraverso il collocamento dei titoli sul mercato nell’arco temporale di due – tre anni, svolta dalla divisione Banca d’affari della Banca Commerciale Italiana durante la seconda metà degli anni Novanta.

[120] I fondi specializzati negli interventi di ristrutturazione sono quasi tutti di area anglosassone, soprattutto negli Stati Uniti (per esempio, la divisione Resfrucruring & Turn around di Wachoria Corp.). Negli anni Novanta in Italia è da segnalare l’esperienza che la Comit ha avuto insieme a Bain, Cuneo & Associati e altri operatori per la costituzione di un fondo chiuso con questa specializzazione, che è stato attivo per bre­ve tempo.

[121] L’operazione classica prevede l’apporto di capitale nella sola forma di rischio (equit finance); nella realtà, molte operazioni vengono costruite su un apporto congiunto di equity e di debito, facendole asso­migliare, da un punto di vista tecnico, a operazioni di LBO.

[122] È questo un elemento peculiare che distingue questa tipologia di operazione da quella di MBO/MBI.

[123] Orientativamente, a partire da 50 milioni di euro di fatturato annuo per un’azienda industriale.

[124] Per l’investitore finanziario questo è un primo passaggio fondamentale nella gestione della proposta di investimento, perché attraverso esso si decide se spendere o meno i soldi necessari per i successivi appro­fondimenti sulla target (per esempio, lo svolgimento della due diligence).

[125] Un esempio di patto parasociale è dato dalla rappresentanza che è riservata al socio di minoranza nel consiglio di amministrazione dell’azienda partecipata.

[126] Solitamente i crediti verso clienti il magazzino e le banche a breve.

[127] Ovviamente la convenienza al ricorso all’IPO sul mercato azionario è influenzata dalla congiuntura dei prezzi delle azioni che è presente al momento della dismissione.

[128] Prezzo di cessione della partecipazione, condi­visione degli obiettivi aziendali di sviluppo, regolamento dei rapporti tra gli azionisti, costruzione della struttura finanziaria dell’operazione.

[129] Cosiddetto closing dell’operazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *