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LA CORPORATE SOCIAL RESPONSABILITY

SEZIONE I: AMBITO DI APPLICAZIONE ED ELEMENTI DELLA CSR

  1. L’origine della responsabilità sociale di impresa e la sua diffusione nel mercato globale: un approccio multidisciplinare

“E’ necessario che le aziende si interessino degli impatti sociali delle proprie azioni”, affermava Davis nel 1976[1]. Assunto il capitalismo una forma matura e consolidatosi il sistema delle grandi imprese, all’inizio del secolo scorso cominciavano ad affiorare i primi dubbi ed interrogativi in ordine ai riflessi delle attività d’impresa sulla realtà sociale. La questione verteva in un primo momento sulla necessità o doverosità che l’impresa stessa ponesse tra i propri obiettivi pure quello di non incidere negativamente sulla realtà sociale.

La problematica, considerate le innegabili conseguenze che involgono l’attività imprenditoriale, emergeva non solo in relazione ad un profilo economico, ma anche in ambito sociale ed ambientale.

Stante il valore riconosciuto all’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), non solo per il singolo, ma per l’economia in genere, nonché per l’occupazione, il punto era se la stessa impresa dovesse prendersi carico anche delle conseguenze “esterne” del proprio agire, conseguenza appunto che erano non solo economiche, ma anche ambientali e sociali.

A questo primo approccio, che potremmo definire di carattere “negativo”, ossia volto ad assicurare che l’impresa evitasse di danneggiare la realtà sociale, si susseguiva in ambito dottrinale un più maturo indirizzo. Secondo quanto sostenuto da Frederick[2] infatti le imprese di mercato avrebbero avuto non solo l’obbligo di evitare impatti sociali negativi, ma addirittura il dovere di impegnarsi per il miglioramento della vita sociale.

In maniera in qualche modo analoga con quanto accaduto nel passaggio da Stato di polizia a Stato di diritto[3], il ruolo dell’impresa transitava da una concezione meramente negativa, di controllo e prevenzione, ad una positiva, di promozione e di sviluppo.

Premesso che l’impostazione adottata da Frederick, fin troppo estremista nel ruolo sociale demandato all’impresa, ha lasciato spazio oggi a più moderne interpretazioni, giova comunque sottolineare che proprio da questi primi passi trae origine il concetto di corporate social rsponsability, o responsabilità sociale d’impresa.

La stessa terminologia è definitoria. Da un lato il concetto di responsabilità richiama in linea generale la necessità di una congruenza ad un impegno assunto ad un comportamento,  che sottende per definizione l’accettazione di ogni conseguenza sanzionatoria[4], che sia di ordine morale o giuridico. In questo senso l’impresa si ritrova, come si vedrà, soggetta, ad una responsabilità non solo di tipo economico, in quanto l’impresa è ovviamente sottoposta alle regole del mercato e della produzione, ma anche di tipo legale, e, soprattutto, etico. D’altra parte il rinvio, contenuto nella stessa definizione, ad un parametro sociale, fa necessariamente riferimento a classi sociali operanti non solo all’interno, ma anche all’esterno del contesto produttivo. In questo senso lo sguardo cade su tutti quei soggetti che appaiono (almeno ad un primo sguardo), estranei rispetto ai processi decisionali economici, si pensi ai consumatori

Si tratteranno approfonditamente (sez. II, par. V) i profili attinenti alle correlazioni tra diritto, etica ed economia, che, come è di pronta intuizione, inevitabilmente nascono in relazione al riconoscimento di una responsabilità sociale dell’impresa. Tuttavia, giova sottolineare, pure in sede introduttiva, in merito alla correlazione tra economia ed etica, come le recenti teorie economiche non si mostrino più rigidamente astratte alla nozione di un comportamento umano mosso esclusivamente dall’interesse personale. Proprio da questa rivoluzionaria prospettiva nasce la proposta di una maggiore attenzione, anche dal punto di vista del sapere economico, a considerazioni di natura etica.

Tale evoluzione del resto non procede disgiunta da una certa tendenza, riscontrabile nel diritto, volta ad evidenziare la funzione solidaristica del diritto stesso (art. 2 Cost.), riconoscendo pure alla situazione giuridica del singolo una funzione sociale (tanto da coinvolgere addirittura il diritto privato per eccellenza, il diritto di proprietà[5]). Il diritto non è attribuito in esclusiva funzione del singolo, per cui non solo non va utilizzato a esclusivo detrimento del terzo (art. 833 Cost., ma anche artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.), ma deve anzi essere goduto entro limiti che siano compatibili con i doveri di solidarietà sociale gravanti su ciascuno.

Al proposito merita una riflessione la predetta distinzione tra concezione “negativa” e concezione “positiva” della responsabilità. Il nostro Costituente, con lungimiranza, prevedeva che l’iniziativa economica privata non potesse “svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 Cost.). Non sfugge pertanto la necessità di un contemperamento ed un bilanciamento tra più interessi in gioco (ed è questo forse il ruolo proprio del diritto, l’individuazione ed il bilanciamento di istanze necessariamente infliggenti all’intero della collettività?), e tuttavia all’iniziativa privata è solo imposto un limite, non un dovere positivo. Anche la legislazione speciale inizialmente sposa questa concezione, arretrata su terreni di difesa più che di sviluppo, si pensi alla disciplina dettata dal Codice Civile per la concorrenza sleale (art. 2958 c.c.), che fa riferimento a determinati atti e comportamenti, vietati in quanto considerati sleali, ma non all’attività complessivamente intesa, con riferimento parametri qualitativi. Attenta dottrina[6] rileva un’inversione di tendenza nel nuovo art. 39 del Codice del Consumo, il quale, prevedendo che “le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori”, focalizza finalmente l’attenzione sulla qualità dell’impresa, considerandola come un presupposto rispetto al contenuto ed al regolamento dei rapporti giuridici che nell’ambito dell’attività vengono posti in essere[7].

La stessa attività produttiva (art. 41 Cost.), è vincolata dunque su più fronti: quello, naturale, delle regole del mercato, per cui la mancata osservanza di tali norme comporterebbe l’autoesclusione dell’impresa dallo stesso[8], ma anche quello legale, del rispetto delle norme, le quali già impongono un contemperamento delle esigenze della produzione con quelle della collettività (si pensi, a titolo puramente esemplificativo, a quanto disposto dall’art. 844 c.c.[9]), ed infine –ed è, come si vedrà, il livello specificamente regolato dalla RSI-, sul fronte etico, per cui , si dice, non basta evitare danni alla realtà sociale, ma la responsabilità assume una funzione di promozione e sviluppo.

In questa prospettiva, come evidenziato nel modello teorico proposto da Carroll[10] (1991), la responsabilità sociale dell’impresa viene ad assumere una natura multidimensionale, convivendo con una responsabilità di tipo economico, anche una legale, etica, e finanche discrezionale, qualora sia l’impresa stessa ad assumersi volontariamente l’impegno di contribuire al miglioramento della vita sociale[11].

Peraltro, la questione della responsabilità sociale d’impresa, oltre ad avere natura multidimensionale, ha anche carattere multidisciplinare. Infatti, come si è detto, inevitabilemente l’attività d’impresa va ad incidere non solo sulla realtà economica, ma anche su quella ambientale e sociale, involgendo pertanto rami regolati da distinte ed autonome discipline, nonché coperti da diversi campi del sapere. Comportamenti socialmente responsabili dovrebbero indurre l’impresa –anche al di là di quanto imposto da specifiche disposizioni legislative- non solo ad assicurare il rispetto delle regole del mercato (si pensi alla trasparenza dei dati o alle regole previste per gli insider trading), ma anche a ridurre e contenere l’impatto ambientale che le proprie attività produttive possono avere, a garantire il rispetto dei diritti umani, ad evitare il ricorso allo sfruttamento minorile anche nei Paesi in cui il ricorso a tale forma di manodopera sia consentito, a riporre una particolare cura nella gestione delle risorse umane (in termine ad esempio di percorsi di formazione o di gestione degli esuberi) e un’estrema attenzione nella qualità e sicurezza dei prodotti e dei servizi[12].

Infine bisogna considerare, sempre come premessa di carattere introduttivo, che la problematica della RSI, pur avendo, come si è visto, origini risalenti, trova oggi un elemento di accentuazione nell’affermarsi di un mercato globale[13]. E’ inevitabile infatti che in un contesto globalizzato gli effetti di ogni singola attività economica vengano ad assumere una portata di sempre maggiore diffusività, a livello non solo territoriale ma anche numerico. In questo senso lo spazio globale offre ai soggetti protagonisti del mercato, le imprese, nuove e considerevoli opportunità, ma impone loro di assumersi anche maggiori, non differibili, responsabilità.

A ciò si aggiunga inoltre che a questa diffusività sul versante economico, derivante dalla “globalizzazione” dei mercati, non è correlata un altrettanto estesa vigenza normativa, che sia in grado di superare i confini nazionali, e di raggiungere un livello mondiale[14]. Tale scollamento tra spazio giuridico e spazio economico, in mancanza di una autorità superiore dotata di sovranità e legittimata in senso tradizionale all’adozione di regole[15], porta alla ricerca, per una esigenza che è fondamentalmente di certezza del diritto, di nuove fonti del diritto. Tali fonti tuttavia (si pensi ad organismi intenazionali quali la FAO o l’ONU, ad organismi sovra-nazionali,  ad aggregazioni di comunità, quali ad es. i movimenti sociali consapevoli), in assenza di una autorità sovrana che le imponga, sono in sostanza il frutto di una autoregolamentazione, riportando in primo piano la questione dell’interferenza tra etica e diritto.

  1. Una nuova strategia nella gestione di impresa: la definizione del Libro Verde

Accanto ad una evoluzione del concetto di RSI sviluppatasi in ambito teorico, si riscontrano fan dal principio svariati tentativi di dare concreta attuazione a tale impostazione. L’elaborazione teorica comincia a trovare un riscontro pratico.

Inizialmente il fenomeno si sviluppa in una dimensione, per citare Carrol, meramente discrezionale. Si tratta del c.d. mecenatismo d’impresa, ossia di quelle liberalità compiute in veste di filantropia aziendale, non supportate da una predeterminata linea direttrice, e utilizzate saltuariamente come operazioni d’immagine.

Siamo del resto in un periodo in cui l’etica del profitto, secondo molte condivise teorizzazioni[16], giustificherebbe una interpretazione “economica” del diritto stesso, per cui “se in base alle previsioni d’impresa la contropartita dell’attività (vietata) sottoposta a sanzione supera il disvalore sociale, allora il benessere sociale complessivo sarà incrementato qualora l’impresa violi la legge”.

A questa visione, piuttosto primordiale, ben presto si venne obiettando che il benessere sociale, pur effettivamente derivante dall’attività d’impresa (in termini di produzione e d’occupazione), avrebbe dovuto fare i conti, in un’economia così concepita, con i costi che sono necessari per far rispettare le norme in un contesto in cui i soggetti le considerino solo in termini di disvalore economico prodotto dalla loro violazione. A dire che non si possono trascurare i costi sociali necessari per il controllo e la sanzione degli illeciti, costi che verrebbero meno se i soggetti giuridici dessero spontanea applicazione alle norme giuridiche. A ciò si aggiungeva la considerazione che la norma non va considerata unicamente come un incentivo comportamentale, ma un valore in sé, un obiettivo sociale cui a sua volta è correlato il livello di benessere della società.[17]

In questa prospettiva il rispetto della RSI veniva individuato nel rispetto della norma giuridica, nel senso che, nel momento in cui i dirigenti d’impresa avessero violato una disposizione di legge, essi avrebbero espresso una mancanza di responsabilità sociale.

Oggi l’impostazione prevalente collega la CSR non tanto al rispetto di norme imposte dall’ordinamento, quanto ad una autoregolamentazione che l’impresa stessa si impone. Si considera al proposito che la RSI cominci proprio dove finisce la legge, per cui “un’impresa non può essere considerata socialmente responsabile se si attiene solo al minimo previsto dalla normativa”[18].

In questo senso si spiega il ruolo assunto, pur senza qualche perplessità[19], dall’etica in questa tematica. Si spiegano, ancora, i numerosi atti di autonomia privata, non solo individuale ma anche collettiva, con cui i soggetti si vincolano, in assenza di un’autorità (si potrebbe dire per territorio, oltre che per materia, considerato quanto si diceva a proposito della globalizzazione) sovrana che le imponga.

Basti qui ricordare che la CSR è stata posta a fondamento di numerosi codici etici (cui verrà dedicata la prima parte del capitolo III del presente studio) e che anche molte organizzazioni internazionali non governative (si pensi ad Amnesty International e a Pax Christi International) e istituzioni internazionali rappresentanti governi nazionali (OCSE, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale) hanno suggerito l’adozione e il rispetto di best practices[20].

Di spiccato rilievo le iniziative adottate dall’ILO (International Labour Organization) per la promozione della giustizia sociale ed il riconoscimento universale dei diritti umani nel lavoro[21].

Si pensi ancora al progetto Global Impact, divenuto operativo sotto l’egida delle Nazioni Unite nel luglio 2000. Esso persegue l’obiettivo di coinvolgere non solo le imprese, ma anche i responsabili economici dei vari Stati, le agenzie delle Nazioni Unite, nonché le svariate organizzazioni sindacali e della società civile in una nuova forma di cooperazione, attraverso l’adesione a specifici principi universali e l’assunzione, da parte degli aderenti, di specifici impegni nel campo dei diritti umani, della tutela del lavoro e dell’ambiente.

Anche questo progetto si basa su un’adesione volontaria. L’impegno assunto dalle imprese nasce da una sorta di autoregolamentazione: le imprese, aderendo al progetto, assumono i principi dettati dalle Nazioni Unite come parte integrante della propria strategia e delle proprie iniziative imprenditoriali, impegnandosi anche a collaborare con gli altri soggetti interessati al progetto[22].

Del resto la natura volontaria della RSI è confermata a piena voce anche dalle disposizioni contenute nel Libro Verde, presentato dalla Commissione delle Comunità Europee nel luglio 2001. Tale documento, di estrema rilevanza nell’ambito europeo[23], titolato “promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale d’impresa”, definisce la RSI quale “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”[24].

Specifica al proposito che le prassi socialmente responsabili non si risolvono nell’adempimento degli obblighi giuridici, ma richiedono un “andare  al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e negli altri rapporti con le parti interessate. L’esperienza acquisita con gli investimenti in tecnologie e prassi commerciali ecologicamente responsabili suggerisce che , andando oltre gli obblighi previsti dalla legislazione, le imprese potevano aumentare la propria competitività. L’applicazione di norme sociali che superano gli obblighi giuridici fondamentali, ad esempio nel settore della formazione, delle condizioni di lavoro o dei rapporti tra la direzione ed il personale, può avere dal canto suo un impatto diretto sulla produttività. Si apre in tal modo una strada che consente di gestire e di conciliare lo sviluppo sociale e una maggiore competitività”[25].

E’ evidente dunque l’adesione alle attuali visione della RSI quale responsabilità che trascende e va oltre quella legale. Normalmente il costituirsi di una CSR presuppone un fondamento legislativo, derivante dalle normative settoriali di ciascuno Stato, e tuttavia essa va oltre, inoltrandosi in territori che, come si è detto, sono ancora riservati all’etica.

Sulla effettiva cogenza, e sui meccanismi sanzionatori deputati ad assicurare cogenza alle regole etiche[26], si discorrerà nel prosieguo della trattazione, tuttavia resta da chiedersi quale sia il ruolo che la Comunità europea, e lo Stato membro per essa, assumono, in adozione del Libro Verde,  nello sviluppo della RSI. Posto che non sono questi, come si è detto, ad imporre regole etiche, quale ruolo è loro deputato?

Una risposta in questo senso è facilmente rinvenibile nella Comunicazione della Commissione relativa alla RSI. Tale documento, individuati quali sono gli ostacoli che si frappongono ad un maggiore sviluppo della CSR[27], individua quale ruolo precipuo dell’UE quello di incoraggiare, seppur dall’esterno, lo sviluppo della RSI. Tale funzione è resa necessaria secondo la Commissione, non solo perchè essa costituisce anche di per sé stessa un sostegno allo sviluppo delle politiche proprie dell’UE, ma anche per evitare la proliferazione di strumenti diversi, volti allo stesso fine, ma meno idonei a raggiungere lo scopo (norme di gestione, programmi di etichettatura e di certificazione, elaborazione di relazione, ecc.) che finirebbero col confondere i soggetti del mercato, e col generare la distorsione dello stesso.

I compiti destinati all’UE, e agli Stati membri per essa, al fine del perseguimento della predetta strategia, vengono pertanto individuati dalla Commissione nel:

  1. fornire maggiori informazioni riguardo agli effetti positivi della responsabilità sociale sulle imprese e sulle società, in Europa e nel mondo intero, in particolare nell’ambito dei paesi in via di sviluppo;
  2. rafforzare lo scambio di esperienze e buone pratiche sulla responsabilità sciale tra le imprese;
  3. promuovere lo sviluppo di capacità e di gestione della RSI;
  4. incoraggiare la responsabilità sociale tra le PMI;
  5. facilitare la convergenza e la trasparenza delle pratiche e degli strumenti della RSI;
  6. organizzare un “UE Multi-Stakeholder Forum on CSR”, un foro sulla RSI a livello comunitario, destinato a tutte le parti interessate;
  7. integrare la RSI nelle politiche comunitarie.

In sostanza le istituzioni, a livello comunitario e nazionale, assumono un ruolo meramente ausiliario, di incoraggiamento, mentre la decisione se impegnarsi in senso sociale, spetta ancora, autonomamente, all’impresa.

Certo che, come sarà apparso evidente dai numerosi riferimenti fatti alla crescita economica ed alla competitività anche nei documenti in esame, è l’impresa stessa che finisce con il ritenere utile, più che eticamente doveroso, sottoporsi a tale tipo di obblighi. E’ cambiata radicalmente la prospettiva rispetto ai primi approcci alla RSI. Mentre inizialmente l’azione filantropica veniva considerata pur sempre un costo per l’impresa, in tempi più recenti si è riscontrata l’incidenza positiva dell’assunzione di RSI pure sull’attività economica dell’impresa stessa.

Si analizzeranno nel prossimo paragrafo i mutamenti che hanno portato al formarsi di questa incidenza, nonché al suo essere percepita e considerata nella gestione d’impresa, basti qui considerare che oggi quest’influenza c’è, e che le imprese grandi e piccole, ne sono consapevoli.

Proprio su queste basi viene normalmente giustificato il sempre più frequente assoggettarsi alla CSR: secondo un’indagine condotta dalla Rete europea di ricerca[28], già nel 2001 il  50% delle PMI europee svolgeva attività responsabili sul piano sociale ed ambientale a vantaggio dei loro interlocutori esterni; ….

In realtà l’approccio che collega direttamente l’assunzione  di responsabilità sociale al ritorno economico di cui si avvantaggia l’impresa, non è unanimemente condiviso. Si tratta in sostanza di ripercorrere quanto affermato da Friedman[29], secondo cui “la responsabilità sociale dell’impresa è di accrescere i suoi profitti”. In questo senso l’assunzione di obblighi sociali da parte dell’impresa sarebbe giustificata, e accettabile, solo in funzione dell’apporto economico che essa porti all’impresa stessa. La RSI assumerebbe dunque un ruolo meramente strumentale all’economia dell’impresa stessa, ad un suo posizionamento efficiente nel mercato.

E’ chiaro che nel contesto in cui Friedman sviluppava la sua celebre definizione era difficile riconoscere incentivi economici all’adozione di atti di RSI. Tuttavia oggi, nell’attuale contesto culturale, data l’emersione della nuova figura del “consumatore responsabile”, è possibile che azioni che venivano ricondotte, nel dibattito degli anni ’50 -’70, all’interno di una concezione manageriale di responsabilità, vengano adottate seguendo una prospettiva che viene definita utilitarista.

Tale prospettiva, ritiene centrale, come sintesi della funzione sociale dell’impresa, la massimizzazione del profitto, in quanto essa permetterebbe – date le ipotesi di competitività dei mercati – di massimizzare il benessere sociale. Ciò non nega la possibilità di una responsabilità sociale intesa come atti specifici. Stimolati dai vincoli e gli incentivi che le preferenze degli agenti (in particolare consumatori, ma anche lavoratori) esprimono nel sistema concorrenziale, gli agenti d’impresa possono trovare economicamente conveniente intraprendere atti di RSI.

Ad esempio, se il consumatore è disposto a pagare di più per un bene realizzato con determinate caratteristiche “etiche” allora una serie di imprese troveranno economicamente vantaggioso operare in tale nicchia, adottando comportamenti che, opportunamente comunicati, permettono di differenziare il prodotto. Ci si trova di fronte in tal caso ad un incentivo monetario all’adozione di comportamenti responsabili.

Analogamente l’azione dello Stato, sensibilizzato dall’elettorato, con un’opportuna scelta di vincoli, controlli ed incentivi, condurrà l’impresa ad intraprendere azioni che verranno intese come manifestazione di una responsabilità sociale. In tal caso le azioni di RSI sono una risposta ottima ad una serie di pressioni esterne, sempre traducibili per l’impresa in un risultato economico diretto.

Allo stesso modo

Ovviamente, in tal caso, se il costo delle azioni responsabili aumentasse, e se i consumatori tornassero a preoccuparsi solo dei prezzi (per esempio in seguito ad una prolungata crisi economica) o lo Stato non fosse credibile nel minacciare controlli e sanzioni per il comportamento “irresponsabile”, l’impresa interromperebbe subito e di buon grado ogni attività di RSI. Ciò che si vuole sottolineare è che se il comportamento responsabile dell’impresa viene fatto dipendere da incentivi traducibili in un risultato reddituale, gli atti di RSI saranno strumentali, saranno cioè solo mezzi e non fini, nulla più che una risposta contingente a determinate, e possibilmente transitorie, condizioni del mercato.

La logica utilitarista, pur mantenendo la produzione del profitto come indice dell’efficienza sociale dell’impresa, e il meccanismo di mercato come strumento selettivo, giustifica e descrive l’adozione di comportamenti di responsabilità sociale nel caso in cui il loro costo sia controbilanciato da un aumento di potere di mercato. Essa non nega il perseguimento di obiettivi di sviluppo di lungo periodo o di equità sociale, come non nega l’importanza della fiducia come leva gestionale, semplicemente ritiene che l’obiettivo del profitto sia perfettamente appropriato per massimizzare gli effetti sociali dell’azione d’impresa.

Della critica effettuata da altra parte della dottrina economica a tale posizione, che non si occupa della diffusione e dell’emersione delle culture che producono atti di responsabilità sociale, come se l’impresa non fosse un luogo di socializzazione e produzione di valori, che contribuisce alla trasformazione e alla diffusione dei comportamenti responsabili, ci occuperemo nel prossimo paragrafo. Basti qui sottolineare come il fatto di rispondersi su quale sia il motivo che spinge l’impresa ad assumersi degli obblighi sociali, non toglie il permanere irrisolta una questione fondamentale.

Resta ancora da chiedersi infatti chi e come possa assicurare che l’impresa, una volta assunti obblighi sociali, pur a fronte di un “incoraggiamento” a livello statale o europeo, effettivamente vi adempia. E’ questo il più problematico interrogativo in tema di RSI, passare dalla volontarietà della scelta alla vincolatività dell’impegno.

Interessante dottrina[30] sostiene che il profilo sul quale bisognerebbe fondare questa auspicata vincolatività, non solo dal punto di vista sociale, ma anche giuridico, sia la trasparenza. Il principio della trasparenza, che opera appunto più come un principio generale di azione che come una regola, e abbisogna dunque di coniugarsi secondo le peculiarità del caso concreto, è ben noto al nostro ordinamento. Esso costituisce infatti fondamentale principio operativo per il corretto agire della Pubblica Amministrazione, diventando anche fondamento di specifici diritti in capo ai terzi amministrati (si pensi al diritto di accesso che, sebbene riservato a “chiunque abbia un interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevante”, viene esteso ai portatori di interessi diffusi, per quanto compatibili[31]). Affinché il cittadino possa vigilare sull’operato della Pubblica Amministrazione,  sulla effettiva correttezza e coerenza del procedimento amministrativo a quelli che sono gli interessi pubblici perseguiti, l’agire della Pubblica Amministrazione deve essere, appunto, trasparente.

Nell’attività d’impresa, rispetto allo specifico profilo della RSI,  il principio di trasparenza si concretizzerebbe nell’obbligo di predisporre regole (queste specifiche sì, per ciascuna impresa) che consentano di realizzare il presupposto del rapporto dialogico tra interessi dell’impresa ed interessi esterni ad essa, che è alla base della CSR. Tali obblighi di volta in volta si coniugherebbero in obblighi di correttezza, talvolta, o di informazione, talaltra. Ad ogni modo tali obblighi, che riguardano l’attività dell’impresa nel suo svolgersi e non tanto l’atto in senso statico (similmente a quanto avviene per la Pubblica Amministrazione, ove è la fase procedimentale, più che l’atto in sé stesso, che deve rispettare i parametri della trasparenza),  finirebbero con l’integrare le regole imposte dal legislatore, e a sottoporsi, con esse, a controllo.

Pertanto, secondo questa impostazione, la vincoltatività degli impegni assunti dalle imprese, risiederebbe nel fatto che alla decisione, pur volonataria, di assumersi tali impegni, farebbe nascere necessariamente in capo alle stesse anche obblighi di trasparenza (ulteriori rispetto a quelli imposti dal legislatore), atti a garantire la correttezza dell’attività.

In ogni caso tuttavia, anche a voler aderire a questa suggestiva impostazione, resta l’interrogativo sul se sia possibile infliggere delle sanzioni in caso di inadempimento degli obblighi assunti, e, in caso di risposta affermativa, sul chi e il come tali sanzioni possa adottare. Posto che l’impegno ad assumere degli obblighi in senso sociale porta necessariamente con sé anche ulteriori obblighi, di informazione e di correttezza, imposti dall’ordinamento ma specificati da ogni singola impresa, per garantire la trasparenza dell’attività volta ad adempiere le proprie obbligazioni sociali, chi garantirà la cogenza di tali obblighi? Posto che la responsabilità esige come elementi costitutivi, non solo l’obbligo, ma anche la sanzione (sia essa di carattere giuridico, morale e via discorrendo), come si può far sì che la CSR crei davvero una reale responsabilità in capo all’impresa, e non si concretizza solo in una serie di buoni propositi? La sanzione può davvero limitarsi al calo di fiducia e al danno all’immagine che si crea quando un consumatore (avveduto ed informato) percepisca le inadempienze dell’impresa?

A parere dello scrivente i soggetti che possono realmente dare cogenza agli obblighi di cui si tratta, ad assicurare la vincolatività degli impegni assunti, siano le stesse imprese, ed, in specifico, le imprese socialmente responsabili. Si tratta, ancora una volta, di una forma di autoregolamentazione, che prescinde da qualsiasi influenza statuale: le stesse imprese socialmente responsabili insieme costituiscono una rete per la regolazione della responsabilità sosciale che, per mantenere intatta l’immagine complessiva di sé dinnanzi ai consumatori, finisce con l’escludere l’impresa inadempiente.

Pertanto, secondo questa interpretazione[32], che qui si intende sposare, accanto a meccanismi sanzionatori di tipo reputazionale, e dunque a livello meramente sociale, si pongono dei vincoli di carattere giuridico, anche se frutto non di imposizione statale, ma di autoregolamentazione.

Questi vincoli si realizzano, e si tratta appunto di vincoli nascenti tra le diverse imprese aderenti alla rete di responsabilità sociale, non tra istituzioni e impresa, attraverso due modalità: la stipulazione di un contratto tra imprese, o la creazione di un’organizzazione di rete dotata di personalità giuridica.

III. I soggetti coinvolti nel concetto di gestione di responsabilità sociale d’impresa

Si è detto che la RSI non si concreta più, come in passato, nel rispetto di obblighi imposti dal legislatore, ma nasce da una scelta volontaria della singola impresa. Si è detto anche che la scelta, volontaria, è una scelta pur sempre “interessata”, nel senso che l’impresa sa che otterrà dei vantaggi dall’adesione ed il rispetto della CSR, in quanto essa comporta nella pratica  favorevoli risvolti economici.

Manca di spiegare quello che in sostanza costituisce il nesso causale tra scelta di assumere l’impegno da parte dell’impresa e vantaggio economico dalla stessa goduto, l’elemento che permette, per così dire, di chiudere il cerchio della RSI.

Si tratta infatti di verificare quali siano i soggetti effettivamente coinvolti nel concetto di gestione della responsabilità sociale d’impresa, ossia quali siano i soggetti del mercato che inducono le imprese ad optare per scelte di questo tipo e come agisca questa influenza.

E’ il consumatore che a questo punto assume un ruolo centrale. Si tratta infatti di un consumatore che non è più passivo utilizzatore di beni, che subisce gli andamenti del mercato, ma che, sempre più informato e consapevole, comincia a raffinarsi, a ponderare elementi non più strettamente economici, a fare delle scelte etiche. Da mero elemento passivo, di recepimento del prodotto, il consumatore si tramuta in soggetto attivo del mercato, capace di influire sulle stesse strategie delle imprese non più unicamente da un punto di vista economico.

E’ evidente del resto come da una fase di consumismo “sconsiderato”, ossia fine a sé stesso, si sia passati ad una scelta del prodotto sempre più consapevole, condizionata, in un primo tempo, da un’attenzione alla qualità stessa del prodotto, nelle sue caratteristiche intrinseche, ma via via, spostando lo sguardo anche ad elementi estrinseci, per assicurarsi ad esempio che il bene sia rispettoso dell’ambiente, o che sia stato prodotto rispettando le più elementari regole di sicurezza del lavoro.

In questo senso, il consumatore, con le proprie scelte, sensibilizzato a fattori che non sono più solo quello economico, ma anche quello sociale e ambientale, finisce con l’influire sulle scelte di RSI delle imprese, mostrando di premiare quelle che si  assumono degli impegni sociali. In una logica utilitarista pertanto, come si è detto, posto che il consumatore sarà disposto a pagare anche un prezzo maggiore pur di avere un bene realizzato con determinate caratteristiche “etiche”, una serie di imprese troveranno economicamente vantaggioso operare in tale nicchia, adottando comportamenti che, opportunamente comunicati, permetteranno di differenziare il prodotto.

Ecco allora che la comunicazione, e la diffusione della comunicazione di massa in particolare, assolve un ruolo fondamentale per mantenere vivo questo meccanismo. Da un lato infatti, all’impresa è permesso di differenziarsi in senso positivo, di mostrare e dimostrare all’opinione pubblica il proprio impegno in campo sociale, di puntare l’attenzione su aspetti altrimenti poco evidenti, e che anzi normalmente hanno un’incidenza negativa sul prezzo del prodotto; dall’altro lato, e si tratta del rovescio della medaglia, una comunicazione a vasto raggio permette di conoscere anche al consumatore quali sono le imprese che effettivamente rispettano gli obblighi assunti e quali invece utilizzano la RSI unicamente a fini promozionali. Del resto è proprio attraverso i mezzi di comunicazione che l’opinione pubblica viene resa partecipe delle prese di posizione di organizzazioni non governative o di associazioni dei consumatori che si oppongono a certi “stili” di produzione[33].

Attraverso questo meccanismo dunque la comunicazione di massa (ma si ricordi, al proposito, quanto affermato dalla Commissione Europea sulla necessità di accentuare questi elementi informativi) funge sia quale incentivo della CSR, sia come strumento sanzionatorio, sia pur, come si è detto, a livello non giuridico, ma di riconoscimento sociale. Essa costituisce il fondamentale strumento per rafforzare il nesso causale tra scelta (consapevolizzata) del prodotto ed adesione alla RSI, nonché meccanismo di diffusione dello stesso.

Oltre all’influenza sulle vendite portata dai consumatori l’RSI risulta avere anche un’incidenza sulla produttività, questa volta, “dall’interno”. Infatti un altro ambito in cui il concetto di CSR si rivela uno strumento di vantaggio competitivo, è la motivazione dei lavoratori. Si evidenzia come l’individuazione di obiettivi societari più complessi, non semplicemente orientati al profitto, la condivisione da parte dei dipendenti di una sorta di mission aziendale, diventa una leva gestionale di grande rilievo.

In questo senso la RSI riveste il ruolo di una nuova forma di motivazione dei dipendenti, che supera quella tradizionale incentivo-sanzione. La reputazione, l’adesione alla mission, la creazione di una corporate culture condivisa si dimostrano  i modi più efficienti per rivedere il modello organizzato e di governance aziendali, all’insegna di una nuova spinta motivazionale dei lavoratori. Tale obiettivo, in particolare perseguito con l’impiego di strumenti quali il bilancio sociale e di sostenibilità ed il codice etico di cui si tratterà in seguito, permette di dedurre che la RSI ha un’incidenza non solo da un punto di vista esterno, o della domanda, ma anche da un punto di vista interno, della produttività, dell’offerta.

  1. La nuova dimensione dell’impresa: from “shareholders’ value” to “stakeholders’ theory” and fair trade

Il ruolo, sempre maggiore, riservato alla figura del consumatore nella scelta della strategia d’impresa da perseguire, va di pari passo con la sempre maggiore consapevolezza della rilevanza che interessi terzi possono avere nel buon andamento dell’impresa stessa. La visione di un’impresa che si limiti a perseguire gli interessi dei propri azionisti appare sempre più miope, non votata, nel lungo periodo, ad un miglioramento delle condizioni economiche dell’impresa.

La considerazione non è scontata, chè, anzi, fervente è stato il dibattito in merito alla necessità, o addirittura alla legittimità, che i manager d’impresa tutelassero interessi estranei a quelli propri degli azionisti.

La questione nasceva in tempi remoti, negli Stati Uniti, da una controversia tra Berle[34] e Dodd[35] sul tema “di chi sono fiduciari i dirigenti d’impresa?”.

Il primo sostiene che “i poteri dell’impresa erano poteri in custodia per conto degli azionisti, mentre Dodd afferma che sono in custodia per l’intera collettività.” Secondo Dodd infatti, che adotta una prospettiva a dir poco moderna, “l’opinione pubblica impone oramai di considerare l’impresa un’istituzione economica che svolge un servizio sociale, così come la funzione di produzione del profitto”.

Da ciò derivano differenti proposte giuridiche, per l’indicazione dei doveri fiduciari: Berle sostiene la tesi secondo cui il ruolo della legge, al fine di proteggere l’interesse degli azionisti, sia quello di dar vita a strumenti di salvaguardia contro il possibile abbandono da parte dei manager del perseguimento del profitto. Dodd invece afferma che la legge deve riconoscere ai dirigenti d’impresa una responsabilità, nei confronti, ad esempio, dei fornitori, consumatori e dipendenti della società nel suo complesso.

Tali teorie venivano riprese poi nella contrapposizione tra tesi neoclassica e tesi managerialista.

La prima può essere così riassunta: i manager sono agenti fiduciari degli azionisti, i quali affidano loro il denaro allo scopo di ricavarne un guadagno. Se i dirigenti d’impresa impiegassero questo denaro per contribuire a cause sociali che essi sostengono moralmente pregevoli, e ciò rappresentasse un costo addizionale per l’impresa, in realtà facendo ciò i manager  finirebbero con l’imporre una tassazione sugli azionisti, senza che nessuno abbia conferito loro l’autorità per farlo. Il compito di perseguire cause sociali moralmente pregevoli dovrebbe essere dunque lasciato al governo ed alla Pubblica Amministrazione, che operano sulla base dell’autorità ricevuta dall’elettorato. Quando gli azionisti assumono un manager, invece, il loro mandato non include in nessun modo tale finalità.

Per di più, si afferma, nel compiere tale tipo di attività, oltre alla sovranità degli azionisti, il manager violerebbe anche quella dei consumatori: aumentando e diminuendo il prezzo del bene prodotto allo scopo di finanziare opere sociali, oppure venire incontro a particolari bisogni, il manager finirebbe per manomettere il meccanismo dei prezzi. Per quanto ben intenzionato infatti, non c’è motivo di pensare che il manager sia in condizione di conoscere i valori del pubblico e gli effetti a distanza delle sue azioni sulle scelte dei consumatori. Manomettendo il sistema dei prezzi, in realtà il manager impone i suoi valori al mercato e ai consumatori[36].

L’approccio managerialista sostiene – al contrario – che il consigliere d’amministrazione o il manager è posto nel punto di convergenza tra numerosi interessi coinvolti nella gestione dell’azienda:  quelli di azionisti, dipendenti, clienti, venditori, fornitori di materiali e di attrezzature, la comunità nel suo complesso. Nessuno degli interessi è prioritario o superiore agli altri. E’ compito del consigliere di amministrazione soddisfarli tutti. Il profitto rimane uno degli elementi più importanti da prendere in considerazione, ma è uno dei tanti, non l’unico e solo principio che li muove.

La diatriba propone quella contrapposizione tra “shareholders’ value” e  “stakeholders’ theory” che animerà il dibattito giuridico-economico di tutto il Novecento. Mentre il primo concetto, rifacendosi in sostanza alla tesi neoclassica, pone in primo piano l’interesse dei possessori di quote di capitale (shareholder), la “stakeholders’ theory” evidenzia gli interessi di tutti i portatori d’interesse nell’impresa, siano essi esterni  o interni ad essa. Sull’impresa gravitano infatti i più variegati interessi, provenienti non solo dal mercato (concorrenti, clienti, fornitori), ma anche dai soggetti finanziari, da altri soggetti pubblici o privati (Pubblica Amministrazione, organizzazioni ambientaliste, sindacati, mass media), dalla politica fino a ricomprendere il pubblico intero (consumatori, dipendenti…). Gli stakeholder sono dunque quei soggetti che possiedono un interesse legittimo, sia esso competitivo o cooperativo, nei confronti dell’attività dell’azienda, non necessariamente di tipo economico.

Ci si potrebbe domandare in realtà quale influenza possano rivestire questi interessi, di per sé stessi estranei all’impresa, nella scelta della  strategia di gestione. E’ difficile pensare di poter scollegare la scelta strategica dagli interessi degli azionisti (e dunque dalla massimizzazione del profitto), per connetterla invece a fattori esterni, non prettamente economici. Tuttavia questa impostazione viene sostenuta da chi comincia a riconoscere l’influenza della connessioni tra impresa e la realtà sociale, le ripercussioni di questa sulla scelta strategica di gestione.

L’origine di questo percorso di ricerca si può trovare nei lavori di Akerman e Bauer (1976) , e di Frederick (1994). In particolare, i primi elaborano un approccio alla gestione strategica d’impresa volto ad anticipare e rispondere alle istanze sociali dell’ambiente esterno, il secondo sostiene la necessità di integrare il concetto di responsabilità sociale con quello di rispondenza sociale (social responsiveness), intesa essenzialmente come la capacità dell’impresa di rispondere alle pressioni sociali.

L’elaborazione di questi concetti trova inoltre nel corso degli anni ’80 le formulazioni più significative nel contesto dello Strategic Management descritto da Ansoff[37] e nella Stakeholder Theory di Freeman[38] . Nella logica di Ansoff, l’obiettivo dell’azienda è “sistematizzabile nell’interconnessione tra ambiente esterno, strategia e strutture d’impresa”. In tale contesto l’ambiente non è più il sistema concorrenziale e/o normativo espresso in termini di vincoli e incentivi, o altrimenti di obiettivi collettivi, bensì una rete di interrelazioni, di fattori economici, socio-politici ed istituzionali che interagiscono volta a volta con le diverse funzioni dell’impresa in contesti definiti dal suo comportamento ed orientamento strategico. All’interno di quest’ottica la responsabilità sociale d’impresa (o ancor meglio la rispondenza sociale) è un attributo manageriale definito come “interconnessione consapevole e riflessiva che attraverso essa si stabilisce tra impresa ed ambiente”.

Per quanto riguarda il concetto di stakeholder, esso nasce, come si è detto, nella generalizzazione di quello dei possessori di quote di capitale (shareholder). Freeman definisce gli stakeholder come “those groups who can affect or are affected by the achievement of an organization’s purpose[39].

Il concetto della teoria degli stakeholder si fonda sui cosiddetti principi di interdipendenza e di rilevanza dei valori: il successo dell’impresa dipende dalle azioni degli individui o gruppi di individui i cui interessi sono in gioco nella gestione, e le azioni degli individui e dell’impresa dipendono dai valori dell’individuo e dell’impresa. La determinazione e la realizzazione della strategia d’impresa implica la collaborazione dei vari stakeholder e la negoziazione tra il soggetto che è principalmente preposto a definire la strategia dell’impresa e vari stakeholder[40]. La gestione di interessi molteplici e concorrenti diviene una funzione essenziale del management stesso,che non può essere più ridotto alla cura degli interessi dei soli shareholder[41]. Oltre ad essere il risultato della contrattazione tra e con gli stakeholder, la strategia è anche la base per misurare la performance dell’impresa.

D’altra parte il fatto di sottostare, per così dire, ad interessi esterni, porta all’impresa notevoli vantaggi, per esempio a livello di immagine e di reputazione commerciale, di facilitazione di accesso al credito, di possibilità di usufruire di taluni vantaggi fiscali o di smplificazioni amministrative. L’impresa socialmente responsabile inoltre, instaurando rapporti fiduciari e duraturi con gli stakeholder, si preserverà da azioni ostili  o di aperto boicottaggio da parte di questi.

Certo è che gli interessi degli stakeholder, afferendo a posizioni diverse, sono diversificati e anzi spesso contrapposti, ma l’impresa dovrà procedere ad un bilanciamento in ragione della legittimità delle richieste, del peso degli stakeholder  che avanzano la specifica richiesta, nonché l’urgenza della richiesta stessa: l’impresa risulterà vincente, e perciò competitiva sul mercato, se riuscirà a trovare il giusto punto di equilibrio tra gli interessi dei vari stakeholder.

Anche in questo senso dunque la comunicazione assolve un ruolo fondamentale, permettendo all’impresa di conoscere gli interessi in gioco, e di effettuarne un bilanciamento, nonché per gli stakeholder, per verificare che il comportamento dell’impresa corrisponda alle scelte dichiarate, grazie a quel dovere integrativo di trasparenza di cui già si diceva.

 

SEZIONE II: GESTIONE D’IMPRESA, GOVERNANCE ED ETICA DEGLI AFFARI

  1. Il comportamento socialmente responsabile tenuto dall’impresa: i vantaggi competitivi e la massimizzazione degli utili di lungo periodo

Come già si evidenziava, il comportamento socialmente responsabile viene ad assumere, nella gestione dell’impresa, una funzione di incremento economico, la cui consapevolezza cresce di giorno in giorno nelle valutazioni stesse delle aziende. Diventa pertanto uno degli obiettivi propri dell’impresa quello di seguire tali comportamenti, di impegnarsi in questo senso, e soprattutto di rendere noto il proprio impegno agli interlocutori interni ed esterni, che tale impegno dimostrano di apprezzare.

I vantaggi dell’impresa che adotta strategie di CSR, sono molteplici. Innanzitutto la stessa adozione di comportamenti socialmente responsabili, soprattutto nel settore ambientale, comporta un vantaggio già di per sé per l’impresa, nel senso che permette di ridurre i cosi operativi. Le iniziative che tendono a ridurre l’emissione di gas, per evitare i rischi di surriscaldamento e contribuire al miglioramento del clima mondiale, consentono alle imprese di ridurre i costi legati ai consumi energetici. I programmi diretti alla realizzazione di un sano ambiente di lavoro, che esaltino anche la finalizzazione etica dell’attività dell’impresa, per rinforzare lo spirito di collaborazione, conducono ad un calo del tasso di assenteismo, di turnover, di reclami da parte dei lavoratori e ad un incremento della permanenza del lavoratore presso l’impresa[42], con conseguente aumento di produttività e riduzione dei costi di reclutamento e formazione del personale.

A questi fattori, per così dire, interni, di produttività, si aggiungono quelli attinenti alla sfera esterna, all’immagine dell’azienda, alla sua reputazione e alle conseguenze che ciò comporta sul versante della domanda da parte del consumatore, ma anche degli altri stakeholders.

E’ incontestabile che l’adozione di piani di CSR genera un miglioramento dell’immagine e della reputazione dell’impresa[43]. Ciò a sua volta determina un aumento delle vendite ed una fidelizzazione della clientela, perché il consumatore, sempre più attento a fattori quali il rispetto dei diritti umani, la tutela dei minori, l’utilizzo di materiali riciclabili, l’assenza di prodotto geneticamente modificati, tende a preferire il prodotto che dimostri di nascere da un maggiore impegno socio-ambientale[44].

A ciò si aggiunga il fatto che inevitabilmente le imprese socialmente impegnate, che abbiano saputo crearsi un’immagine affidabile e positiva, sono sottoposte ad un minor controllo da parte della autorità nazionali e locali. Ad esempio negli U.S.A.  le agenzia federali e statali adottano programmi formali che incentivano e premiano le imprese socialmente responsabili. In alcuni casi tali imprese sono soggette  a minori ispezioni e possono godere di vantaggi fiscali e permessi particolari[45], inoltre la trasparenza e l’impegno sociale possono rappresentare un punto d vantaggio per la stipulazione di contratti pubblici. Oltretutto le imprese che si dimostrano attente agli aspetti sociali, ambientali ed etici presentano una maggiore facilità nell’accesso al credito ed al mercato del capitale. Alcune banche hanno cominciato già a tempo ad inserire aspetti ambientali e sociali nelle tecniche di valutazione del rischio di credito e a sviluppare strumenti finanziari che favoriscono lo sviluppo e la tutela ambientale. Le procedure di affidamento del credito si sono arricchite con delle valutazioni di carattere ambientale, e, in alcuni casi, anche sociale[46].

Oltre a questi elementi di vantaggio che si ripercuotono in via diretta sulla gestione dell’impresa, bisogna tenere conto anche di aspetti che indirettamente vanno ad incidere sulla stessa. Infatti in caso di CSR si assiste ad un miglioramento della gestione dei rischi, cui è ricollegabile un miglioramento della performance finanziaria.

La capacità di considerare la propria azienda non come un soggetto singolo, ma inserito in una determinata realtà sociale, consente indirettamente di avere una visione più completa dell’assetto in cui essa andrà ad operare, di individuare rischi prima sconosciuti o non sufficientemente considerati, spingendo di conseguenza l’azienda ad adottare tecniche di prevenzione e limitazione dei rischi[47]. L’idea tradizionale che considerava l’economia e la società come due ambiti nettamente separati, autonomi ed autoreferenziali, oggi viene superata dalla volontà delle stesse imprese di considerarsi “soggetto sociale”, di migliorare la propria capacità di relazionarsi con gli interlocutori esterni, in un impegno programmatico per la costituzione di una forte coesione sociale.

Da tale prospettiva anche i risultati finanziari ottengono un vantaggio, sia pure indirettamente, perché la capacità di ridurre il rischio d’impresa induce ragionevolmente gli investitori ad optare per un’impresa socialmente responsabile[48].

In sostanza l’impresa attuale non può prescindere dall’attuazione di comportamenti socialmente responsabili se intende mantenere la propria competitività sul mercato e massimizzare i propri utili nel lungo periodo. Come osservato da un noto esponente della classe imprenditoriale, “l’etica è una forma di sopravvivenza nel lungo periodo. E io credo che l’unico modo per misurare la validità di un marca sia quello di vedere per quanto tempo è capace di sopravvivere”[49]. Solo la strategia d’impresa che tenga conto di tali fattori può costituire, almeno nel lungo periodo, una strategia di successo.

 

  1. Il sistema economico globale e le politiche per la competitività dell’impresa

Il richiamo alla massimizzazione degli utili per il lungo periodo cui si faceva cenno nel precedente paragrafo, richiama alla mente il concetto di sostenibilità, come definito nel rapporto della Commissione Brundtland del 1987[50]. In questa sede è stato definito sviluppo sostenibile “quello che soddisfa la necessità del presente, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze[51]”. Del resto, per quanto esteso a livello planetario, a seguito della globalizzazione, il nostro sistema costituisce comunque un sistema chiuso, per cui in questa prospettiva un’attività sarà considerata sostenibile se, in un sistema appunto chiuso e definito, il mantenimento dei modi di utilizzo delle risorse e dei criteri comportamentali applicati attualmente permetteranno una disponibilità inalterata o crescente delle stesse risorse ed il mantenimento o miglioramento dei criteri comportamentali applicati[52]. In questo senso, dunque, il futuro, ed una visione di lungo, o lunghissimo, periodo[53].

La sostenibilità inoltre non è più giudicabile limitandosi ai confini dello Stato in cui l’impresa ha la propria sede. Infatti ormai da qualche decennio per le imprese l’operare in un contesto internazionale è un dato di fatto. Esse si trovano immerse in un mercato che da tempo non è più solamente nazionale, ma che va ad includere inevitabilmente anche Paesi con diverse modalità di evoluzione del sistema distributivo, rapporti sociali, sistema produttivo. Si pone pertanto per tutte le imprese il problema di mantenimento contemporaneo di competitività ed impegno sociale, che come si è detto, è di essa un necessario presupposto. La visione, anche qui, deve tener conto degli esiti della globalizzazione.

Si parla al proposito di “internazionalizzazione sostenibile”, ossia di un concetto che si traduce nella volontà di considerare le azioni di impegno sociale e ambientale d’impresa anche e soprattutto quando si opera su mercati esteri, poiché gli stessi processi di internazionalizzazione sono fenomeni multidimensionali e complessi che coinvolgono e hanno impatti rilevanti su imprese e comunità[54]. Come si è detto, il fenomeno globalizzazione determina un aumento della diffusività delle conseguenze dei comportamenti delle imprese, le scelte di delocalizzazione determinano effetti diretti sulle situazioni ambientali, economiche e sociali di Paesi esteri. Questo aspetto peculiare della nostra modernità non può non venire ad incidere sul concetto stesso di sostenibilità. Secondo alcuni Autori[55] anzi è stata la stessa globalizzazione ad incentivare le imprese ad utilizzare i vari strumenti della RSI (bilancio sociale, bilancio ambientale, codici etici). In passato vi era una corrispondenza stretta tra territorio e impresa, alimentata da controlli informali e da forme di mutuo aiuto, l’imprenditore locale doveva rispondere del proprio comportamento alla popolazione del luogo ove l’impresa era ubicata, popolazione che costituiva anche il mercato di sbocco dei suoi prodotti. In contesti del genere la responsabilità sociale era, per così dire, in re ipsa, a livello locale, e non necessitava di forme elaborate di certificazione e comunicazione.

Nel momento in cui invece l’impresa si confronta con i mercati esteri, non necessariamente con una delocalizzazione, ma anche solo nelle forme più tradizionali dell’importazione e dell’esportazione di prodotti, essa si trova a compiere necessariamente delle scelte di responsabilità sociale, perché, soprattutto avendo contatti con Paesi in via di sviluppo, si riscontrano delle differenze tra come l’azienda è solita operare nel proprio Paese d‘origine, rispetto alle condizioni riscontrabili all’estero nelle attività della stessa impresa.

In questo senso l’adozione di best practices da parte delle imprese che operano all’estero, anche al di fuori del Paese di origine, potrebbe essere un efficace strumento per un rapido sviluppo della responsabilità sociale. La situazione che si verifica è invece molto spesso quella inversa, essendo le imprese dei Paesi dalle legislature più rigorose che finiscono con l’infrangere le predette norme, pur di mantenere un certo livello di competitività a livello mondiale. Ne sono esempi  i problemi verificatisi nel settore alimentare con gli scandali legati al diffondersi dell’encefalopatia spongiforme bovina, la presenza di PCB nella carne suina. Tali scandali si sono prodotti in Paesi progrediti ed occidentali, ove tuttavia i parametri minimi di salute e sicurezza non sono stati rispettati da aziende poco scrupolose nel tentativo di tenere il passo con la concorrenza.

L’evoluzione in senso positivo o, nel senso inverso, di un circolo vizioso che conduce ad un livellamento “al ribasso”, è il frutto di molte delicate varianti, che vengono discusse in accaniti dibattiti sui previsti esiti della globalizzazione, o sulla possibilità di incanalarne gli esiti secondo della precise direttive.

Certo è che il sistema economico globale pone alle imprese sfide sempre più numerose anche per quanto attiene alla sfera dell’etica perché, in assenza di standards, ambientali, di lavoro, sociali, uniformi, è proprio l’etica dell’impresa a mantenere inalterate le proprie caratteristiche che può fare la differenza per uno sviluppo sostenibile.

III. La gestione delle problematiche etiche dell’impresa e l’impatto sociale ed ambientale

Rifacendosi all’approccio della cosiddetta Triple Bottom Line[56] la sostenibilità è valutata secondo tre direttrici: quella economica, per cui si fa riferimento alla capacità di generare ricchezza, e, quindi, di assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo dell’impresa; quella ambientale, nel senso di attenzione all’equilibrio ecologico; quella sociale, da intendersi nei confronti dei vari soggetti interni ed esterni all’organizzazione.

Dell’aspetto economico già si è detto, chè l’adozione di comportamenti socialmente responsabili non penalizza, e anzi incentiva, il profilo economico.

Per quanto attiene alla sostenibilità ambientale, c’è da dire che gli studi hanno visto il loro sviluppo decisamente incentivarsi a seguito dei numerosi disastri ambientali che hanno punteggiato drammaticamente gli ultimi vent’anni dello scorso secolo. Si pensi alla Three  Miles Island negli U.S.A., a Chernobyl nell’Unione Sovietica, ma anche alla precedente fuga di diossina dall’impianto produttivo di Hoffmann La Roche a Severo e la strage di Bophal in India a seguito dell’incidente presso la fabbrica di Union Carbide. L’attenzione alla sostenibilità ambientale, acuita da questi drammatici episodi, ha anche condotto negli ultimi anni allo sviluppo di un sistema di studi e di applicazioni tecniche sperimentate, come l’ecocertificazione forestale per il legname a produzione rinnovabile e numerosi schemi di certificazione per il turismo sostenibile e a ridotto impatto ambientale.

Tutti gli aspetti relativi alla concezione e al perseguimento dello sviluppo sostenibile nel settore ambientale saranno oggetto di approfondita trattazione nel secondo capitolo del presente elaborato, ciò che importa qui evidenziare è che anche solo l’entità, non certo nazionale, ma quasi planetaria, dei disastri sopra nominati, rende necessaria un’analisi della RSI, anche sotto il profilo ambientale.

La sostenibilità infine, da un punto di vista sociale, viene definita da taluno come “capacità delle strutture sociali di esprimere un’evoluzione tale da assicurare nel tempo la sopravvivenza di un dato sistema di relazioni sociali”[57]. La definizione sembra mal attagliarsi a quelle che sono le finalità normalmente attribuite alla CSR in campo sociale. Essa infatti è di solito ricostruita come volta ad evitare che l’attività economica comporti una compressione dei diritti personalissimi del soggetto, andando ad incidere direttamente sulla dignità dello stesso. Si pensi alle tutele di sicurezza sul luogo di lavoro, al lavoro minorile, alla tutela del consumatore, etc..

III. L’utilizzo di nuove leve competitive: il riconoscimento di comportamenti aziendali socialmente responsabili nella prospettiva della tutela del consumatore

Come si è già più volte evidenziato, il consumatore di oggi non è più elemento passivo, di recepimento, del mercato, ma diventa agente consapevole e capace di compiere scelte etiche anche nella scelta dei prodotti.

La concorrenza del mercato dunque non si limita più alla caratteristiche proprie del prodotto/servizio, ed in particolare a  suo prezzo, ma anche alle modalità di produzione/integrazione, alle caratteristiche dell’attività produttiva che conduce alla creazione di quel determinato bene. In sostanza, alle tradizionali componenti del marketing, si aggiunge la credibilità percepita dall’impresa che integra e comprende in sé caratteristiche come qualità – intrinseca e percepita-, ma anche salubrità, valori perseguiti e persino la stessa etica d’impresa, ovvero chi è l’entità dalla quale si è deciso di comprare, quanto i suoi valori sono allineati con i propri e quanto – eventualmente- l’impresa effettivamente metta in pratica quanto dichiara di perseguire[58].

In questo senso, come si accennava, la fondamentale funzione assolta dalla comunicazione, chè una pur elogiabile attività sociale dell’impresa non assolverebbe il proprio scopo di incremento dei consumi, se non sorretta da un’adeguata informazione[59]. La RSI non potrebbe funzionare come strumento di marketing finalizzato all’incremento delle vendite se non fosse adeguatamente resa nota ai consumatori per indirizzarne l’azione. Certo, ci si potrebbe chiedere quale sia la percentuale ideale di risorse finanziare da destinare alla comunicazione, rispetto a quella concretamente finalizzata ad assolvere gli impegni sociali assunti. Sorge spontanea infatti la preoccupazione che l’investimento fatto dall’impresa sia destinato in larga misura a pubblicizzare un azione in realtà piuttosto esigua, tuttavia non è questa la sede per approfondire questioni di tal fatta.

Gioverà invece sottolineare come il consumatore assuma, nel contesto attuale, non solo la predetta funzione di indirizzare il mercato verso comportamenti socialmente etici, ma diventi, a sua volta, il destinatario di tali comportamenti. E’ la stessa tutela del consumatore, quale soggetto debole nella filiera produttiva, che viene in rilievo. Del resto non si tratta di tutela estranea al nostro ordinamento, che anzi si dimostra sempre più sensibile, dal punto di vista della tutela giuridica, alla protezione di questa figura. Si pensi alla disciplina introdotta, prima nel Codice Civile, oggi nell’apposito Codice del Consumo, per contrastare l’introduzione di clausole vessatorie da parte del professionista, si pensi alla fissazione, quale foro esclusivo delle controversie, del luogo di residenza del consumatore, si pensi ancora alle numerose nullità di protezione, introdotte a favore del consumatore stesso. Si tratta sostanzialmente di dotare di tutele adeguate questo soggetto del mercato, in ragione del gap informativo che inevitabilmente intercorre tra professionista e consumatore, nonché della posizione di subordinazione economica di quest’ultimo.

La tutela, questa volta non in via legislativa, ma solamente volontaristica, trova un equivalente nella RSI, nel senso che l’impresa socialmente responsabile tende ad avere cura anche del consumatore, alla sua informazione ed alla qualità dei prodotti offertigli. Si situano in quest’ottica le attenzioni alla certificazione della qualità dei prodotti, della “rintracciabilità” delle materie prime, dell’assenza di OGM[60].

  1. CSR: dalle norme inderogabili all’autonomia privata

Risulta evidente da uno sguardo complessivo alle tematiche affrontate, che la RSI, nata come una forma di rispetto delle normative vigenti in materia sociale, ambientale ed economica, esula ad oggi da questo aspetto di coercibilità, ponendosi su un versante invece volontaristico.

Si tratta dunque di effettuare delle scelte etico-sociali, che derivano comunque dalla piena consapevolezza della loro piena compatibilità con gli interessi economici dell’impresa, e anzi della loro funzionalità ad accrescere i profili aziendali. Si richiama al proposito quanto già affermato sulla spinta utilitarista che fonda il fenomeno in esame. Non è certo impensabile che la scelta di aderire a comportamenti socialmente responsabili sia una scelta fondata su motivazioni prettamente morali, e tuttavia l’ipotesi sembra essere marginale in un settore come quello economico, ove le decisioni sono ovviamente indirizzate ad un fine economico.

Certo, si tratta di scelte che, pur avanzate in un’ottica di vantaggio economico nel lungo periodo, comportano di per sé delle spese aggiuntive. Si pensi anche solo all’aspetto ambientale: il rendere compatibile la produzione con il rispetto dell’ambiente ha un costo spesso molto elevato, che, sebbene in alcuni casi possa essere ammortizzato dalla diminuzione dei consumi energetici e dal ritorno reputazionale di cui si diceva prima, costituisce per molte imprese un ostacolo quasi insormontabile. Anche qualora un investimento di tale entità non sia un ostacolo di per sé insuperabile, esso comporterà necessariamente un aumento del prezzo del prodotto finale, su cui verrà “spalmato” il costo del predetto investimento.

Ne discende, in un’ottica globalizzata, che a vantaggio di Stati ed imprese dove vige la piena indifferenza ambientale si produrrà una sleale ed illecita concorrenza nei confronti di altri Stati ed altre imprese nei quali l’obbligo di salvaguardia ambientale è non solo un principio di civiltà nei confronti della comunità cui si appartiene ma un contesto di regole per seguire le quali è necessario sopportare onerosi impegni che finiscono con l’incidere sul prodotto finale mettendo fuori del gioco della competizione chi osservi principi di tutela ecologica rispetto a chi è esonerato da tali obblighi, e produca in danno dell’intera o quantomeno della vicina comunità civile, non avendo l’ambiente confini amministrativi.

Difficile aspettarsi dall’autonomia privata risultati eclatanti in settori di questo genere, soprattutto se il soggetto privato non sia una grande multinazionale, ma una piccola o media impresa. L’assunzione della RSI è resa più facile dalla logica dei grandi numeri. In essa la dimensione finanziaria, degli organici aziendali, del mercato stesso, coniugati alla maggiore esposizione alla pubblica opinione e alla più elevata capacità di competizione nel mercato globale, possono far sì che effettivamente la RSI possa fornire quel quid in più per fare della grande impresa un’impresa vincente. In un contesto del genere proprio la certificazione della migliore qualità della gestione e della produzione, l’attenzione, data e dimostrata, ai grandi temi della solidarietà verso la comunità umana ed il suo ambiente, psono “fare la differenza”.

La questione diventa più problematica nel contesto della piccola e piccolissima impresa (quest’ultima con un organico non superiore a nove unità e con un volume di affari molto contenuto, come stabilito da una recente Direttiva Europea). In tali contesti i costi del cambiamento, della sua certificazione e comunicazione, non sono più in linea con la necessità di investimento e di innovazione che pur rientrano nelle previsioni di bilancio[61]. Si tratterà in seguito del ruolo che lo stesso Stato potrebbe assumere in questo senso, proprio per incentivare l’adozione di comportamenti socialmente responsabili anche da parte delle piccole imprese, ciò che merita già da ora di essere sottolineato è che la scelta di autonomia sottesa alla RSI, è pur sempre una scelta densa di risvolti economici, e spesso dagli esiti incerti.

  1. Una posizione critica: impresa socialmente responsabile ed enti no-profit

Ciò che non bisogna assolutamente confondere è l’impresa che opti per comportamenti socialmente responsabili e l’ente no-profit. L’elemento che differenzia, anche ad uno sguardo poco attento, le due categorie, è quello della non distribuzione degli utili, che caratterizza gli enti no-profit.

L’esigenza di occuparsi di settori di tutela del cittadino e dell’ambiente, nasce dal medesimo presupposto della moderna crisi dello Stato sociale, per cui aspetti che prima erano prerogativa propria del settore pubblico, sono inevitabilmente andati a gravare su iniziative private. E tuttavia il modo di operare di impresa socialmente responsabile ed ente no-profit non sono assolutamente assimilabili.

E’ noto come i progetti operativi del settore no-profit abbiano sempre dovuto far ricorso, almeno fino a tempi recenti, per attività economiche, al modello cooperativo. L’unicità di tale modello è stata in parte erosa dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155, emanato in attuazione della legge delega n. 118 del 2005, che ha dato ingresso nel nostro ordinamento alla figura dell’impresa sociale[62]. Tale impresa è connotata dai caratteri generali degli altri modelli di impresa, da cui si differenzia sostanzialmente in ragione dell’atto che, in primis, l’ambito di attività è rigorosamente limitato al settore di utilità sociale, così come definito dall’art. 2 dello stesso decreto[63], in secondo luogo perché non può esservi uno scopo di lucro, inteso come lucro soggettivo, in tutte le sue forme dirette e indirette[64].

La novità legislativa pone ancor più in rilievo le possibili convergenze tra la struttura di un’impresa socialmente responsabile, con quella di un progetto no-profit svolto con lo strumento dell’impresa sociale. Tuttavia l’elemento fondamentale, che è appunto quello dello scopo di lucro, permane a differenziare in modo netto le due figure.

Alcuni Autori hanno evidenziato addirittura la possibilità di realizzare una partnership

VII. Etica privata vs. etica pubblica: la dimensione pubblicista

[1] K. Davis e R. Blomstrom, Business and Society: Environment and Responsibility, 1975, New York: McGraw-Hill.

[2] W. C. FREDERICK, saggio del 1978, pubblicato nel 1994 da CSR to CSR, Businnes.

[3] Lo Stato di polizia, che si afferma verso la fine del diciottesimo secolo soprattutto in Austria e in Prussia, ha tra le sue finalità soprattutto quelle di tutelare il cittadino, di evitare che lo stesso subisca la compressione dei propri diritti, senza però influire esso stesso sullo sviluppo del benessere sociale.

[4] La responsabilità (che sia giuridica, politica, morale o via dicendo) implica di per sé la copresenza di un precetto e di una sanzione collegata alla violazione dello stesso (Trabucchi, Istituzioni di diritto privato,                              1999, pag.          ). L’assenza di una sanzione comporta l’assenza di cogenza del precetto stesso, si pensi per esempio alle c.d. obbligazioni naturali, per le quali il Codice Civile non contempla sanzioni.

Il problema si pone, e la tematica sarà all’uopo approfondita, in relazione alla dimensione etica della RSI, in ordine alla quale merita approfondire un profilo che desta numerose perplessità, ossia se e quali sanzioni accompagnino la violazione di norme etiche.

[5] Si pensi al proposito al divieto di atti emulativi, da sempre considerato limitato come esplicita espressione del divieto di abuso del diritto, per cui anche il diritto di proprietà, pur nella sua pienezza, è sottoposto a dei limiti posti a tutela del terzo.

Peraltro, in ordine alle riletture che la Costituzione ha imposto alla disciplina codicistica del diritto di proprietà v. D. La Rocca, Introduzione, in Diritti e società di mercato nella scienza giuridica europea, Torino, 2006, pag. 15, secondo cui: “I tentativi di differenziare i regimi di tutela a seconda della natura degli interessi o dei soggetti e di predisporre meccanismi di garanzia diversi dalla classica reazione patrimonialistica si sono moltiplicati soprattutto nel corso del novecento, dando vita a soluzioni estremamente sofisticate di soddisfacimento di vecchi e nuovi bisogni. Soluzione che scaturivano dalla convinzione che il modello fondato sull’esclusività attributiva non risultasse adeguato a “proteggere” e a realizzare tutte le istanze di cui i diversi attori sociali sono portatori”.

[6] M. Sandulli, sub. art. 39, in Codice del consumo. Commentario, a cura di G. Alpa e L. Rossi Carleo, Napoli, 2005, pagg. 289-290. L’Autore rileva come anche la disciplina sul concordato preventivo e sull’amministrazione controllata potessero fornire uno spunto in al senso, dal momento che per l’ammissione a queste procedure la legge fallimentare del 1942 richiedeva una meritevolezza dell’imprenditore. Tuttavia, a parte la constatazione che la novella apportata dalla l. n. 80 del 2005 ha soppresso la necessarietà del predetto requisito, l’Autore rileva come la meritevolezza in ogni caso, oltre ad essere riferita all’imprenditore più che all’attività svolta, involgesse aspetti prettamente economici e di immediata rilevanza (adempimento delle obbligazioni, conservazione della garanzia, corretta gestione economico-finanziaria).

[7] Non è un caso del resto che la stessa definizione di  “buona fede”, che può essere intesa come parametro di comportamento qualitativamente corretto, non solo per il singolo, ma anche, in linea generale, per l’impresa, sia presente nel Codice del Consumo, che prescrive: “nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.” (art. 33 Codice del Consumo)

[8] E tuttavia, sulla impossibilità di considerare il mercato come un meccanismo fisico indipendente dalla condotta degli esseri umani, accessibile ad una scienza naturale i cui risultati sarebbero indiscutibili, cfr. M. Ricciardi, La lotta per il diritto, in La rivista dei libri, n. 1, 2007, pag. 18.

[9] “L’art. 844 , co. 2, c.c., che, in materia di immissioni, prevede il contemperamento delle esigenze delle produzione con le ragiono della proprietà, si applica in ogni caso in cui vi sia conflitto tra la tutela del diritto di proprietà e le esigenze della produzione, quale sial campo in cui essa si esplichi, industriale, agricolo o di altra natura, e anche se essa concerna, invece di beni, servizi.” (Cass. civ., sez. I  , 23 febbraio 1982, n. 1115, in Foro it. 1983, I, 1066.

[10] A. B. Carroll, The Pyramid of Corporate Social Responsibility: toward Moral Management of Organizational Stakeholders, in Business Horizons, 1991, pag. 42: “the social responsabilty of business encompasses the economc, legal, ethical and discretional expectations that society has of organizations at a given point time”. Cfr. anche A. B. Carroll e A. BUCHHOLTZ., Business and Society: Ethics and Stakeholder Management, 2006, 6 ed., OH: Thomson/South-Western e A. B. Carroll, The Four Faces of Corporate Citizenship, in Business and Society Review, 1998, vol. 100, no. 1, pp. 1-7.

[11] Rileva C. CHIRIELEISON, in Le strategie sociali nel governo dell’azienda, Milano, 2002, pagg. 87-88: “l’impresa ha in primo luogo responsabilità economiche di creazione del valore (a partire dalla generazione di profitto per gli azionisti e dall’offerta efficiente di beni e servizi per il mercato). La società, tuttavia si aspetta anche che le imprese si conformino alla legge, cui spetta il compito di individuare le “regole del gioco” sulla base delle quali funziona la competizione, definendo così le responsabilità giuridiche, legate al rispetto della normativa. Le altre due componenti della responsabilità vanno oltre quanto strettamente richiesto dal sistema giuridico. Una è la responsabilità etica, legata alla conformità ai valori e alle norme sociali e all’obbligo dell’impresa di agire con equità giustizia e imparzialità; l’altra invece è la responsabilità discrezionale, che implica investimenti puramente discrezionali a favore della comunità, senza che vi sia una precisa aspettativa in questo senso, guidati unicamente dal desiderio di un’azione filantropica. (…) I quattro tipi di responsabilità vanno intesi in termini gerarchici di importanza (…).”

[12] G. CONTE, Tra vocazione lucrativa e responsabilità sociale: il dibattito sugli scopi e sulle responsabilità dell’impresa,  in Lezioni di Diritto privato europeo, a cura di G. Alpa e G. Capilli, Padova, 2007, pag. 580.

[13] Come rileva R. Merli, in                                      , pag. 3, la globalizzazione nasce dalla combinazione di due elementi: il progresso tecnico ed economico e la liberalizzazione commerciale e finanziaria consentita dalla politica. Se da un lato infatti il progresso nella tecnica dei trasporti e delle comunicazione hanno avuto un ruolo fondante nel permettere la delocalizzazione e la frammentazione del ciclo produttivo, ciò non sarebbe stato possibile in assenza di una normativa che, in parallelo, regolasse la libera circolazione delle merci e delle persone.

[14] Del resto è proprio la difformità di discipline in settori come quello dell’ambiente o del lavoro, che portano l’impresa europea a delocalizzarsi. Esito inevitabile della globalizzazione è che se davvero l’impresa europea dovesse competere con quella dei paesi emergenti sul terreno dei costi, senza barricarsi dietro tentativi protezionistici, due sarebbero le vie: l’una, improponibile, di regredire non solo sul fronte dei salari, ma anche su quello delle condizioni di lavoro, della tutela contro gli infortuni, della tutela dell’ambiente; l’altro, percorribile, ma di quasi utopica realizzazione, di ottenere anche dai paesi emergenti il rispetto di standard assimilabili a quelli europei.

[15] Cfr. sul punto L. Rossi Carleo, in Gestione etica d’impresa, pag. 17.

[16] D. L. Engel, An Approach to Corporate Social Responsibility, 32 Stan L. Rev, 1979, citato in J.L. MASHAW, Corporate Governance and Directors’ Liabilities, 1985, Walter de Gruyter Corporate governance, pag. 55.

[17] Cfr. Mashaw , cit..

[18] Cfr. C. Chirieleison, cit., pag. 87.

[19] Scettico, parla di codici etici, ma di convenienza, F. Di Sabato, Profili giuridici dell’etica negli affari, in Banca, borsa, titoli di credito, 2005, pagg. 9-12, che coglie i risvolti utilitaristici, per l’imprenditore, dei comportamenti che all’”etica” dichiarano di rifarsi.

[20] Si pensi ad esempio alle Guidelines for Multinational Enterprises, elaborate dall’OCSE in relazione a profili inerenti la tutela dell’ambiente, il lavoro forzato e il lavoro infantile, la trasparenza delle informazioni, l’attuale problematica della tutela dei consumatori, la lotta contro la corruzione, il trasferimento di tecnologie, la concorrenza e la fiscalità.

[21] In particolare, la convenzione si è occupata di quattro aspetti del rapporto di lavoro: libertà di associazione ed effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, abolizione di tutte le forme di lavoro forzato o obbligatorio, effettiva abolizione del lavoro minorile, eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione.

[22] Vari sono gli strumenti predisposti alla collaborazione: dialoghi sulle politiche (Policy Dialogue), forum per l’apprendimento (Learning Forum), creazione di network locali (Local Networks), progetti di partneriato (Partner Projects).

[23] Anche in relazione all’obiettivo strategico definito a Lisbona, e richiamato dal documento stesso, di “divenire l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento qualitativo e quantitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”.

[24] Comm. Ce, Libro verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, Bruxelles 18 luglio 2001, par. 2.20.

[25] Comm. Ce, Libro verde, cit. , par. 2.21.

[26] Se da un lato affermare che la CSR va oltre i limiti imposti dalla legge sembra allargare comunque lo spazio di tutela riservato ad interessi che vanno oltre a quello economico, tuttavia bisogna sottolineare che il relegare la RSI ad una dimensione meramente etica, potrebbe significare in realtà un arretramento dello Stato –rectius dell’UE- rispetto alla regolamentazione normativa di materie quali l’ambiente, la tutela del lavoro e dei consumatori.

Al proposito merita attenzione la contrapposizione che si era evidenziata tra le parti sociali che avevano espresso il loro parere nei confronti del Libro verde. Da un lato le imprese sottolineavano il carattere necessariamente volontario del proprio impegno sociale, e anzi evidenziavano l’inopportunità di voler regolamentare la RSI a livello di UE,stante l’inesistenza di “soluzioni adatte a tutti”, per cui anzi detta regolamentazione avrebbe finito col soffocare la creatività  e l’innovazione delle imprese, che sarebbero il vero motore della CSR. Sul versante opposto tuttavia i sindacati e le organizzazioni della società civile sottolineavano l’insufficienza di iniziative volontarie a tutelare effettivamente  i diritti dei lavoratori e dei cittadini in genere, invocando l’adozione di un quadro regolamentare che stabilisse norme minime ed assicurasse parità di condizioni.

Appare evidente quale sia stata l’opzione preferita in sede europea.

[27] Essi vengono individuati nella mancanza: di informazioni riguardo al nesso di causalità tra responsabilità sociale e rendimento economico delle imprese (i “business case”); di un’intesa tra le varie parti interessate riguardo ad un concetto adeguato che tenga conto della dimensione mondiale della RSI, in particolare della diversità dei quadri politici nazionali del pianeta; di una formazione, generale e professionale, sul ruolo della RSI, in articolare degli istituti di formazione del settore del commercio e del anagement; della sensibilizzazione e delle risorse della PMI; della trasparenza a causa della mancanza i strumenti ampiamente riconosciuti per concepire, gestire e descrivere le politiche della RSI; del riconoscimento  e dell’accettazione da parte dei consumatori e degli investitori dei comportamenti socialmente responsabili; della coerenza delle politiche dei poteri pubblici.

[28] Indagine 2001 della Rete europea di ricerca sulle PMI (ENSR) su oltre 7.000 piccole e medie imprese: European SMEs and social and Environmental Responsabilità, 7° relazione dell’Osservatorio europeo delle PMI europee, 2002, Commissione Europea, DG Impresa.

[29] (1970).

[30] L. ROSSI CARLEO, cit., pag. 8.

[31] L. 7 agosto 1990 n. 241 titolata “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, come modificata dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, “Modifiche ed integrazione alla l. 7 agosto 1990 n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”.

[32] F. CAFAGGI e P. IAMICELI, Le reti per la regolazione della responsabilità sociale, in AA.VV., Guida critica alla responsabilità sociale d’impresa, a cura di L. Sacconi, Roma, 2005, pag. 454-459.

[33] Si pensi al caso dell’impresa Big Pharma, costretta ad abbandonare il giudizio instaurato a Pretoria, riguardante l’utilizzo dei brevetti e dei marchi dei farmaci contro l’Aids. Si pensi ancora alle scelte sulle modalità di produzione imposte dall’opinione pubblica a grandi multinazionali quali Nike (in relazione allo sfruttamento di manodopera minorile) e Shell (per profili attinenti l’impatto ambientale).

[34] Cfr. A.A. BERLE, Corporate Powers as Powers in Trust, in Harward Law Review, 44, 1931, pag. 1049.

[35] Cfr. E.M. DODD, For Whom Are Corporate Managers Trustees, in Harward Law Review, 45, 1932, pag. 1148.

[36] Traiamo questa analisi da L. SACCONI, Guida critica alla Responsabilità Sociale e al governo d’impresa, Roma, 2005, pagg. 243-246.

[37] H. I. ANSOFF, Corporate Strategy: An Analytic Approach to Business Policy for Growth and Expansion, 1965 – McGraw-Hill Companies.

[38] W. Evan e E. freeman, A Stakeholder Theory of the Modern Corporation: Kantian Capitalism, in T. L. Beauchamp e N. Bowie, a cura di, Ethical Theory and Business, Prentice-Hall, Engrewood Cliffs, N.Y., 1988, pagg. 97 e ss.; nonchè Corporate Governance: a Stekeholder Interpretation, in Journal of Behavioral Economics, 19, 1990, pagg. 337 e ss..

[39] All’inizio degli anni ’90 M. ALBERT, nel testo Capitalismo contro Capitalismo, Bologna, 1993 esplicita la presenza di differenti modelli socio-economici capitalistici sistematizzabili nella dicotomia shareholder e stakeholder society. Albert mette a confronto – e tenta di valutare dal punto di vista dell’efficienza sociale – un modello anglosassone, basato sulla massimizzazione del profitto degli azionisti (shareholder), con scarsa presenza dello Stato, contro un modello renano, praticato in Germania e in altri paesi del Nord Europa, fondato su un’economia sociale in cui importante è la presenza e la partecipazione dello stato, l’orientamento ad obiettivi a lungo termine, il consenso. In un certo modo dunque Albert individua in un quadro storico geografico gli elementi essenziali del dibattito sul ruolo dell’impresa, sulle modalità della sua legittimazione e sul connesso ruolo dello Stato.

[40] Secondo alcuni osservatori negli anni ’70 il termine RSI  in Europa finisce prevalentemente per coincidere con quello di Democrazia Economica, che fa riferimento essenzialmente  al fenomeno della codecisione. L’RSI veniva identificata prevalentemente con la legge tedesca di Mitbestimmung o cogestione, del 1976, che dà accesso ai rappresentanti dei lavoratori nei consigli di vigilanza. Nel caso della grande impresa ad esempio tale consiglio, con funzioni di indirizzo e di controllo rispetto al consiglio di amministrazione, veniva composto da venti soggetti, per metà rappresentanti degli azionisti e per il resto rappresentanti sindacali.

[41] Del resto avverte dai pericoli della shareholders’ value ROSSI, in Il conflitto epidemico, Milano, 2003, pagg. 57 e ss.. Sottolinea l’Autore come la prassi di compensare gli amministratori e i dirigenti delle società con le stock options, ossia i diritti di opzione sulle azioni della società, introduca “il caso più vistoso di conflitto di interessi, in quanto “l’interesse sociale, il c.d. shareholders’ value, dipende dalla quotazione in borsa delle azioni della società: più lo si riesce ad aumentare, attraverso manipolazioni di ogni tipo, più si tutela l’interesse della società – salvo poi vendere per conto proprio le azioni quando hanno raggiunto il massimo valore, magari subito prima del fallimento.” L’esempio rende evidente come non necessariamente l’interesse degli azionisti sia sovrapponibile a quello dell’impresa stessa.

[42] Uno studio condotto da Medstrat Group (www.medstrat.com, 2003) a dall’American Production and Quality Center (APCQ) (cfr. www.apqc.org, 2003, si tratta di una organizzazione non profit fondata nel 1977 con la finalità di aiutare le imprese ad adattarsi ai cambiamenti ambientali, individuando nuove e migliori soluzioni di lavoro.

[43] British Telecom (Ethical Performance, 2002) ritiene che le proprie pratiche socialmente responsabili abbiano contribuito ad aumentare la propria quota di mercato nel competitivo mercato inglese delle telecomunicazioni e ha stimato che esse abbiano inciso per oltre il 25% in termini di reputazione e immagine sulla soddisfazione del consumatore.

[44] Cfr. Le indagini sulla customer satisfaction, www.sita-on-line.it; Speciale responsabilità sociale delle imprese, www.cciitalia.org, 2003. Inoltre una ricerca statistica condotta con 1017 interviste personali domiciliari su un campione rappresentativo della popolazione italiana in 200 punti di rilevamento nel gennaio 2003 e commentata in La responsabilità sociale d’impresa, A. Beda- R. Bodo,              2004, pag.       , dà conto del fatto che già in quel periodo vi era un alto livello di consenso degli italiani (77% molto/abbastanza d’accordo) riguardo ala partecipazione delle imprese alla soluzione dei problemi sociali. Addirittura, il 28% degli intervistati, considerava l’impegno sociale dell’impresa, non come una scelta volontaria, ma come un vero e proprio dovere per la stessa. Le aree di intervento più ricerche venivano individuate nella ricerca scientifica (39%), nella costruzione di ospedali (38%), nella prevenzione della malattie (36%) e nell’assistenza degli anziani (28%). Infine l’atteggiamento emozionale dei consumatori risultava in generale positivo (75%): cresceva l’interesse verso l’impresa protagonista dell’iniziativa (49%) e veniva apprezzata la possibilità di risolvere problemi sociali (26%). In una piccola percentuale venivano avanzati dubbi sulle motivazioni o sulla destinazione degli investimenti (25%).

[45] Nelle U.S. Federal Sentencing Guidelines si afferma che le imprese giudicate “good corporate” o che presentano programmi etici efficaci possono ottenere una riduzione delle penalità e delle multe previste per infrazioni delle norme (Cfr. www.ussc. gov, 2003).

[46] Banca Verde, ad esempio, lo strumento specializzato del gruppo Monte dei Paschi di Siena per perare con crediti a medio-lungo termine a favore dello sviluppo sostenibile e della eco-efficienza, assoggetta il 100% delle richieste di credito ad una istruttoria ambientale con due livelli. Inoltre, accanto alla valutazione del rischio ambientale, le banche più sensibili ad istanze sociali, hanno sviluppato servizi volti a favorire la diffusione di politiche e comportamenti responsabili tra la propria clientela: consulenza su agevolazioni contributive, assistenza progettuale, finanziamenti agevolati alle PMI interessate a introdurre un sistema di gestione ambientale certificato o a soddisfare esigenze di ecocompatibilità.

[47] Il Combined Code of Corporate Governance inglese (Turn-bull Report) del 2001 ritiene gli amministratori di società quotate responsabili per la identificazione, valutazione, gestione dei rischi – compresi quelli riferiti a salute e sicurezza, ambiente e reputazione- e per l’efficacia dei sistemi di controllo interno.

[48] L’Institute of Business Ethics, in una recente analisi condotta su 250 società incluse nell’indice FTSE evidenzia come quelle con un codice etico adottato da più di cinque anni abbiano una performance superiore alla media in termini di valore aggiunto economico e di mercato.

[49] Cit. di Ernesto Illy, in La responsabilità sociale d’impresa, A. Beda- R. Bodo,              2004 , pag.

[50] Brundtland (1987), Our Common Future, Oxford, Oxford University Press and World Commission on Enviroment and Development.

[51] World Commission on Enviroment and Development (1987), From one earth to one world, Sez. I, pag. 8. La definizione non è andata esente da critiche. In primis sono state sottolineae le ambiguità derivanti dalle incertezze su quali siano le priorità da seguire nella scelta degli obiettivi da perseguire tra le varie alternative possibili (si tratta evidentemente di valori, quello sociale, ambientale, economico, che s pongono in contrapposizione nella realtà concreta, che fare ad esempio se- come normalmente avviene- il miglioramento economico è speculare a impatti socio ambientali negativi?). Inoltre è stato anche evidenziato da alcuni come l’introduzione del concetto di sviluppo sostenibile abbia di fatto avvantaggiato i Paesi già sviluppati, allontanando la discussione del tema se sia utile o meno perseguire indefinitamente lo sviluppo economico.

[52] Definizione di S. Valentini, Responsabilità sociale d’impresa e globalizzazione, Verso un’internazionalizzazione sostenibile,               , 2004, pag. 60.

[53] Si pensi all’attenzione, sempre crescente, prestata al comportamento dei prodotti e dei loro componenti, quali il rilascio nel tempo di formaldeide e altre sostanze nocive, i metodi di laccatura verniciatura e fissaggio e così via in molti Paesi produttivi e industriali.

[54] Considerazione di S. Valentini, cit., pag. 86. Sottolinea l’Autore che “indirettamente, seguire percorsi di internazionalizzazione sostenibile può anche influire sullo stesso concetto di internazionalizzazione, da riscoprirsi non solo nella sua accezione commerciale, ma anche coe momento di incontro tra culture (anche economiche) diverse, ricercando punti di contato e compatibilità pur nell’ambito di sistemi etici diversi tra loro”.

[55] A. Parlato, Responsabilità sociale d’impresa, 2004, pag. 8.

[56] Cfr. Elkington (1997).

[57] Cfr. S. Valentini, cit., pag. 62.

[58] Considerazioni di S. Valentini, cit., pag. 95.

[59] Lo stesso valga per la comunicazione interna, perché pure la funzione di motivazione del personale non potrebbe essere raggiunta senza un’adeguata informazione dei lavoratori.

[60] L’azienda Galbusera ad esempio, come espresso nel testo di A. Parlato, Responsabilità sociale d’impresa, pag. 92, ha effettuato alcune campagne pubblicitarie con la seguente dicitura: “Avviso ai consumatori, leggete attentamente le nostre etichette. Se la pensate come noi in fatto di sicurezza alimentare abbiamo una grande novità: garantiamo sempre i nostri prodotti e tutta la linea di produzione secondo sei punti fissi “standard” e con certificazioni indipendenti, come quella SGS per l’assenza di OGM, sempre”.

[61] Affronta la tematica della difficoltà di aderire alla RSI A. Parlato, cit., pag. 24, che propone al proposito tre alternative possibili: “la prima è quella di operare economie di scala acquisendo le certificazioni su richiesta di una pluralità di soggetti associati ed operanti in una sola categoria produttiva, o in un solo territorio, che sia in un’area definita, un quartiere d un distretto industriale, agrario, culturale e dove sia fattibile la verifica e la certificazione di comportamenti comuni di responsabilità sociale; la seconda è quella di prevedere per le piccole e piccolissime imprese una particolare forma di certificazione semplificata ed a costi contenuti; la terza è quella che lo Stato sostenga l’assunzione della RSI agevolando le imprese di ridotta dimensione con contributi pubblici ai costi di certificazione o mercè agevolazioni fiscali, nel quadro dell’indubbio interesse dello Stato a predisporre, senza escludere la parte delle imprese numericamente più consistente, di un intero sistema produttivo, di qualità, valido per la competizione internazionale”.

[62] Come osservato da G. Bonfante, Un nuovo modello d’impresa: l’impresa sociale, in Diritto commerciale e societario, n. 8, 2006, pag. 929, “si tratta di una novità di grande rilievo sul piano istituzionale fortemente voluta dagli operatori del cosiddetto terzo settore, che possono così svolgere attività dal contenuto economico e imprenditoriale, da un lato, mantenendo la propria specificità di organizzazione no-profit a dall’altro, evitando di incorrere nei pericoli della procedura fallimentare. Il risultato è stato ottenuto affiancando alle varie tipologie di imprenditore, così come definito dall’art. 2082 c.c., un nuovo tipo che si aggiunge, senza sovrapporsi, alle nozioni di imprenditore commerciale, piccolo imprenditore e imprenditore agricolo.”

[63] Ai sensi dell’art. 2 rientrano nel concetto di utilità sociale le attività di: a) assistenza sociale; b) assistenza sanitaria; c) assistenza socio-sanitaria; d) educazione, istruzione e formazione; e) tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; f) valorizzazione del patrimonio culturale; g)turismo sociale; g) turismo sociale; h) formazione universitaria e post-universitaria; i)ricerca ed erogazione dei servizi culturali; l) formazione extra-scolastica; m) servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al 70% da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale.

Non rientrano invece nell’ambito di attività dell’impresa sociale le attività degli organismi che per statuto limitino l’erogazione dei servizi ai soli soci.

[64] L’art. 3 del decreto stabilisce che gli utili e gli avanzi di gestione devono essere destinati allo svolgimento dell’attività o ad incrementi del patrimonio, con la conseguenza che è vietato distribuire utili, avanzi, fondi e riserve agli amministratori, soci, partecipanti, lavoratori, collaboratori.

Come rileva G. Bonfante, cit., pag. 930 tuttavia “il divieto di perseguire lo scopo di lucro è a maglie assai più larghe di quanto a prima vista appaia. Così per quanto riguarda i soci nulla si dice in ordine alla restituzione del capitale e soprattutto relativamente alla possibilità di rivalutazione dello stesso. Ove, in particolare, quest’ultima operazione fosse possibile (ma lo spirito del provvedimento più che il dato letterale sembrerebbe far propendere per il no) la lucratività delle società titolari di imprese sociali rientrerebbe dalla finestra attraverso la possibilità di recesso anticipato del socio. Del resto anche i limiti indiretti alla distribuzione di utili sono tutt’altro che chiaramente definiti ove si consideri che si fa riferimento a fumosi corrispettivi massimi praticati per gli amministratori del medesimo settore, con possibilità di incremento fino al 20%, e ai corrispettivi massimi per i lavoratori del settore, anche qi con possibilità di deroghe.”

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