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La Tutela del Consumatore e il diritto dei contratti

La tutela del Consumatore tra politica economica e politica sociale

Consumerism è il termine anglosassone per indicare quel movimento socio-politico volto a tutelare la tutela del consumatore. Nasce durante gli anni 30 in america dove viene fondata la prima consumer union. Nel ’40 il movimento giunge in Danimarca dove viene fondato il consiglio del consumatore. Negli anni ’60 il movimento ottiene, in America, risultati concreti quando le istanza socio-politiche diventano oggetto di atti legislativi e amministrativi rilevanti. Anche in Europa, negli anni ’70, si hanno le prime disposizioni che qualificano  il consumatore come soggetto meritevole di tutela (in generale consumatore  è colui che acquista servizi o prodotti per soddisfare necessità personali, familiari ma non professionali. In particolare in Italia, prima della produzione normativa resa obbligatoria dalla conformazione alle direttive comunitarie, l’espressione ” tutela del consumatore” era assente dal linguaggio del legislatore ed utilizzata con molta parsimonia da parte della giurisprudenza.

Alla diffusione del movimento nei vari paesi europei è corrisposta anche a livello comunitario l’esigenza di  tutelare il consumatore. La politica legislativa comunitaria fonda tale tutela su due obiettivi, uno sociale che consiste nella tutela  intesa come protezione del soggetto debole nel sistema produttivo di massa; l’altro economico in quanto la tutela del consumatore, uniforme per tutti gli stati membri , ha la funzione di garantire il buon funzionamento del mercato unico attraverso  l’eliminazione delle diversità di obblighi che le imprese hanno nei loro rapporti con i consumatori, diversità che potrebbero comportare una distorsione della concorrenza. Inizialmente la comunità giustificava l’intervento in materia di tutela del consumatore esaltando il fine economico a scapito di quello sociale, ciò perché al tempo della firma del trattato Ce l’obiettivo principale era la realizzazione dell’Europa dei mercati e non dell’Europa sociale, di conseguenza  la comunità difettava di competenza normativa.

Solo di recente è stato dato il giusto rilievo al fine sociale che sta alla base della tutela del consumatore. In particolare con il trattato di Maastricht del 1992 la politica di protezione del consumatore non è più strumentale rispetto alla tutela della concorrenza ma diventa 1 importante obiettivo sociale dell’UE. Infine con il trattato di Amsterdam il rapporto tra politica comunitaria e diritti dei consumatori viene sancito con l’art 153.

La tutela del Consumatore nelle istituzioni comunitarie

Il trattato di Roma del 1957 non attribuiva agli organi comunitari alcuna competenza specifica sulla protezione dei diritti del consumatore. Nel 1972 i  capi di stato e di governo della Ce e incaricano la Commissione di stabilire un programma a tutela del consumatore. Nel 1975 la Commissione adotta il Primo programma d’azione quinquennale intitolato “ per una politica di protezione e di informazione del consumatore” i cui obiettivi erano:

  • tutela della salute e sicurezza
  • protezione degli interessi economici del consumatore nel rapporto contrattuale  con l’imprenditore
  • diritto al risarcimento dei danni cagionati da prodotti
  • diritto all’informazione e educazione
  • diritto di consultazione e rappresentanza dei consumatori nelle sedi istituzionali.

Nel 1981 vede la luce un Secondo programma d’azione più dettagliato in cui vengono ribaditi gli obiettivi del primo. Nel 1986 la politica di tutela del consumatore trova formale collocazione nei documenti fondamentali della Comunità. L’Atto unico europeo ( 1/07/87) infatti riconosce  la competenza della comunità ad intervenire in nuovi settori quali quello ambientale e quello proprio della tutela del consumatore, e il nuovo articolo del trattato Ce 100A, inserito dall’art.18 dell’Atto unico stabilisce che “ la commissione, nelle sue proposte in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente  e protezione dei consumatori , si basa su un livello di protezione elevato”. Su tale norma hanno trovato fondamento giuridico successive iniziative rilevanti, tra cui l’adozione nel 1989 del Primo Piano D’azione Triennale che individua nelle direttive lo strumento per intervenire in tema di

  • rappresentanza delle associazioni dei consumatori nelle istituzioni e negli organismi comunitari
  • diritti di informazione
  • sicurezza dei prodotti
  • regolamentazione dei contratti stipulati tra impresa e consumatore.

Con il trattato di Maastricht del 1992  il diritto comunitario acquista in materia di consumatori e loro tutela un ruolo autonomo. L’articolo fondamentale è il 129A (ora art.153) dedicato esclusivamente alla protezione dei consumatori e che al suo primo comma riconosce alla comunità il potere di agire a sostegno ed integrazione della politica svolta dagli stati membri al fine di tutelare  salute, sicurezza e interessi economici dei consumatori e di garantire loro un’informazione adeguata. Sempre nel 1992 veniva poi emanato un Secondo Piano D’azione Triennale avente come obiettivo l’armonizzazione del diritto d’accesso alla giustizia da parte dei consumatori e delle loro associazioni.

Ora, rispetto al tema dell’accesso alla giustizia la commissione ha redatto nel 1993 il “Libro Verde” che descrive dettagliatamente lo stato delle legislazioni nazionali in materia di accesso alla giustizia sia per quanto riguarda le procedure giurisdizionali che extra giudiziarie e mette in evidenza quando le diversità nazionali ostacolino l’armonizzazione della tutela del consumatore nonostante la produzione di regole sostanziali comunitarie e nazionali uniformi. Nel 1995 viene presentato alla commissione il Terzo piano d’azione triennale in cui la politica a favore del consumatore acquista una sua autonomia rispetto al programma di sviluppo del mercato interno e mira a garantire forme di tutela nei servizi finanziari, essenziali di utilità pubblica, nelle sicurezza alimentare…  e a realizzare l’armonizzazione dell’accesso ai sistemi informativi e una disciplina del commercio elettronico per consentire al consumatore lo sfruttamento del servizi offerti dalla società dell’informazione ed infine mira a fornire assistenza ai paesi in via di sviluppo ed ai paesi dell’est Europa affinché siano in grado di realizzare una politica di tutela del consumatore.

Nel 1997 il trattato di Amsterdam prevede nell’art 153 “il contributo della comunità” a promuovere il diritto dei consumatori all’educazione e organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi. Nel Quarto Piano d’azione Triennale in materia di politica dei consumatori presentato alla Commissione nel 1998 si registra un ritorno verso gli obiettivi di natura più economica che sociale resi più urgenti dai rapidi sviluppi delle tecniche di commercio elettronico e dell’ingegneria genetica. Nel 2001 la Commissione presentava un nuovo “Libro Verde” sulla tutela dei consumatori nell’UE in cui si evidenziava la necessità di 1 intervento comunitario diretto a rafforzare la cooperazione tra autorità pubbliche di tutela dei consumatori nei diversi stati membri. L’anno successivo, 2002, viene pubblicata una Comunicazione sul seguito dato al Libro verde sulla tutela dei consumatori dell’UE, in cui la Commissione , consapevole della necessità di una riforma della legislazione europea sulla tutela dei consumatori, si è impegnata a presentare una proposta legislativa per favorire la cooperazione tra i paesi membri. Sempre del 2002 è la Risoluzione del Consiglio sulla strategia per la politica comunitaria dei consumatori , in cui si stabilisce che gli obiettivi principali dell’UE sono, per gli anni 2002-2006:

  • garantire un livello essenziale di salute e sicurezza
  • accrescere le capacità degli individui  di comprendere le politiche che li riguardano
  • stabilire un ambiente comune in tutta l’Unione che faccia sentire cittadini sicuri quando effettuano acquisti oltre frontiera
  • garantire l’integrazione degli interessi dei consumatori in tutti gli ambiti politici pertinenti dell’UE

Nel luglio del 2003 viene presentata una Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla cooperazione tra autorità nazionali per la tutela dei consumatori. Con questa la Commissione promuove la cooperazione tra le autorità pubbliche a tutela dei consumatori e l’istruzione di diritti e doveri  di reciproca assistenza che garantisca una migliore e rapida applicazione della normativa comunitaria soprattutto quando i consumatori abbiano a che fare con professionisti disonesti. In quest’ottica di  rafforzamento degli strumenti a tutela dei consumatori  si inserisce la Decisione della commissione di istituire un Gruppo consultivo europeo di consumatori la cui consultazione da parte della commissione è facoltativa.

Le aree Giuridiche interessate

Non esiste una definizione del termine consumatore però sono molteplici le situazioni cui il termine si può riferire, per esempio un consumatore può essere l’acquirente di un prodotto, la persona danneggiata, l’utente di un servizio pubblico, l’assicurato,l’investitore…. etc etc etc nelle direttive comunitarie il significato del termine cambia in funzione della situazione da disciplinare. Inoltre il termine è utilizzato in modo residuale, quando è considerato tale il non professionista , quindi colui che acquista beni e servizi per scopi non connessi all’esercizio di un’attività professionale. A precisare la nozione di consumatore sono intervenute la Corte di Giustizia e in Italia la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale. La Corte di giustizia chiamata in causa dal giudice di pace di Viadana ha affermato che “ la nozione di consumatore definita nella direttiva 93/13 sulle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, si riferisce esclusivamente alle persone fisiche” non alle persone giuridiche. La Cassazione in diverse sentenze ha confermato tale affermazione.

Anche la Corte Costituzionale chiamata ad accertare la Costituzionalità  dell’art. 1469Bis : “ nel contratto concluso tra consumatore e professionista si considerano vessatorie le clausole che ,malgrado la buonafede , comportano a carico del consumatore uno squilibrio dei diritti ed obblighi derivanti dal contratto. Il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei alla sua attività imprenditoriale o professionale. Il professionista è la persona fisica o giuridica pubblica o privata che agisce nell’ambito della propria attività imprenditoriale o professionale” la Corte Ha affermato nella sentenza n. 469/2002 che la qualità di consumatore può essere riconosciuta solo alla persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta, sono perciò esclusi piccoli imprenditori ed artigiani. Gli interventi comunitari in materia di tutela del consumatore sono di 2 tipi.

Un primo tipo è diretto alla tutela della salute del cittadino comunitario ed è rappresentato da 1 insieme di norme dirette agli stati ed alle imprese sui comportamenti che devono assumere coloro che esercitano attività eventualmente dannose o pericolose per la salute e sicurezza del cittadino. Il secondo tipo è diretto alla protezione degli interessi economici del consumatore attraverso l’armonizzazione delle regole nazionali applicabili alle relazioni giuridiche  tra persone fisiche e imprenditori. Tale intervento si estrinseca nell’emanazione di direttive che,pure indirizzandosi agli stati, attribuiscono alle persone fisiche nuovi strumenti giuridici di tutela.L’oggetto di questo secondo tipo di intervento può essere suddiviso in 4 aree:

  • area dei contratti che comprende sia norme generali che quelle applicabili alle singole figure contrattuali determinate
  • area della responsabilità civile
  • area del diritto delle assicurazioni
  • area del diritto del risparmio e dell’investimento

Le conseguenze dell’intervento comunitario in materia di contratti

L’intervento della Comunità è divenuto sempre +intenso e dettagliato tanto che si è giunti alla formazione di un vero e proprio diritto dei contratti caratterizzato da 2 elementi fondamentali quali: l’introduzione di strumenti giuridici nuovi a tutela di 1 solo dei 2 contraenti e l’introduzione di una nuova distinzione tra contratti commerciali e contratti dei consumatori, definizione fino ad ora estranea al ns ordinamento.

La nuova divisione

Nell’ambito del diritto dei contratti , secondo la dottrina, il consumatore è generalmente un contraente debole perché  meno esperto della controparte circa beni e servizi che vuole acquistare. Nell’ambito del diritto nazionale dei contratti, secondo il legislatore, i soggetti sono sempre consapevoli delle proprie azioni e quindi in grado di tutelare i propri interessi; di conseguenza lo stato interviene solo a correggere uno squilibrio nel contratto se tale squilibrio dipende da una debolezza di 1 parte. Parte intesa come individuo e non come parte + debole. Pertanto il legislatore interviene se c’è stata una situazione di abuso da parte di 1 dei contraenti, e ciò si aveva anche prima le l’Italia si conformasse al modello di tutela introdotto dalla comunità, modello che si applica a tutti i contratti tra imprenditore-professionista e persona fisica. Le direttive comunitarie in materia hanno dato vita ad 1 nuova categoria di contratti (“i contratti dei consumatori”) sconosciuta al nostro ordinamento,in cui inizia a farsi  strada la distinzione tra contratti commerciali (dei professionisti) e contratti dei consumatori.

Ragioni e limiti della tutela

Il legislatore comunitario è intervenuto nell’ambito di politica della tutela del consumatore con una disciplina speciale  dei contratti per 2 motivi, uno giuridico l’altro economico. Dal punto di vista giuridico,l’intervento è stato reso necessario dalla grand quantità di contratti di massa già predisposti dalle imprese che hanno spesso trovato impreparati giudici ed operatori giuridici. Dal punto di vista economico, la mancanza di coordinamento tra gli ordinamenti statali era causa di disparità di trattamento giuridico dei contratti stipulati dalle imprese che si traduceva in una disparità economica tra le stesse.

Limiti

Si avvicina alla figura del consumatore quella del contraente debole che emerge dal combinato disposto dagli art. del codice civile:

1341 ( condizioni generali di contratto)

1342 ( contratto concluso mediante moduli)

1370( interpretazione contro l’autore della clausola).

Le 2 figure hanno punti di contatto ma non sono identiche.

In particolare per il diritto nazionale il consumatore può essere considerato contraente debole,però anche l’imprenditore può essere un contraente debole e un consumatore può non esserlo. Le direttive comunitarie, invece,  prendono in considerazione il motivo del contratto d’acquisto ( che deve essere estraneo all’attività professionale) e non l’effettiva debolezza del soggetto per individuare il contraente debole. Ne segue che le direttive comunitarie in materia di contratto non hanno per oggetto la tutela sempre e solo del contraente debole ma la tutela del consumatore tout court, quindi il consumatore, sia imprenditore o persona fisica, potrà avvalersi di strumenti nazionale ( ex. azione di rescissione, annullamento del contratto per vizi di volontà..) purché sussistano tutti i presupposti previsti per il loro utilizzo,ma non potrà mai avvalersi di norme a tutela del consumatore. Invece , la persona fisica che abbia stipulato un contratto in qualità di consumatore, avrà sempre la possibilità di utilizzare gli strumenti comunitari a disposizione senza dover fornire la prova di essere un contraente debole.

Modalità di intervento e nuove tecniche di tutela. Norme rilevanti

L’intervento del legislatore comunitario in materia di contratti può essere di 2 tipi,verticale o orizzontale. L’intervento verticale (o settoriale ) si ha quando la direttiva riguarda un particolare contratto,per esempio la direttiva sugli acquisti in multi proprietà o sui contratti conclusi fuori dai locali di commercio. L’intervento è orizzontale quando la direttiva regolale caratteristiche generali della contrattazione indipendentemente dal tipo di contratto , esempio la direttiva sulle clausole abusive. Le direttive che realizzano interventi di tipo verticale o settoriale sono caratterizzate da regole comuni che hanno introdotto nel nostro  ordinamento delle innovazioni come per ex. il riconoscimento per il consumatore del diritto di ripensamento che funziona come diritto di recesso quando il contratto produce immediatamente i suoi effetti o come sospensione temporanea degli effetti del contratto (quando questi sono rinviati alla scadenza del termine per il ripensamento).

Inizialmente tale diritto veniva applicato a quei contratti caratterizzati dal cd “effetto sorpresa” dove era la controparte che cercava il consumatore e lo coinvolgeva spesso impreparato ( ex. contratti porta a porta). Col tempo il diritto al ripensamento è stato anche a contratti che non hanno tale effetto, come quelli di assicurazione, e dove il diritto di recesso spetta al contraente anche se è stato egli steso a recarsi nel locali dell’assicuratore. Si osserva anche che  tutte le direttive in materia introducono il cd. Diritto all’informazione inteso sia come informazione su elementi che riguardano il contratto, l ‘oggetto  e il contenuto delle obbligazioni reciproche, sia l’informazione  sui diritti che la normativa specifica riconosce al contraente e sui termini entro cui esercitarli. Infine quasi tutte le direttive , anche quelle che operano in senso orizzontale, stabiliscono nuove regole in tema di elementi essenziali del contratto, ampliando le ipotesi di invalidità o inefficacia del medesimo.

Clausole vessatorie

Le clausole vessatorie possono trovarsi in qualunque contratto a prestazioni corrispettive dove 1 parte  riesca ad imporre sull’altra la propria forza contrattuale con conseguente squilibrio tra le obbligazioni reciproche. Generalmente le clausole vessatorie si trovano nei cd. “formulari”  dei contratti per adesione o moduli predisposti da una delle 2 parti , di regola 1 imprenditore, e proposti al consumatore. Questo non può negoziare il contenuto del contratto ma accettare o no la proposta dell’imprenditore ( prendere o lasciare). Rispetto alle clausole vessatorie il legislatore è intervenuto con la direttiva 93/13 con il fine di armonizzare la disciplina delle clausole abusive in Europa  e con l’obiettivo primario  di costruire il mercato unico. Motivazioni della direttiva: la diversità delle legislazioni nazionali, le differenze tra i singoli mercati e le distorsioni della concorrenza pregiudicano la realizzazione del mercato unico.

Le caratteristiche della direttiva che consta di 11 articoli si possono riassumere così:

  • si applica solo ai contratti tra consumatori e professionisti
  • il consumatore è una qualsiasi persona fisica che agisce per fini estranei alla sua attività professionale
  • introduce una nozione di clausola abusiva sconosciuta al nostro ordinamento secondo cui tale è una clausola che non è stata oggetto di negoziato individuale e , malgrado buonafede del predisponente , determini uno squilibrio a suo favore dei diritti ed obblighi scaturenti dal contratto
  • enuncia il principio della trasparenza del contratto per cui la clausole proposte al consumatore devono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile e in caso di dubbio prevale una interpretazione a suo favore ( interpretazione contra stipulatorem)
  • l’inserzione di una clausola abusiva la rende non vincolante in conformità al principio di conservazione del contratto laddove fosse possibile
  • introduce regole della prevenzione e tutela collettiva grazie a cui le associazioni di consumatori ( e chiunque abbia interesse ) hanno diritto ad agire in giudizio per far accertare l’abusivismo di clausole contrattuali e farne cessare l’uso.
  • Fornisce, in allegato, un elenco di 17 tipiche clausole che possono dichiararsi abusive. Ciò significa che gli stati non sono obbligati a riprodurre tale elenco nella normativa nazionale purché i cittadini vengano informati in altro modo.

La direttiva è stata attuata in Italia con la lex comunitaria 52/96 non con una norma esterna al codice civile ma con l’inserimento , nel codice del titolo II del libro IV intitolato “dei contratti del consumatore” che consta di 5art dal 1496bis al 1469 sexies. Il legislatore nazio­nale è rimasto fedele al contenuto della direttiva. Si deve precisare che il nuovo sistema italiano sulle clausole vessatorie risulta composto ora da un duplice complesso di regole:

  • quelle sui contratti conclusi tra professionista e consumatore  che sono contenute nei nuovi articoli del codicequelle sui contratti tra 2 professionisti o 2 persone fisiche non professioniste, che sono le vecchie regole generali dl codice inoltre nel nuovo sistema sulle clausole vessatorie vi è una triplice classificazione di clausole:
  1. quelle che rientrano nella definizione generale contenuta nell’art 1469bis 1°c (tale è una clausola che non è stata oggetto di negoziato individuale e , malgrado buonafede del predisponente , determini uno squilibrio a suo favore dei diritti ed obblighi scaturenti dal contratto)
  2. le clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria ( lista grigia ) art 1469bis 3°c
  3. e quelle che sempre ed in ogni caso, nonostante prova contraria, sono considerate vessatorie ( lista nera) art 1469bis 2°c , come quelle dirette ad escludere o limitare: la responsabilità del professionista in caso di morte o danno al persona, le azioni del consumatore contro il professionista…etc

Il legislatore ha scelto di sanzionare la clausola abusiva con la sua inefficacia ( non di tutto il contratto ma solo della clausola), inefficacia quindi relativa che opera solo a vantaggio del consumatore ed è rilevabile anche d’ufficio dal giudice. Infine si deve notare l’introduzione nel codice civile, in attuazione dell’art 7 della direttiva di una azione inibitoria a favore delle associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti e delle camere di commercio alle quali è attribuito il diritto di convenire in giudizio l’impresa o l’associazione che utilizzi modelli contrattuali che contengono clausole abusive. Il giudice potrà inibire l’uso del formulario o delle condizioni abusive e potrà diffondere mezzo stampa la notizia sul provvedimento emanato. Nei mesi successivi all’attuazione, la Commissione  notando una non corretta trasposizione della direttiva aveva dato inizio ad una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia.

Il legislatore ha dovuto correggere le nuove disposizioni e sono state così soppresse:

  • al 1° comma dell’art 1469bis le parole “ che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi ”. La soppressione è stata imposta dalla Commissione perché tale formulazione poteva essere interpretata in modo da escludere dalla tutela i contratti non aventi ad oggetto la cessione di beni o prestazione di servizi ( ex. contratto di garanzia) . Il governo italiano  rispondeva che la dottrina nazionale interpretava la disposizione applicabile a qualsiasi operazione economica , tuttavia la Commissione ha dato precise disposizioni sulla chiarezza di significato che la norma doveva avere per soddisfare l’esigenza di certezza del diritto .
  • All’art 1469quater è stato aggiunto un secondo comma secondo cui : “ la disposizione di cui al 2°c non si applica ai casi di cui l’art 1469sexies”. Ora il2°c dell’art 1469quater sancisce che in caso di dubbio sul significato di una clausola prevale l’interpretazione + favorevole al consumatore ma non precisa ( a differenza della direttiva) che tale criterio non si applica alle procedure inibitorie nei confronti del professionista che usi clausole vessatorie, dunque mancando tale precisazione il modello italiano avrebbe potuto consentir,secondo la Commissione, al professionista convenuto in giudizio di reclamare la non vessatoreità della clausola dubbia, se interpretata nel senso + favorevole al consumatore ed evitare così la condanna ad eliminare la clausola dai suoi contratti standard.
  • Infine l’ultimo comma dell’art 1469 quinquies stabilisce che è inefficace ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione di un paese non comunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore dalla protezione assicurata dal presente capo dove il contratto presenti un collegamento + stretto con il territorio di uno stato membro.
  • Le parole “ dal presente articolo” sono sostituite “dal presente capo” . Tale modifica pone rimedio ad una svista del legislatore che con l’espressione “ dal presente articolo” permetteva che la scelta di una legislazione di un paese non comunitario , contenuta in una clausola di deroga dalla competenza giurisdizionale, fosse inefficace limitatamente a quest’articolo e non all’intero capo XVI-bis del codice.

Nonostante tali modifiche l’Italia è stata comunque condannata dalla Corte di Giustizia che ha considerato l’art 1469sexies contrastante con i principi della direttiva, in quanto l’art stabiliva che potevano essere convenuti in giudizio i professionisti che utilizzano clausole vessatorie nei propri contratti. Con la lex comunitaria del 2002 il legislatore italiano ha esteso la possibilità per le associazioni dei consumatori e le camere di commercio di agire anche contro  professionisti che “raccomandano l’utilizzo delle clausole abusive”, adeguandosi in tal modo alla direttiva

I contratti stipulati fuori dai locali di commercio

La direttiva n. 85/577 “ per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali” è stata attuata in Italia con il d.lgs.n.50 del 1992. Con questa direttiva la Comunità economica Europea muove i primi passi verso l’uniformazione del diritto privato europeo. La disciplina ha per oggetto i contratti che, predisposti da 1 imprenditore e contenuti in un modulo o formulario, vengono sottoposti a firma del contraente colto di sorpresa che per sottrarsi alla “aggressività” del proponente aderisce alla proposta senza rendersi effettivamente conto delle conseguenze derivanti dalla firma. In particolare la direttiva si applica ai contratti stipulati tra commercianti e consumatori durante una visita a domicilio, una visita sul posto di lavoro del consumatore… etc ma non si applica ai contratti stipulati per strada o in aree pubbliche. Inoltre sono esclusi  espressamente i contratti di forniture di alimenti, bevande o prodotti ad uso domestico essendo tali beni indispensabili per la vita quotidiana, oppure i contratti di assicurazione o relativi a valori mobiliari che sono già disciplinati da specifiche norme comunitarie e nazionali, così come i contratti per la vendita di beni immobili o ordinativi in base ad un catalogo.

Le principali caratteristiche  della direttiva sono:

  • il diritto di recesso , che consente al consumatore, anche dopo aver sottoscritto il contratto, di recedere entro 7 gg anche senza giusta causa ed è un diritto inderogabile ed irrinunciabile.
  • diritto all’informazione,cioè il compratore ha il diritto di richiedere le informazioni riguardanti il diritto di recesso, le sue modalità d’esercizio… e la mancanza di tali informazioni fa prolungare il termine di recesso fino a 60gg dalla stipulazione per i contratti sulla prestazione di servizi, consegna della merce,contratti sulla fornitura di beni.

Le informazioni devono essere fornite per iscritto. Oltre al d. di recesso e al d. all’informazione, altra innovazione nel nostro ordinamento riguarda la restituzione dei beni in caso di recesso. La direttiva prevedeva che gli effetti giuridici del recesso in tema di rimborso pagamenti e restituzione merci, fossero disciplinati dalle leggi nazionali. Anche il decreto di attuazione stabilisce che la merce deve essere restituita integra secondi i principi generali ma introduce la possibilità che il consumatore possa restituire la merce nonostante sia stata utilizzata. Il campo d’azione del decreto legislativo di attuazione è + ampio di quello della direttiva, infatti comprende anche i contratti stipulati in qualsiasi luogo pubblico, per strada o con il mezzo televisivo.

I contratti di viaggio

La direttiva 90/314 concernente i viaggi ed i circuiti tutto compreso è stata attuata in Italia con il d.lgs 111/95. La convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio di Bruxelles regola i rapporti giuridici che si instaurano tra i soggetti coinvolti nel contratto di viaggio e distingue il contratto di organizzazione di viaggio e quello di intermediazione di viaggio in cui sono coinvolti 3 soggetti il viaggiatore, l’intermediario e  l’organizzatore, e regola questo rapporto a 3 con uno schema giuridico che tiene conto sia degli interessi dei fruitore del servizio   sia di quelli di colui che esercita l’attività imprenditoriale. Ora  né la direttiva né il decreto disciplinano  l’attività delle agenzie di viaggio o dei promotori e degli organizzatori di viaggio ma hanno per oggetto solo la tutela del consumatore e si applicano solo alla vendita dei pacchetti turistici,cioè quei contratti che contengono un insieme di prestazioni comprendenti trasporto, alloggio ed altri servizi. Il contratto deve essere redatto in forma scritta e deve essere chiaro e preciso. Nel contratto è fondamentale l’informazione da dare al cliente la cui mancanza o inadeguatezza è sanzionata dal legislatore.

È previsto un diritto di recesso anche  se il contratto è concluso entro i locali di commercio per una variazione del prezzo che era stato stabilito. La revisione è ammessa solo se prevista dal contratto e in conseguenza di determinati avvenimenti ( variazione del costo di trasporto, carburante… etc). Solo il consumatore può recede , e ciò è ammesso anche se c’è una modifica significativa di uno o + elementi del contratto. Il consumatore ha diritto al risarcimento dei danni materiali e morali derivanti dall’inadempimento o dala cattiva esecuzione delle prestazioni oggetto del servizio “tutto Compreso”.

L’acquisto in multi proprietà

La comunità europea è intervenuta in proposito con la direttiva n. 94/47 sulla tutela dell’acquirente per alcuni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili, attuata con il d.lsg.427/98. Lo scopo della direttiva è quello di disciplinare alcuni aspetti del contratto in questione in modo da fornire 1adeguata tutela per l’acquirente, in particolare si occupa:

  • dell’informazione sugli elementi costitutivi del contratto e le modalità di trasmissione di tale informazione
  • procedure e modalità di risoluzione e recesso

Le soluzioni adottate nei paesi membri in relazione a qst aspetti dipendono dalla natura giuridica che la multiproprieta presenta nei diversi sistemi statali. In Francia, dove l’istituto è nato , il legislatore ha inquadrato la multiproprieta nello schema della società di promozione o costruzione affiancata da una società di attribuzione concepita come società immobiliare di mero godimento . La società può attribuire qualsiasi diritto di godimento, anche di natura personale ( diritto di credito nei confronti di un soggetto determinato). Nei paesi di commonlaw vige lo schema del timesharing per cui il promotore concede un diritto di uso sulle porzioni dei beni ai singoli multiproprietari in base ad un contratto che da luogo ad un rapporto personale. Il Italia lo schema adottato è quello che assicura all’acquirente un diritto reale senza escludere il ricorso ad una società nella fase di attribuzione del diritto. Secondo alcuni autori la multiproprieta può essere considerata uno sviluppo del condominio e il multiproprietario uno dei comproprietari delle singole unità; c’è chi considera la multiproprieta un nuovo diritto reale e chi la qualifica come diritto personale di godimento perché il titolare ha il diritto di godere della cosa ma non di gestirla. In considerazione delle diversità esistenti in fatto di multiproprieta tra gli stati la direttiva evita di utilizzare tale termine e parla di diritto di godimento a tempo parziale.

La direttiva contiene 3 categorie di norme a tutela dell’acquirente:

  • quelle che prevedono una dettagliata informazione da fornire all’acquirente nella fase delle trattative
  • quelle che prevedono il diritto di recesso ad nutum
  • quelle che vietano il versamento di acconti prima della scadenza del termine per l’esercizio del diritto di recesso

La direttiva però , regolando lo svolgimento dei rapporti tra le parti + che la sicurezza e la conservazione del diritto acquistato, non ha risolto il rischio in cui incorre chi acquista 1 immobile in costruzione che è quello di perdere immobile e denaro in caso di dissesto o disonestà del venditore che nel periodo di tempo tra conclusione del preliminare e stipulazione del contratto finale può gravare di oneri l’immobile o cederlo a terzi. In Italia la legge n.30 del 1997 impone la trascrizione del preliminare di compravendita di immobili. L’applicazione di tale legge potrebbe innalzare il livello di tutela per l’acquirente e si aggiungerebbe all’obbligo per il venditore di fornire una polizza fideiussoria come previsto dal decreto di attuazione con cui una compagnia di assicurazione garantisce l’adempimento del debito di un terzo e se ne assume l’obbligo in caso di insolvenza.

Contratti negoziati a distanza

Gli obiettivi della direttiva 97/7 attuata con il d.lgs.n.185 del 1999 :

  • la consolidazione del mercato interno
  • l’armonizzazione delle diverse discipline statali
  • la protezione degli acquirenti contro i metodi di vendita aggressivi
  • la tutela della concorrenza tra operatori economici.

La direttiva ha per oggetto la vendita a distanza mediante stampati, cataloghi,telefono, email,fax ,radio.. etc etc; però disciplina comunitaria e nazionale non si applicano ad una serie di contratti tassativamente individuati ( assicurazione , servizi bancari, distributori automatici… etc etc). Gli strumenti necessari e fondamentali per la realizzazione degli obiettivi fissati dalla direttiva  sono il diritto all’informazione e il diritto di recesso. Circa il diritto all’informazione si osserva che prima della conclusione del contratto il venditore deve fornire al consumatore in modo chiaro e comprensibile le informazioni preliminari come l’identità del fornitore, le caratteristiche essenziali del bene o servizio, il prezzo, le modalità di pagamento e soprattutto l’esistenza del diritto di recesso a favore del consumatore. Direttiva e decreto di attuazione prevedono che l’informazione deve essere fornita con ogni mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione impiegata purché siano osservati i principi di lealtà in materia di transazioni commerciali. Dopo il perfezionamento del contratto il venditore deve far pervenire al consumatore conferma scritta delle informazioni preliminari.

Per quanto riguarda il diritto di recesso riconosciuto al consumatore essere viene riconosciuto anche in assenza dell’ ”effetto a sorpresa” e può essere esercitato entro 3 mesi dal ricevimento della merce. L’art 13 1 comma della direttiva afferma il principio della specialità in base a cui “ le disposizioni della presente si applicano nella misura in cui non esistano nell’ambito della normativa comunitaria disposizioni particolari  che disciplinano globalmente alcuni contratti a distanza”. Con tale articolo il legislatore si è preoccupato di effettuare un coordinamento con altre disposizioni per evitare o ridurre i problemi interpretativi che la normativa può presentare, in + il 2 comma dello stesso chiarisce che se esiste una normativa comunitaria che disciplina singoli aspetti della fornitura di beni o servizi , a tali aspetti si applicherà tale normativa e non la direttiva, pure trattandosi di un contratto a distanza.

I contratti a distanza in materia di servizi finanziari

La direttiva 97/7 non prevede nulla rispetto a tali contratti. Questo vuoto è stato invece colmato con la direttiva 2002/65 che si applica solo all’accordo iniziale di servizio seguito da operazioni successive scaglionate nel tempo oppure, qualora manchi tale accordi, alla prima delle operazioni successive. Sono esclusi i contratti stipulati occasionalmente e al di fuori della struttura commerciale. La principale tutela fornita al consumatore è anche qui l’informazione che deve riguardare:

  • fornitore del servizio
  • il servizio finanziario
  • il contenuto del contratto ( esistenza o no del diritto di recesso)
  • ricorso a procedure per la risoluzione di controversie.

Le informazioni e condizioni contrattuali devono essere fornite su supporto cartaceo e durevole. Il diritto di recesso è ad nutum e senza penali; il termine previsto per l’esercizio è di 14gg  ma diventa di 30gg per i contratti di assicurazione sulla vita o aventi ad oggetti schemi pensionistici individuali. Non è invece esercitabile per ipotesi. di servizi finanziari di cui alcune sono previste tassativamente nella direttiva ( ex. contratti a termine), altri sono lasciate alla discrezionalità degli stati. Nei contratti collegati l’esercizio del recesso dal contratto principale incide sugli altri ad esso collegati. Una delle maggiori novità introdotte dalla direttiva è l’obbligo per gli stati di promuovere l’istituzione di procedure stragiudiziali di reclamo e di ricorso. Gli stati membri possono prevedere inoltre che l’onere della prova sull’ottemperanza da parte del fornitore dell’obbligo di informazione e sul consenso del consumatore alla conclusione del contratto sia posto a carico del fornitore, una clausola che pone a carico del consumatore l’onere della prova è da considerarsi abusiva.

La garanzia dei prodotti venduti (garanzie post-vendita)

Direttiva 99/44 sulla garanzia nelle vendite di beni di consumo attuata dal d.lgs.n.24 del 2002  che ha introdotto nella sezione 2 del libro 4 il paragrafo 1bis sulla vendita dei beni di consumo e contenente gli articoli dal 1519bis al 1519nonies.Lo scopo della direttiva è quello di tutelare i consumatori comunitari  contro eventuali difetti dei prodotti comprati, per questo si prevedono 2 tipi di garanzie:

è  legale: quella prevista dalla legge in relazione ai difetti della merce comprata ed assolutamente inderogabile dalle parti. Oggetto della garanzia sono tutti i beni mobili di consumo esclusi quelli venduti in seguito ad un procedimento di vendita forzata da parte dell’autorità giudiziaria, acqua e gas se non confezionati in u volume delimitato ed energia elettrica.

è  Commerciale: predisposta dal venditore che attraverso la descrizione precisa dell’oggetto della garanzia  e degli elementi essenziali per farla valere si  fa carico di una responsabilità verso l’acquirente.

Il decreto di attuazione amplia il campo di azione della direttiva comprendendo nella disciplina oltre la compravendita, i contratti di permuta, somministrazione, opera ed appalto. La garanzia opera nel momento in cui il bene non è conforme al contratto di vendita, in particolare quando non rispondono alla descrizione fatta dal venditore, non sono adatti agli impieghi per cui sono utilizzati i beni dello stesso tipo, non sono adatti all’impiego previsto dal consumatore se era stato reso noto al venditore al momento della stipulazione del contratto e da questi accettato, non presentano le qualità e prestazioni abituali propri della natura di quei beni, dalle dichiarazioni pubbliche rilasciate dal venditore o produttore. Una importante differenza rispetto al modello generale e legale di garanzia del venditore è la distinzione dei rimedi a seconda del momento in cui il difetto si verifica e dal diverso onere probatorio. Se il difetto si manifesta entro 2 anni dalla consegna il consumatore può chiedere la riparazione o la sostituzione del prodotto senza spese; se questi rimedi non possono attuarsi il consumatore ha diritto di chiedere la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Inoltre se il difetti si manifesta entro 6mesi dalla consegna del bene si presume, salvo prova contraria, che il difetto esistesse già al momento della consegna e in questo caso l’onere della prova spetta al consumatore.

Il legislatore italiano avvalendosi di una facoltà concessa dalla direttiva ha previsto un termine di 2 mesi dalla scoperta entro il quale il consumatore deve denunciare il difetto al venditore , a meno che questi non lo abbia riconosciuto ed occultato, ed un termine di 26 mesi dalla consegna del bene entro cui il consumatore può far valere i suoi diritti. Comunque potrà esercitarli anche dopo la scadenza del termine se sia convenuto in giudizio dal venditore per l’esecuzione del contratto e purché abbia denunciato il difetto entro 2 mesi dalla scoperta e 26 dalla consegna. La tutela ha carattere imperativo e inderogabile, la  nullità dei patti voluti ad escludere o limitare i diritti del consumatore, oltre che su istanza di parte può essere dichiarata d’ufficio dal giudice.

Il commercio elettronico

La direttiva 2000/31 disciplina alcuni aspetti del commercio elettronico ed è stata attuata con il d.lgs.n.70/2003. Il commercio elettronico è un fenomeno economico in rapida evoluzione e probabilmente per questo la direttiva ha avuto come obiettivo una armonizzazione minima. La direttiva si compone di 24 articoli e 2 allegati in cui si obbligano gli stati membri di realizzare con una legislazione adeguata il riconoscimento e la validità ed efficacia dei contratti conclusi per via elettronica; ciò per ottenere la fiducia di imprese e consumatori e per far si che il mercato comunitario rimanga competitivo al livello internazionale. La direttiva dunque si dirige non solo ai contratti in cui sia parte un consumatore ma anche a quelli business to business. Uno dei principi fondamentali della direttiva è quello contenuto nell’art. 4 che permette a qualunque operatore di commerciare con strumenti elettronici in tutti gli stati membri senza la necessità di adeguarsi alle normative di ciascuno stati in applicazione del principio dell’ home country control. La direttiva non impone alle imprese particolari obblighi se non quelli legali di informazione che l’operatore commerciale deve fornire nel momento in cui si presenta nel mercato e che riguardano le proprie generalità , sede… etc etc. Infine l’art. 9 permette agli stati membri di escludere la possibilità di stipulare validi ed efficaci contratti elettronici in caso di contratti che richiedono l’intervento di notaio, contratti di famiglia ed in ambito successorio.

La firma elettronica

La direttiva 99/93 si compone di 15 articoli di cui i + importanti sono :

  • l’art 5 che prevede l’obbligo  per gli stati membri di adottare sistemi che equiparino la firma elettronica alla firma autografa e che consentano che la firma elettronica sia ammessa come prova in giudizio
  • l’articolo 6 sulla responsabilità del certificatore
  • l’articolo 8 sulla protezione dei dati.

Anteriormente alla direttiva, l’Italia si era già mossa in materia di firma elettronica. Ricordiamo infatti il DPR n. 153 che disciplina i requisiti perché un documento elettronico possa essere considerato valido al pari di uno cartaceo.

La direttiva sull’azione inibitoria e i nuovi sistemi di tutela

La direttiva 98/27 sull’azione inibitoria mira ad armonizzare regole nazionali in materia di esercizio di azioni inibitorie. Consta di 10 articoli e contiene all’art. 1 il rinvio ad un elenco di direttive la cui violazione legittima l’esercizio dell’azione inibitoria. Tale elenco è costituito dalla direttiva sulla pubblicità ingannevole, quella dei contratti negoziati fuori dai locali di commercio, quella sul credito al consumo, quella sull’attività televisiva, sulla pubblicità dei medicinali, sui viaggi tutto compreso, sulle clausole abusive, sulla tutela dell’acquirente di 1 immobile in multiproprieta e sui contratti a distanza. La norma comunitaria non prevede un diritto d’azione a carattere generale ma un diritto che deve essere riconosciuto nelle fattispecie considerate nell’allegato alla direttiva ( esempio di armonizzazione minima). La direttiva è stata attuata con il d.lgs n 224 del 2001 anche se la lex nazionale n. 281 del 30/07/98 , emanata casualmente pochi giorni dopo l’approvazione della direttiva , ha un contenuto che non si discosta da quello della direttiva stessa, infatti il decreto di attuazione si limita ad integrare il significato della suddetta legge.

La responsabilità del produttore

La responsabilità del produttore nei paesi membri prima della direttiva del 1985

Anteriormente alla direttiva comunitaria sulla responsabilità del produttore nessuno stato ha avuto una specifica normativa in materia, ma ognuno di essi ha elaborato un proprio modello servendosi delle norme generali sulla responsabilità. In Italia  in particolare la dottrina e la giurisprudenza si sono mosse tra  una responsabilità per colpa ( fondata sull’art 2043:  qualunque fatto doloso o colposo che provochi un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno)  e una responsabilità oggettiva ( art 2049 -50-51).

Lo schema della responsabilità per colpa però  presenta un grosso limite che aggrava la posizione processuale del danneggiato  perché oltre a dover provare danno, nesso tra atto ed evento  ed ingiustizia del danno deve anche provare la colpa del produttore che non sempre è compito facile. Consapevole di tale limite parte della dottrina e della giurisprudenza ha cercato di superarlo con una presunzione di colpevolezza a carico del produttore derivante dall’aver prodotto e messo in circolazione un prodotto che può essere fonte di danno e liberando il consumatore da ogni onere probatorio circa la colpa del produttore. Invece l’altra parte della giurisprudenza utilizza un gruppo di norme oggettive che sancisce una responsabilità oggettiva e che è costituito:

  • dall’art 2049 sulla responsabilità dei padroni e committenti che non possono fornire prova liberatoria
  • dall’art 2050 sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose da cui il danneggiante può liberarsi dimostrando di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno
  • dall’art 2051 sul danno provocato da cose date in custodia la cui responsabilità può essere evitata dimostrando il caso fortuito.

 

  • In Francia la responsabilità del produttore si è sviluppata utilizzando un modello di responsabilità contrattuale.

Nel modello francese vige il divieto di cumulo tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per il quale quest’ultima non può essere invocata da chi, in virtù di un rapporto giuridico di natura contrattuale, ha titolo di esercitare un’azione di responsabilità contrattuale. Infatti, la giurisprudenza ha fatto ricordo all’art 1641 del code civil che prevede la responsabilità del venditore per i vizi della cosa sconosciuti all’acquirente che la rendono inadatta all’uso cui è destinata. Tale sistema però è complesso perché caratterizzato da una richiesta di risarcimento che il danneggiato rivolge al contraente-venditore, il quale dovrebbe rivolgersi alla sua controparte ( ex. il distributore) che a sua volta dovrebbe rifarsi sul produttore. Per semplificare il tutto la giurisprudenza introduce un’action directe a favore dell’acquirente finale nel confronti del venditore originario. Lo schema analizzato configura una forma di responsabilità oggettiva in cui il danneggiato non deve fornire prova della colpa del convenuto.

  • In Germania, tanto nell’azione contrattuale quando extracontrattuale i giudici hanno sempre favorito il consumatore danneggiato.

Infatti  il danneggiato acquirente che agisca con l’azione aquiliana, è tenuto secondo i principi generali dell’ordinamento tedesco a provare non solo i difetti del prodotto e il nesso tra difetto ed evento ma anche la colpa del produttore. La giurisprudenza tedesca, per tutelare l’acquirente danneggiato, ha invertito l’onere della prova, cioè il produttore deve dimostrare l’assenza della colpa nella progettazione e fabbricazione del prodotto. Il danneggiato che agisca con l’azione contrattuale deve provare solo il nesso di causalità, quindi spetta al produttore dimostrare l’assenza della colpa.

  • In commonlaw la giurisprudenza ritiene debba sussistere una colpa in capo al fabbricante per considerarlo responsabile del danno.

Il danneggiato dovrà dimostrare il danno e il nesso di causalità tra il prodotto e il danno affinché scatti la presunzione di colpevolezza del produttore, rispetto alla  quale è ammessa la prova contraria. Perciò nell’ordinamento inglese il produttore che ha messo in circolazione il prodotto difettoso può liberarsi dalla responsabilità dimostrando di aver usato la necessaria diligenza nella progettazione e fabbricazione del bene.

Gli obiettivi della direttiva sulla responsabilità del produttore

Il legislatore comunitario è intervenuto in materia di responsabilità del produttore con la direttiva 85/374 al fine di unificare i crediti di responsabilità per i danni causati dal prodotto e favorire la formazione di un sistema uniforme per tutti i paesi membri, tale da assicurare la libera concorrenza tra le imprese del mercato unico. I risultati cui la direttiva è approdata sembrano soddisfare + le esigenze e interessi degli imprenditori che quelle dei consumatori perché fissa  criteri uniformi che, superando le diversità tra gli stati membri, hanno dato vita ad un nuovo modello comunitario di responsabilità del produttore che, essendo frutto di una mediazione tra le diverse soluzioni nazionali, può risultare + o meno garantista a seconda del grado di tutela che i diversi sistemi nazionali prevedevano a favore del consumatore. Altra caratteristica della direttiva è quella di limitare la responsabilità del produttore ed introdurre una serie di ipotesi in cui è esclusa la responsabilità del fabbricante. Perciò si presume che gli autori della direttiva nell’elaborare un modello unico di responsabilità del produttore siano stati condizionati + dalle esigenze del mondo imprenditoriale che non dalle aspettative dei consumatori danneggiati. Ciò ha portato il legislatore comunitario ad inserire nella direttiva alcuni correttivi alla responsabilità del produttore che hanno determinato in certi casi 1 abbassamento della soglia di protezione rispetto alle soluzioni che giurisprudenza e dottrina di alcuni paesi avevano elaborato negli anni. Ex. il progetto del 1976, rispetto alla direttiva, prevedeva un modello di responsabilità del produttore + rigido con solo 2 ipotesi di esclusione della stessa: se il produttore non avesse messo in circolazione il prodotto e se il difetto, al momento della messa in circolazione del prodotto non esisteva.

Alcune caratteristiche della disciplina comunitaria

a) l’ambito di applicazione

L’art 1 della direttiva 374/85 afferma che “il produttore è responsabile per il danno causato da un difetto del suo prodotto”. L’art 2 definiva prodotto : ogni bene mobile anche se parte di altro mobile o immobile, ad eccezione dei prodotto agricoli naturali ( suolo , pesca, allevamento ) che non abbiano subito una prima trasformazione. La direttiva 99/34 del 1999 ha introdotto una importante innovazione includendo anche questi ultimi beni. La nozione di produttore comprende :

  • il fabbricante del prodotto finito
  • il produttore di materia prima
  • il produttore di 1 componente
  • per i prodotti agricoli, l’agricoltore, allevatore, il pescatore ed il cacciatore
  • colui che appone il proprio nome marchio o segno distintivo
  • l’importatore nella Comunità europea
  • il fornitore del prodotto che è equiparato al produttore  tutte le volte in cui non è possibile risalire al fabbricante o non fornisca al danneggiato i dati necessario ad identificarlo.

Per quanto riguarda i requisiti del difetto l’articolo 6 della direttiva definisce difettoso un prodotto che non offre la sicurezza che ci si può attendere tenuto conto di tutte le circostanze tra cui:

  • presentazione del prodotto
  • uso cui è destinato
  • momento della messa in circolazione

Il secondo comma dello stesso articolo stabilisce che un prodotto non può essere considerato difettoso solo perché uno + perfezionato è stato messo in circolazione successivamente ad esso.

b) danno risarcibile

L’articolo 9 della direttiva definisce risarcibile:

  • danno a cose diverse dal prodotto difettoso, al quale va detratta una franchigia di 500 euro

Precisamente il danno alle cose è risarcibile se è stato causato dal prodotto utilizzato nell’ambito del consumo privato e secondo la funzione cui è destinato, pertanto non è risarcibile il danno causato a chiunque abbia acquistati il bene per rivenderlo o utilizzarlo nella propria attività professionale

  • danno alla persona ( morte o lesioni personali) per il quale non valgono le limitazioni suddette.

Circa la risarcibilità del danno morale la direttiva lascia che gli stati membri continuino ad applicare le proprie regole.

c) onere della prova

L’art.1 della direttiva afferma che “ il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto” e pone a carico del danneggiato l’onere di provare il danno, il difetto, e il nesso di causalità. Sembra quindi emergere una forma di responsabilità oggettiva svincolata dalla prova della colpa. In realtà non è così perché la responsabilità oggettiva è quella per la quale il soggetto è ritenuto responsabile ed è privo della possibilità di fornire una prova liberatoria ( ex. rischio d’impresa art 2049 cc) invece l’articolo 7 della direttiva elenca gli elementi che il produttore deve fornire e che , se provati, possono liberarlo dall’obbligo di risarcire il danno. Ciò potrebbe tradursi in 1inversione dell’onere della prova perché di fronte al danno, una volta provato il nesso di causalità  e il difetto, il responsabile può sottrarsi al risarcimento dimostrando la presenza delle cause di esclusione della responsabilità previste dall’articolo.

d) cause di esclusione della responsabilità

a norma dell’art 7 della direttiva: “ il produttore non è responsabile ai sensi della direttiva se prova:

  1. a) che non ha messo il prodotto in circolazione
  2. b) che, tenuto conto delle circostanze, è lecito ritenere che il difetto che ha causato il difetto non esisteva al momento della messa in circolazione o sia sorto dopo

            c)che non ha fabbricato o distribuito il prodotto a scopo economico o nel quadro della sua attività professionale

  1. d) che il difetto è dovuto alla conformità del prodotto o a regole imperative emanate dei poteri pubblici
  2. e) che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento della messa in circolazione del prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto
  3. f) nel caso del produttore di una componente, che il difetto è dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o alle istruzioni date al produttore dei prodotto.

Particolare attenzione necessitano le lettere  b – d – e

la formulazione della lettera b)  fa sì che la responsabilità sia esclusa  per la mancanza del nesso di causalità tra produzione e difetto e senza che il produttore fornisce prova effettiva di tale mancanza poiché secondo tale formulazione  sarà sufficiente che tenuto conto delle circostanze, il difetto che ha causato il difetto non esisteva al momento della messa in circolazione o sia sorto dopo. In tal modo l’analisi da parte del giudice ha per oggetto la condotta del produttore e non gli elementi oggettivi, con la conseguenza  che per ottenere il risarcimento spetterà al danneggiato l’onere di provare l’esistenza del difetto. In questo caso la responsabilità del produttore non è oggettiva e l’inversione dell’onere della prova opera parzialmente perché l’imprenditore non deve fornire prova contraria ma per dimostrare che “tenuto conto delle circostanza… il difetto non esisteva…”dovrà provare di aver adottato tutte le norme di diligenza e precauzioni necessarie.

La responsabilità del produttore tende così a divenire una responsabilità per colpa anche nella lettera d) : oggetto dell’analisi del giudice è la condotta del produttore che non risponde del danno se  dimostra che il prodotto, sebbene difettoso, è conforme alle regole imperative emanate dai poteri pubblici… mala causa di esclusione di responsabilità che + ha fatto discutere è quella contenuta nella lettera e)  che nasce da un combinato tra il modello francese e quello inglese. In particolare la lettera e , prevedendo che  il produttore non risponde quando “lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento della messa in circolazione del prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto “ applica il principio tipico della tradizione giuridica del commolaw del development risk defence  “eccezione del rischio di sviluppo” a cui si sono fortemente opposti i giuristi francesi preoccupati dal rischio di vedere vanificati gli sforzi dei proprio giuristi nell’elaborazione del modello di responsabilità oggettiva. La lettera e) offre insieme all’art 6  lettere a-b-c ,la definizione di difetto , così un prodotto è difettoso  se non offre la sicurezza che il consumatore poteva aspettarsi tenuto conto della presentazione del prodotto , uso a cui era destinato nel momento della sua messa in circolazione e dello stato di conoscenze scientifiche e tecniche al momento della messa in circolazione.

Sulla base di tali osservazioni si evince che il modello comunitario è inclinato + verso una responsabilità per colpa che oggettiva. Questa precisazione consente di  comprendere il significato dell’articolo 15 c. 1° lett b) che concede una deroga agli stati membri ( fortemente voluta dalla Francia) che in sede di attuazione potranno prevedere ( o mantenere)  nella propria legislazione che il produttore sia responsabile del danno, contrariamente a quanto previsto dalla lettera e) art 7, anche se si dovesse provare che lo stato di conoscenze tecnico-scientifiche non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto. Ovviamente tale deroga comporta una diversificazione delle legislazioni nazionale di attuazione su uno degli aspetti + importanti in materia che riduce l’efficacia armonizzatrice della direttiva.

La legge italiana di attuazione della direttiva e il suo rapporto con le regole codicistiche.

Il nostro ordinamento ha dato attuazione alla direttiva 374/85 con il  d.p.r.n.224 mediante una norma speciale , esterna al codice civile che lascia inalterato l’articolo 2043. è necessario però stabilire il tipo di rapporto che c’è tra la norma di recezione e il codice civile in materia di responsabilità dl produttore. A proposito si osserva che  l’art 13 della direttiva consente di derogare alla disciplina specifica quando nell’ordinamento nazionale esiste una disciplina + favorevole al danneggiato. In nostro legislatore ha dato attuazione a tale articolo con l’art 15 in base al quale “ le disposizioni del presente decreto non escludono né limitano i diritti attribuiti al danneggiato da altre leggi”. Ora , 3 sono le interpretazioni elaborate attorno al significato dell’art 13:

Coloro che ritengono necessario preservare il ruolo centrale che le regole nazionali svolgono in tema di diritti del danneggiato parzialmente compromessi dalla direttiva

Coloro che ritengono la soluzione comunitaria soddisfacente e sufficientemente garantista nei confronti del consumatore.

La prima interpretazione ,per la quale il diritto nazionale più favorevole al consumatore dovrebbe prevalere sul decreto di attuazione,ostacolerebbe  però il riavvicinamento delle legislazioni nazionali e manterrebbe in vita quella disparità di trattamento tra imprenditori che agiscono in stati differenti, che il legislatore comunitario ha voluto eliminare con l’emanazione della direttiva. Per questa ragione c’è chi propone di considerare la relazione tra norme nazionali di attuazione e le altre leggi come un rapporto tra diritto comune e diritto speciale, dove il diritto comune del danno da prodotti è rappresentato dalla direttiva e dal decreto di attuazione che potrà essere disapplicato solo in presenza di norme speciali che si discostano da esso “ in relazione a particolari categorie di produttori o prodotti o consumatori”. Altri ritengono invece che le 2 diverse normative possano coesistere mantenendo ciascuna le proprie caratteristiche e garantendo un concorso di azioni che consenta al danneggiato di scegliere il rimedio + adeguato alle sue esigenze. Ognuna delle 3 interpretazioni si basa su argomentazioni condivisibili ma nessuno offre una soluzione in sintonia con l’obiettivo della direttiva, ciò perché  è l’art 13 stesso  a non essere in sintonia con gli obiettivi della direttiva  ma questo è il prezzo che si è disposti a pagare affinché gli stati membri che non hanno intenzione di modificare le proprie regole giuridiche diano il proprio ok al progetto di uniformazione, l’alternativa sarebbe abbandonare il progetto. Comunque nel 2002  la corte di Giustizia ha cercato di risolvere i dubbi interpretativi sull’art 13 stabilendo che “ l’articolo della direttiva va interpretato nel senso che i diritti attribuiti dalla normativa di uno stato membro al danneggiato, in forza di un regime generale di responsabilità basato sullo stesso fondamento della direttiva, possono essere limitati o ristretti in seguito al recepimento della direttiva nell’ordinamento interno dello stato”. Tale interpretazione però ha suscitato reazioni negative da parte di chi considera la direttiva scarsamente garantista nel confronti del consumatore, e lo stesso Consiglio europeo nel 2002 ha adottato una risoluzione in cui segnala l’opportunità di verificare la necessità di modifiche alla direttiva stessa.

L’attuazione della direttiva nei paesi membri.

La direttiva sulla responsabilità del produttore ha presentato numerose difficoltà sia a livello di armonizzazione che di attuazione, dovute alla scarsa propensione degli stati membri a modificare la propria tradizione giuridica, che il legislatore ha pensato di superare concedendo deroghe e prevedendo una formulazione ampia di alcune norme di armonizzazione. Tale soluzione però serve solo ad ottenere il consenso degli stati ma non ad armonizzare i diritti. Inoltre la direttiva ha , in alcuni casi,  aggravato la posizione del danneggiato per delimitare meglio l’area di responsabilità del produttore, un esempio di norma che ha consentito di conformare la lex di attuazione + al proprio modello di responsabilità che non a quello configurato nella direttiva è l’art. 6 , infatti sulla base della definizione di difetto contenuta in tale articolo, alcune leggi di attuazione hanno elaborato un modello di responsabilità oggettiva, altre uno di presunzione di colpa. Per ex. la legge inglese di attuazione nel definire la nozione di difetto riproduce la parte iniziale della nozione comunitaria a cui aggiunge un elenco di circostanze che prendono in considerazione il comportamento del produttore da un punto di vista soggettivo. La norma inglese tiene infatti conto del modo in cui il prodotto è stato commercializzato , delle avvertenze, delle istruzioni d’uso… ; la legge tedesca invece non fa riferimento alla condotta dell’imprenditore ma valuta in modo oggettivo la corrispondenza tra quanto promesso e ciò che viene dato al consumatore; in Italia la soluzione si pone in una via di mezzo tra i 2 modelli precedenti.

La scarsa propensione degli ordinamenti nazionale ad uniformarsi alla direttiva sacrificando la propria tradizione giuridica e prassi è + evidente nell’analisi delle cause di esclusione di responsabilità dell’art 7 della direttiva. In particolare circa il rischio di sviluppo espresso nella lettera e) dell’art. 7 la legge inglese di attuazione afferma che il produttore non è responsabile del rischio dello sviluppo ma richiede anche che il giudice, nella sua valutazione, tenga conto di ciò che normalmente fanno gli altri produttori di un bene analogo. Ciò significa porre l’accento sul comportamento che il produttore ha tenuto nel produrre quel determinato bene, e non sul difetto in sé della cosa. La recente legge francese di attuazione addossa al danneggiato il rischio di sviluppo. Germania federale e Italia sono rimaste fedeli alla direttiva perché la soluzione comunitaria era già vicina a quella nazionale. Le rispettive norme di attuazione si pongono in una situazione intermedia tra il modello francese e quello inglese, il rischio di sviluppo viene così addossato al danneggiato ma non c’è riferimento al comportamento del produttore. Dal quadro appena analizzato risulta che gli stati membri hanno attuato la direttiva interpretando disposizioni dal significato non univoco secondo il proprio modello giuridico e si sono avvalsi delle deroghe riconosciute dalla direttiva per dar spazio al proprio modello giuridico. Dunque la direttiva comunitaria non è riuscita a garantire un grado di protezione del consumatore uguale in tutti quei paesi che avevano modelli collaudati ma diversi di responsabilità.

La direttiva sulla sicurezza dei prodotti

La direttiva 2001/95 del parlamento europeo e del consiglio relativa alla sicurezza generale dei prodotti, abroga la precedente direttiva. Si applica a tutti i  prodotti a prescindere dalle tecniche di vendita. Per prodotto si intende qualsiasi bene destinato ad essere utilizzato dai consumatori , con esclusione espressa dei prodotti forniti come pezzi d’antiquariato o da riparare ,purché il fornitore informi chiaramente l’acquirente. Per prodotto sicuro si intende un prodotto che , in conduzioni d’uso normali o prevedibili, non presenta rischi alcuni o minimi compatibili con il suo impiego. Per produttore si intende sia il fabbricante sia qualsiasi altra persona che appone il nome, marchio o segno distintivo sul prodotto, il rappresentante del fabbricante e se manca l’importatore o il distributore che ha l’obbligo di fornire prodotti sicuri, di controllare costantemente la sicurezza dei prodotto immessi sul mercato. La direttiva, inapplicabile a tutti i prodotti quindi, opera in senso orizzontale e ha dato modo agli stati membri di porre a carico del produttore che violi gli obblighi e i doveri di sicurezza stabiliti, una sanzione penale o amministrativa a seconda del caso. Per garantire un buon grado di tutela al consumatore, la direttiva prevede l’istituzione di organismi nazionali , di ordine pubblico, aventi il compito di controllare la sicurezza dei prodotti, inoltre per garantire un efficace controllo nazionale e comunitario ha introdotto un sistema rapido di sorveglianza denominato RAPEX con la funzione di coordinare e potenziare l’intervento delle autorità di controllo nazionali.

La proposta di direttiva sulla responsabilità del prestatore di servizi

Nel 1990 la commissione ha presentato al consiglia una proposta di direttiva sulla responsabilità del prestatore di servizi, inteso come servizio ogni prestazione eseguita a titolo professionale o di servizio pubblico, a titolo oneroso o gratuito , il cui oggetto non sia la fabbricazione di beni o il trasferimento di diritto reali o intellettuali. La proposta prevedeva una responsabilità basata sulla colpa con l’inversione dell’onere della prova a carico del prestatore di servizi con il fine di eliminare ostacoli agli scambi e condizioni diseguali nel mercato interno dei servizi e garantire il medesimo livello di tutela dei danneggiati e consumatori contro tutti i danno causati alla loro persona, loro mobili ed immobili. In seguito all’opposizione del comitato economico e sociale e dei diversi settori professionali, nel 94 la commissione trasmetteva al consiglio una comunicazione che esponeva nuovi orientamenti in materia. Il punto + interessante riguardava la possibilità di scegliere uno dei 3 seguenti modelli:

  • responsabilità per colpa con inversione dell’onere della prova a carico dell’imprenditore o professionista
  • nel caso di obbligazioni di mezzi, una responsabilità per colpa; nel caso di obbligazioni di risultato una responsabilità oggettiva
  • una responsabilità per colpa con l’inversione dell’onere della prova ma con la dimostrazione da parte del consumatore del difetto del servizio prestato.

Al  di là di questa nuova prospettiva la commissione ha istituito un nuovo gruppo di lavoro  in vista di una nuova proposta basata su un + ampio consenso.

La disciplina della concorrenza

Origini e ragioni dell’antitrust

Il modello di regolamentazione della concorrenza ha origine negli stati uniti d’America. Con il termine antitrust si indica quel complesso di regole usate per reprimere atti lesivi della concorrenza che le grandi imprese compivano servendosi del trust, istituto di commolaw.

Fonti comunitarie per la regolamentazione della concorrenza

Il Trattato di Roma proclama il  principio della garanzia e tutela della concorrenza e fornisce un insieme di strumenti per impedire o reprimere gli atti lesivi della concorrenza, strumenti previsti:

  1. a) innanzitutto dal trattato Ce: gli articoli fondamentali sono l’articolo 81 sugli accordi e pratiche concordate dalle imprese; l’art 86 sullo sfruttamento di una posizione dominante sul mercato e l’art. 87 sugli aiuti e sovvenzioni degli stati membri alle proprie imprese.

Questi articoli individuano le 3 fattispecie rilevanti per la tutela della concorrenza b) dai regolamenti del Consiglio e della Commissione Fonti comunitarie della disciplina della concorrenza sono ancora i c) provvedimenti e prassi della commissione e d) e sentenze della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado

Da queste 4 fonti emerge un modello di tutela della concorrenza nella Comunità Europea, che prevede la distinzione tra atti lesivi della concorrenza posti in essere da soggetti privati e atti degli stati stessi. Questo modello si basa sul cd. “ SISTEMA DEL DIVIETO” per il quale ogni comportamento restrittivo della concorrenza è da considerare sempre vietato ferma restando la possibilità di concedere delle deroghe che nel gergo comune si chiamano esenzioni /accanto a questo sistema vi è anche quello di controllo per il quale ogni comportamento, anche se lesivo della concorrenza ,è considerato lecito finché non espressamente vietato) il sistema accolto dalla comunità ( del divieto) emerge dall’art. 81 del trattato Ce sugli accordi restrittivi della concorrenza.

Le competenze della commissione

In materia di antitrust la Commissione accerta, anche d’ufficio, le violazioni compiute, le previene o le fa cessare. In particolare la Commissiona apre una prima fase istruttoria in cui accerta le violazioni e che può chiudersi con 1 attestazione negativa, con una decisione di esenzione o con una pronuncia di condanna inibitoria. Dopo la fase istruttoria e qualora l’infrazione sia stata accertata la Commissione rivolge all’impresa una raccomandazione diretta a far cessare l’atto lesivo della concorrenza. Se la raccomandazione non è raccolta, la commissione indirizza all’impresa una decisione in cui le intima formalmente a porre fine all’infrazione. Se l’impresa non adempio all’obbligo impostole dalla Commissione, lo stato in cui l’impresa ha sede deve adottare le misure necessario per indurla a rimediare alla violazione.

Se lo stato membro non interviene , la commissione instaura la cd. Procedura di infrazione dinnanzi alla Corte di giustizia.

Le sanzioni che la commissione può adottare al termine della fase di istruttoria sono: la nullità dell’accordo o della clausola singola, l’obbligo di rimuovere la situazione vietata, ammenda da 1000 a 10mila euro, mora per il ritardo nell’esecuzione alle prescrizioni della commissione.

La fattispecie: gli accordi tra imprese

Ll’art. 81 comma 1 stabilisce che “sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, decisioni di associazioni di imprese e pratiche concordate pregiudizievoli per il commercio tra stati membri, aventi ad oggetto o per effetto quello di impedire o restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”. Le fattispecie considerate hanno in comune il fatto di essere poste in essere da almeno 2 soggetti giuridicamente ed economicamente distinti e dotati di autonomia decisionale propria. Inoltra il soggetto considerato è definito impresa o associazione di imprese perché con tali espressioni si fa riferimento ad ogni tipo e specie di soggetto economico avente fine di lucro o no, sia esso una società, groppo, associazione, persona fisica. Per quanto riguarda le nozioni di accordo tra imprese o di pratiche concordate e di decisioni di associazioni d’impresa c’è da dire che mentre  quest’ultima non pone particolari dubbi , i termini accordi e pratiche concordate vanno intesi in senso ampio comprendendovi non solo i contratti stipulati con lo scopo di regolare l’azione delle parti nel mercato ma anche i vincoli economici creati tra 2 imprese. Un esempio di accordo anti concorrenziale può essere quello diretto a fissare i prezzi d’acquisto, vendita o altre condizioni di transazione non eque, o quello di limitare o controllare la produzione… etc etc. comunque tali accordi “ anti concorrenziali “ sono vietati se esplicano i loro effetti all’interno del mercato comune; se invece si producono solo a livello nazionale saranno le autorità nazionali a dover intervenire con le proprie regole nazionali in tema di atti lesivi della concorrenza interna. A questo proposito la Corte di Giustizia ha precisato che sono vietati anche gli accordi lesivi della concorrenza interna di un singolo stato se producono effetti sugli scambi con i paesi membri. Gli accordi sono vietati anche se non producono effetti concreti; essi violano il Trattato anche se non prevedono sanzioni per il loro mancato rispetto; un accordo esiste anche se successivamente l’impresa non vi abbia dato esecuzione.

Le esenzioni

il 3 paragrafo dell’art 81 Trattato Ce stabilisce che in alcune circostanze, accordi potenzialmente lesivi della concorrenza sono considerati ammissibili se in grado di migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico. Fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento 1/2003, il Regolamento 17/62 prevedeva che solo la Commissione potesse concedere deroghe definite  esenzioni individuali in quanto concesse di volta in volta su richiesta delle parti dopo l’esame di tutti gli elementi dell’accordo da parte della commissione stessa. Le esenzioni potevano essere concesse per un periodo determinato e rinnovate su istanza di parte. Il rilascio di una esenzione poteva essere accompagnato da obblighi imposti alle parti.

Oggi il sistema è mutato completamente infatti non serve l’autorizzazione necessaria e preventiva della Commissione , l’esenzione è automatica ma, nel caso in cui non dovessero sussistere i presupposti per non applicare il divieto ad un accordo lesivo della concorrenza, la commissione e le autorità nazionali potranno agire per farne dichiarare la nullità. Il nuovo modello inoltre elimina la competenza esclusiva della Commissione in materia di accordi ed esenzioni e coinvolge nell’attività di controllo le autorità giurisdizionali nazionale. Il nuovo regolamento mantiene però le esenzioni per categoria, figura elaborata per risolvere il problema delle numerose domande di esenzioni individuali che venivano presentate alla commissione paralizzandone l’attività. Il consiglio infatti incaricò la commissione, per risolvere il problema, di predisporre alcuni regolamenti in cui individuare le fattispecie tipiche.

Le attestazioni negative

Da non confondere con l’esenzione individuale è la attestazione negativa riconfermata nel nuovo regolamento col termine di “ constatazione di inapplicabilità”. Con questa espressione la Commissione, per ragioni di interesse pubblico comunitario relative relative all’applicazione degli art 81 e 82 del trattato Ce, può emettere d’ufficio un provvedimento per stabilire  mediante decisione che l’articolo 81 del trattato è inapplicabile ad un accordo, a una decisione di 1 associazione di imprese o a una pratica concordata o perché le condizioni di cui l’art. 81 par 1 no sono soddisfatte o perché non sono soddisfatte quelle del paragrafo 3. Il provvedimento viene rilasciato su richiesta delle parti interessate  e serve solo ad accertare che un determinato accordi non è incompatibile col mercato unico. Oggi col venire meno dell’obbligo di richiedere esenzioni individuali , sono anche cambiate le conseguenze del mancato rilascio della constatazione di inapplicabilità infatti, in precedenza qualora fosse stata negata le  parti avrebbero dovuto subire le sanzioni previste per non aver chiesto l’esenzione individuale. Pertanto l’attestazione negativa aveva carattere dichiarativo, l’esenzione costitutivo perciò  l’esenzione serviva a legittimare 1 accordo altrimenti illecito anche se possedeva tutti gli elementi e le caratteristiche per essere esentato. In questo caso ciò che si voleva sanzionare non era l’atto anti concorrenziale ma l’omessa richiesta di deroga da parte delle imprese.

La fattispecie: l’abuso di posizione dominante

La figura di condotta anti concorrenziale dell’abuso di posizione dominante è prevista dall’art. 82 del Trattato Ce secondo cui: “ è incompatibile con il mercato comune e vietato se pregiudizievole al commercio tra stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o + imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo”. La nozione di posizione dominante sul mercato è stata formulata dalla Corte di Giustizia che afferma che 1 impresa può essere considerata in posizione dominante quando può agire in misura rilevante senza dover tenere conto della condotta dei concorrenti. Ciò vuol dire che il concetto di posizione dominante è un concetto relativo, non desumibile sulla base di dati oggettivamente riscontrabili ma che richiede una valutazione caso per caso. Per quanto riguarda la nozione di abuso il Trattato Ce elenca una serie di comportamenti abusivi che possono essere considerati abusivi, per esempio imporre  prezzo d’acquisto, vendita, limitare la produzione, subordinare la conclusione di un contratto all’accettazione degli altri contraenti di prestazioni supplementari che non abbiano nesso con l’oggetto del contratto stesso… etc etc. per quanto concerne invece il pregiudizio al commercio tra gli stati membri, secondo la Commissione e Corte di Giustizia questo esiste se si pone in essere una situazione di oggettiva difficoltà per le altre imprese di entrare nel mercato o mantenere la propria posizione. Alla fattispecie di abuso della posizione dominante non si possono concedere esenzioni;le imprese possono chiedere alla Commissione una specifica constatazione di inapplicabilità per non incompatibilità del loro comportamento con l’art.82

La fattispecie: gli aiuti degli stati alle imprese

L’art. 87 del TCE considera lesivi della concorrenza gli aiuti concessi dagli stati alle imprese per alleviare gli oneri gravanti sul bilancio di un impresa. Tali aiuti possono falsare la concorrenza a livello comunitario in quanto favoriscono le aziende nazionali a scapito delle concorrenti straniere. Questi aiuti possono concretarsi in forme diverse come per esempio i prestiti a tasso agevolato. A tutela della concorrenza la normativa comunitaria sottopone gli aiuti dello stato alle imprese ad una serie di limiti e di controlli. In particolare lo stato che intende erogar determinati aiuti alle proprie imprese deve notificare il provvedimento alla commissione per ottenere l’autorizzazione. Se la Commissione accerta l’incompatibilità tra gli aiuti e il mercato comune può invitare lo stato membro a non adottare il provvedimento.

Se lo stato non si adegua , la Commissione o qualunque altro stato membro potrà adire la Corte di giustizia per far condannare lo stato inadempiente. Il primo comma dell’art. 87 stabilisce che gli aiuti sono vietati solo nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli stati membri. Per avere questa incidenza non è necessario che l’impresa operi anche fuori del mercato nazionale, infatti, secondo la commissione, un aiuto incide sugli scambi tra gli stati membri anche se l’impresa agisce solo all’interno del paese, solo in ambito locale, regionale o provinciale. Ciò che conta verificare è che quel mercato territorialmente limitato sia dal punto di vista concorrenziale interessante per le imprese di altri paesi. L’art. 87 richiede anche , per considerare l’aiuto anti concorrenziale, che esso possa falsare o minacci di falsare la concorrenza. L’art 87 infine indica  al 2 comma 3 categorie di aiuti che sono sempre compatibili in quanto non valutabili discrezionalmente dalle autorità  comunitarie e cioè gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori , gli aiuti per danni arrecati da calamità naturali o altri eventi eccezionali e la 3 categoria  è una norma rivolta alla Germania del dopoguerra. Il 3 comma indica invece 5 categorie di aiuti dichiarati compatibili dalle autorità comunitarie ( per lo sviluppo economico delle regioni a basso tenore di vita, per promuovere la realizzazione di progetti di interesse europeo, per agevolare lo sviluppo di alcune attività economiche o regioni, per promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, e ogni altra categoria di aiuti determinata con delibera del consiglio). Nel caso di aiuti , essendo lo stato ad aver tenuto comportamento anticoncorrenziale e non l’impresa, sarò il destinatario delle sanzioni comunitarie.

Permane però il problema di sapere che fine fanno gli aiuti già ricevuti dalle imprese.

La fattispecie: le concentrazioni

La concentrazione consiste nella fusione  tra 2 o + imprese o nell’acquisizione da parte di 1 impresa del controllo di 1altra o altre imprese. Le concentrazioni non sono di per sé anticoncorrenziali ma lo diventano quando portano squilibri nel mercato comune mettendo in pericolo la concorrenza. La materia è regolata  dal Regolamento antitrust dell’89 la cui adozione è stata fortemente contrastata da parte di alcuni stati membri a causa dell’obbligo per le imprese partecipanti ad una concentrazione di dimensione comunitaria di notificare alla commissione in via preventiva l’intenzione di procedere alla concentrazione ed i termini dell’accordo. Il contrasto sorto a causa di tale obbligo è stato però risolto con la previsione della “soglia di interesse comunitario” per la quale concentrazioni che superano tale soglia devono essere sottoposte al controllo della Commissione , mentre quelle che rimangono al di sotto sono sottoposte alle autorità statali. Comunque, nel 2004 è stato approvato un nuovo regolamento che abroga e sostituisce quello dell’89.

Questo regolamento introduce alcune revisioni, tra cui la + importante è quella relativa alla nozione di “concentrazione incompatibile” con il mercato comune. Infatti in passato l’attenzione veniva posta su quelle operazioni volte a creare o rafforzare una posizione dominante, il nuovo regolamento invece prende in considerazione le concentrazioni che ostacolano in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso. Da ciò di ricava che il nuovo sistema del regolamento del 2004 tende a prevenire una concentrazione incompatibile piuttosto che reprimerla dopo. Infatti le imprese che hanno intenzione di procedere ad una concentrazione hanno l’obbligo di notificare alla commissione tale operazione la cui efficacia è sospesa fino al termine della procedura in esame. Ammende e penalità di mora sono previste nel caso di mancata notifica dell’operazione o in caso di violazione della sospensione dell’efficacia dell’operazione stessa o ancora in caso di inosservanza delle richieste della commissione.

Il diritto alla concorrenza in Italia

Anteriormente all’emanazione della legge antitrust 287/90, il tema della concorrenza ha svolto nel ns paese un ruolo secondario. Il nostro codice civile contiene in proposito pochi generici riferimenti come per esempio l’art 2105 che vieta al prestatore di lavoro di fare concorrenza al proprio datore di lavoro. E solo un paio di articoli , 2596 sui patti restrittivi della concorrenza e l’art 2597 sull’obbligo a contrarre per le imprese monopoliste, richiamano le problematiche che la disciplina comunitaria affronta in tema di concorrenza. Neanche la giurisprudenza, abile nell’adattare alla realtà socio-economica in continuo cambiamento le regole codicistiche, ha svolto un ruolo decisivo in materia.

La legge italiana antitrust

Occorre dunque attendere il 1990 perché nel nostro ordinamento il tema sulla concorrenza riceva 1 adeguata regolamentazione. La legge antitrust riproduce fondamentalmente il modello comunitario e introduce il principio in base a cui una legge interna può e deve essere interpretata secondo criteri e categorie proprie di 1 altro ordinamento. Così la giurisprudenza comunitaria e la prassi della Commissione divengono formalmente elementi fondamentali per interpretare ed applicare le norme di una legge nazionale. Per quanto riguarda la competenza giurisdizionale, la legge attribuisce all’autorità Garante competenza generale ed esclusiva a conoscere e sanzionare i comportamenti anti concorrenziali, ma le azioni di nullità e risarcimento del danno devono essere presentate alla corte d’appello competente per territorio. I ricorsi contro provvedimenti dell’autorità garante devono essere proposti davanti al tribunale amministrativo regionale del Lazio.

Rapporto fra regole comunitarie e nazionali in tema di concorrenza.

Per quanto riguarda tale rapporto, problemi potrebbero derivare , in caso di comportamento anti concorrenziale, da un contrasto tra le 2 pronunce, una della Commissione , l’altra dell’autorità nazionale. Il problema può essere risolto o con la teoria della barriera unica ( o teoria di elusione reciproca) o con quella della barriera doppia ( concorso). La teoria della barriera unica considera il diritto comunitario sempre prevalente su quello degli ordinamenti degli stati membri, perciò le discipline nazionali non possono derogare né ai divieti della commissione né alle esenzioni. Quella della barriera doppia  considera i 2 ordinamenti ( nazionale e comunitario) indipendenti, per tanto il fatto che un comportamento rientra nella competenza di autorità comunitarie non esclude la competenza concorrente delle autorità nazionali che potranno discostarsi da 1 eventuale e precedente decisione opposta degli organi comunitari. La legge 287/90 accoglie la teoria della barriera unica anche se gli stati membri non hanno rinunciato a far valere quella della barriera doppia. Comunque la corte di Giustizia ha elaborato una teoria che può essere considerata una via di mezzo. La corte ritiene che in caso di contrasto tra decisione di uno stato e della commissione, quest’ultima deve prevalere se pone un divieto, se invece la Commissione autorizza o esenta un determinato comportamento le autorità nazionali possono proibirlo al proprio interno. Novità in materia sono state introdotte dal regolamento 1/2003 che si occupa anche del rapporto tra autorità comunitarie e nazionali, rispetto al quale si distingue il rapporto tra Commissione e Autorità garanti nazionali da quello tra Commissione e autorità giurisdizionali nazionali.

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