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La modifica e lo scioglimento del rapporto contrattuale: il recesso in funzione risolutoria

  1. Il recesso come mezzo di impugnazione dei contratti

Il recesso si può definire come una manifestazione di volontà tramite la quale una parte produce lo scioglimento totale o parziale di un rapporto giuridico nato da un contratto. L’istituto del recesso è stato introdotto nell’ordinamento italiano con il codice civile del 1942 che all’articolo 1373 prevede la possibilità che coloro che concludono un contratto si attribuiscano, o vedano assegnarsi dalla legge, la possibilità di recedervi cioè di decidere unilateralmente sulla possibilità di continuare ad esistere del rapporto contrattuale; nel primo caso si parlerà di recesso convenzionale, nel secondo di recesso legale.

Le ipotesi previste sono due: se il contratto è ad esecuzione istantanea e non è stato ancora eseguito la possibilità di esercitare il recesso dura fin quando non vi sia stato un principio di esecuzione, se il contratto è a esecuzione continuata o periodica e questa è già iniziata il recesso non ha effetto per le prestazioni che sono già state eseguite o sono in corso di esecuzione.

Una importante funzione svolta dal recesso è quella di integrare i contratti di durata in cui manchi il termine finale in modo che, il contraente che comunica la sua volontà di recedere dal contratto ne stabilisce il termine finale che prima non era stato concordato permettendo così di rispettare il principio della necessaria determinatezza, o almeno determinabilità, dell’oggetto del contratto[1], in questo caso si parla di recesso determinativo. La possibilità di esercitare il recesso determinativo è generalmente subordinato alla preventiva comunicazione di un preavviso.

L’atto con cui si recede ha contenuto patrimoniale e determina effetti tra vivi, gli si applicano quindi ex art 1324 c.c. le disposizioni riguardanti i contratti in generale nelle parti compatibili con le caratteristiche di unilateralità dell’istituto. È stata contestata la natura negoziale dell’atto di recesso nell’ipotesi che l’art 1324 c.c. si riferisca solamente a veri e propri negozi giuridici, su questa base il recesso risulterebbe l’esercizio di un diritto potestativo piuttosto che una manifestazione di libertà e sarebbe impugnabile solo in caso di difetto della capacità di intendere e di volere[2]. Si può però argomentare altrimenti considerando che un solo atto può essere espressione sia di potere che di potestà. La parte che recede esercita un diritto andando ad incidere nella sfera giuridica della controparte ma modifica anche la propria sfera giuridica risultando così un atto che esprime autonomia[3]. Oggi prevale la teoria secondo cui l’atto di recesso è un negozio giuridico unilaterale che richiede solo la capacità di disporre[4].

L’elemen­to che accomuna i differenti poteri di recesso e che, al contempo, vale talora a contrapporre uno di essi a poteri diversi, i quali pure derivano da identica causa e determi­nano, se esercitati, identici effetti, è dato proprio dalla struttura dell’atto di esercizio: che è, in tutti i casi, la dichiarazione unilate­rale di uno dei contraenti[5].

Tale dichiarazione, come appare evidente, ha “contenuto patrimoniale” ed è intesa a produrre effetti “tra vivi”. Sembra­no sussistere quindi, secondo la disposizione dell’art. 1324 c.c., i presupposti per l’applicazione diretta delle norme sui contratti in generale, in quanto compatibili con la struttura unilaterale della fattispecie.

Il recesso risolutorio svolge la funzione di permettere ad uno dei contraenti di modificare o sciogliere il regolamento contrattuale originario. La possibilità di effettuare il recesso viene attribuita ad una parte in presenza di circostanze che si siano verificate dopo la conclusione del contratto e che sono state considerate talmente importanti da giustificare la modificazione o l’eliminazione del vincolo strettosi.

Il recesso è quindi uno strumento di impugnazione del contratto e poiché le norme che lo riguardano non precisano nulla riguardo agli effetti derivati dal suo esercizio si ritiene generalmente di utilizzare il medesimo schema applicato ai mezzi di impugnazione generali e ordinari: si avrà quindi annullamento nel caso in cui il ricorso ad esso si basa su dei vizi originari, si avrà invece risoluzione se si basa su delle circostanze verificatesi dopo la conclusione del contratto. La seconda ipotesi è la più importante in quanto maggiormente diffusa mentre la possibilità di recesso in presenza di vizi originari è raramente presente nel nostro ordinamento.

I mezzi ordinari di risoluzione del contratto restano applicabili anche nei casi in cui sia previsto un recesso risolutivo. Il fatto che i mezzi di risoluzione svolgano la medesima funzione non implica il fatto che essi vadano a sovrapporsi completamente. A venire in evidenza può essere ad esempio l’interesse di una parte ad una decisione certa piuttosto che rapida scegliendo quindi di avvalersi della risoluzione giudiziale invece del recesso che può essere dichiarato inefficace nel caso venga accertata l’inesistenza dei suoi presupposti[6]. Anche la risoluzione può essere effettuata in via non giudiziale ricorrendo alla diffida in base all’articolo 1454 c.c. ma questa previsione rimane compresa all’interno del recesso risolutivo poiché l’unica differenza riscontrabile è che ricorrendo al recesso non si è obbligati a concedere alla controparte un termine di tempo congruo per rendersi adempiente.

La previsione legale di un recesso risolutivo si può individuare quasi esclusivamente all’interno di contratti a esecuzione continuata e ciò è dovuto alla natura stessa di questi contratti in cui, facendo ad esempio riferimento al lavoro subordinato o alla fornitura di energia, assume un importanza molto rilevante il momento temporale in cui viene fornita la prestazione prevista e in cui l’inadempimento è molto difficilmente sanabile, rendendo così di fatto inutile la diffida ad adempiere seppur tardivamente[7].

Vi possono comunque essere dei casi seppur non molto frequenti di un recesso risolutorio attivabile, in caso di inadempimento[8], anche all’interno di contratti non a esecuzione continuata come ad esempio quello del professionista intellettuale ex art. 2237 c.c. che una volta risolto il contratto per giusta causa e di conseguenza anche per inadempimento ha diritto ad ottenere la restituzione del valore della prestazione da lui effettuata fino a quel momento; tali effetti sembrano non poter essere compatibili con l’efficacia retroattiva tipica della risoluzione ordinaria; il professionista dopo aver risolto il contratto ha diritto ad ottenere la restituzione di una somma equivalente al valore della propria prestazione mentre nel caso sia ricorso al recesso bisogna considerare il valore dell’utilità arrecata al cliente[9].

In conclusione si può affermare che il professionista intellettuale ha a disposizione per affrontare una grave inadempienza della controparte due strumenti diversi e potrà ricorrere all’uno o all’altro, quello del recesso che produce più rapidamente i suoi effetti o quello della risoluzione ex articolo 1454 c.c. che consente di ottenere dei risultati in tempi meno brevi ma generalmente più vantaggiosi.

Il recesso è attivabile, secondo le previsioni di alcuni contratti, in presenza di una giusta causa che può andare a coincidere con la eccessiva onerosità sopraggiunta della prestazione, anche in questi casi vi può essere un problema di sovrapposizione con i normali strumenti di risoluzione.

La possibilità di ricorrere al recesso risolutivo non è sempre collegata a situazioni che consentano di ricorrere alternativamente anche ai mezzi ordinari di risoluzione del contratto dato che all’interno di concetti come gravi motivi o giusta causa possono rientrare situazioni che nulla hanno a che vedere con l’inadempimento o l’eccessiva onerosità sopravvenuta[10]. Inoltre a volte sono  esplicitamente considerate cause di possibile recesso circostanze che non rientrano in quelle normalmente considerate valide per la risoluzione, si può far riferimento al caso di un contratto che non preveda prestazioni corrispettive: si consideri, ad esempio, il recesso dal comodato a termine, consentito al comodante in caso di  improvviso e sopravvenuto bisogno di servirsi della cosa: art 1809, comma 2, c.c., di cui è interessante notare la contrapposizione con il rimedio ordinario apprestato dalla norma dell’art.1468 c.c., per il caso di sopravvenuta eccessiva onerosità nei contratti c n obbligazioni a carico di una sola parte.

Nel caso in cui la causa che permette di far ricorso al recesso coincide con una di quelle che permettono di servirsi dei mezzi ordinari di risoluzione il suo effetto non differisce da quello prodotto da questi altri strumenti; di conseguenza, in base agli articoli 1458 e 1467 c.c. il recesso opera in modo retroattivo. In base a ciò, e tenuto conto degli interessi dei terzi, le prestazioni di cui si sia eventualmente usufruito nel periodo anteriore al recesso vanno ripetute[11].

Alla medesima conclusione si arriva valutando il caso in cui il recesso sia causato dal sopraggiungere di circostanze specifiche non previste nei casi riguardanti la risoluzione ordinaria dei contratti. Nel caso in cui un avvenimento che sopraggiunge porta comunque alla risoluzione del vincolo contrattuale le attività già svolte e le prestazioni già eseguite non hanno più un titolo giuridico valido e quindi la risoluzione deve sviluppare retroattivamente i suoi effetti. Anche riguardo al recesso in caso di sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione la dottrina giunge a tali conclusioni.[12]

Lo stesso ragionamento può valere per tutti i casi in cui sia prevista dalla legge la possibilità di recesso nel caso sopravvengano determinate circostanze: un esempio di questa fattispecie può essere il recesso dovuto a giusta causa del mandante all’interno di un rapporto oneroso che si è costituito al fine di concludere un affare specifico; in questo caso è difficile sostenere che l’effetto di estinzione del rapporto si compia fin dall’origine potendo essere sorte delle pretese risarcitorie che sono regolabili sulla base delle previsioni riguardanti la ripetizione di indebito.[13] Tale principio può essere utilizzato anche al fine di valutare gli effetti di un recesso dovuto al sopravvenire di eventi nei casi in cui la previsione legislativa non sia sufficientemente esplicita: un esempio di questa situazione potrebbe essere quella del recesso ex art.1660 c.c. da un appalto in ragione di consistenti modifiche del progetto che si siano rese necessarie in cui è previsto un equo indennizzo che è però difficile da individuare in concreto.[14]

In base all’art. 1458 c.c. gli effetti della risoluzione nei contratti di durata non si estendono alle prestazioni già eseguite e questa regola è valida anche per la risoluzione susseguente a un atto di recesso; ciò non sta a significare che l’effetto sia sempre non retroattivo risultando tale, secondo la dottrina prevalente[15], nel caso in cui la risoluzione sia dovuto ad inadempimento retroagendo in questa ipotesi al momento in cui non è stata più eseguita correttamente la prestazione dovuta.

Riguardo al recesso causato da un’eccessiva onerosità sopravvenuta la dottrina prevalente[16] non ritiene che l’effetto retroagisca fino al momento in cui è iniziato a modificarsi l’equilibrio tra le prestazioni, infatti nel caso ciò si verifichi è ritenuto necessario avanzare una domanda di risoluzione giudiziaria oppure attivare il diritto di recesso nel caso questo sia possibile, non è invece considerato accettabile limitarsi a sospendere l’erogazione della propria prestazione appellandosi a una eccessiva onerosità sopravvenuta.

Tuttavia tale opinione muoveva dall’indimostrato presupposto che il recesso non potesse che aver efficacia ex nunc[17]. La dottrina più recente, al contrario, ravvisa nell’art. 1539 c.c. proprio una norma che conferma il carattere normalmente retroattivo dell’ efficacia del recesso, quando non attiene a contratti di durata, e le prestazioni sono già state in parte eseguite[18].

Del resto l’adesione alla tesi più moderna, ­consente di affermare che nella vendita immobiliare in tanto ha senso parlare di recesso, in quanto lo si consideri nella sua sottospecie retroattiva[19]. Per converso, parlare di recesso con efficacia ex nunc, nel tipo, significa piuttosto riferirsi ad un ritrasferimento[20], seppur concluso unilateralmente, e dunque riferirsi ad una nuova e contraria vicenda traslativa[21].

È generalmente diffusa la convinzione, sia in dottrina che in giurisprudenza, che gli atti di recesso siano indirizzati a soggetti determinati e quindi hanno natura recettizia[22], minore accordo si riscontra invece sui modi in cui il recesso deve essere comunicato. Le disposizioni non sempre indicano chi debba essere il destinatario dell’atto di recesso[23]; ci sono inoltre dubbi sulla scelta dello strumento più idoneo per consentire al destinatario di venire a conoscenza della dichiarazione di voler servirsi del recesso: la legge in alcuni casi prevede che debba essere utilizzato un certo strumento, prendiamo ad esempio la raccomandata, ma non specifica se l’utilizzo di altri mezzi, anche più sicuri come l’utilizzo di un corriere privato o di una notificazione tramite ufficiale giudiziario, per raggiungere il medesimo fine sia o meno accettabile. La questione può considerarsi risolta tutte le volte che il destinatario abbia avuto effettiva conoscenza della dichiarazione di recesso e ciò sia provabile[24].

L’atto con cui si dichiara la volontà di recedere può essere considerato tempestivo solo se esso perviene nei tempi che siano eventualmente previsti dalla legge o dalle parti, il solo invio della dichiarazione non la rende efficace tanto che egli può ancora ritirarla. A questo principio a volte è la stessa legge a derogare: si può portare ad esempio al socio di una società di capitali che ex art. 2437 c.c. può recedere solo entro tre giorni costringendo così il socio dissenziente a decidere in un tempo estremamente breve; lo stesso vale per il recesso dell’assicuratore ex art. 1893 c.c.

Il recesso, una volta che abbia prodotto i suoi effetti estintivi del vincolo contrattuale, non è revocabile e il mutamento di idea del recedente può trovare la sua espressione solo nella conclusione di un nuovo legame. Su questo argomento vi sono state numerose occasioni di analisi con riguardo alla materia del lavoro cioè di revoca del recesso dal contratto di lavoro subordinato da parte del datore di lavoro e del lavoratore[25]. Il recedente può ottenere dal giudice l’annullamento del recesso quando questo sia viziato, ad esempio da violenza morale ma per ottenere tale annullamento l’errore del recedente deve risultare riconoscibile da colui cui è ,destinata la dichiarazione di recesso[26].

Altre ipotesi di recesso straordinario, o risolutivo, da intendersi come mezzi di impugnazione, sono previste nella disciplina del contratto di agenzia, e più precisamente nell’art. 1751 c.c[27]. (come modificato dai d.lgs. 303/91 e 65/99). In questi casi è espressamente consentito ad una delle parti di travolgere il regolamento negoziale in funzione di specifici vizi sopravvenuti nel corso del rapporto[28]. Nella norma è infatti prevista espressamente la possibilità per il preponente di risolvere il rapporto a causa di un’inadempienza attribuibile all’agente che, per la sua gravità non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, e con l’esclusione del diritto dell’agente all’indennità. E’ dunque garantita al preponente la possibilità di porre termine al rapporto in ragione di un inadempimento che, date le sue caratteristiche, esonera il recedente dalla necessità di concedere il preavviso di cui all’art. 1750 c.c., così configurando una ipotesi di recesso risolutivo.

Ulteriore fattispecie riconducibile al recesso quale mezzo di impugnazione attribuito ad uno dei contraenti in forza di vizi sopravvenuti, è previsto dal successivo capoverso dell’art. 1751 c.c., dove si precisa che l’agente può recedere dal contratto a causa di circostanze attribuibili al preponente, ciò nonostante conservando il diritto all’eventuale indennità di fine rapporto, che avrebbe altrimenti perso in caso di recesso ordinario.

In questa ipotesi, la cui esatta delimitazione è ancora incerta in dottrina ed in giurisprudenza, non essendo allo stato ben chiaro cosa debba intendersi per “circostanze attribuibili al preponente”, per la verità non appare scontata la possibilità di non concedere il termine di preavviso dovuto in caso di recesso ordinario, ma piuttosto la sua particolarità è costituita dal mantenimento per l’agente del diritto all’indennità di fine rapporto.

Ancora in tema di contratto di agenzia, la giurisprudenza dominante ritiene, pur con le dovute differenziazioni, applicabile analogicamente il meccanismo di recesso per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c.

 

  1. I presupposti del recesso in funzione risolutoria

Il diritto di recesso può essere distinto a seconda dei presupposti richiesti per poterlo esercitare: la possibilità di sottrarsi ad un impegno contrattuale può essere esercitata come libera scelta e ci troviamo quindi nel campo di un recesso acausale oppure può essere prevista dalla legge al verificarsi di determinate circostanze e ci troviamo quindi in presenza di un recesso causale.

Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un recesso che per essere attivato non richiede di fornire una spiegazione della propria scelta[29]. Tale tipo di recesso che tende a indebolire la forza vincolante dei contratti ed è stato previsto dall’ordinamento come esercitabile in particolari situazioni ritenute non in grado di pregiudicare interessi di tipo socioeconomico considerevoli. Tale tipo di recesso può essere individuato ad esempio negli articoli 1771, 1810 e 1834 c.c. che si riferiscono rispettivamente a: la restituzione immediata di una cosa al depositante da parte del depositario a meno che non sia previsto un termine nel suo interesse; necessità per il comodatario di restituire la cosa al comodante non appena questi la richieda se non è stato previsto un termine e se questo non risulta dall’uso cui la cosa doveva essere destinata; la necessità per una banca di restituire una somma di denaro depositata quando il depositante ne faccia richiesta pur osservando un periodo di preavviso stabilito dalle parti o dagli usi.

La possibilità prevista dagli articoli 2227 e 2237 c.c. di recedere con queste modalità rispettivamente da contratti di lavoro autonomo e da contratto di prestazione intellettuale ha portato addirittura a dubitare dell’esistenza di un legame contrattuale tra colui che fornisce la prestazione ed il committente considerato che questo può recedere da un contratto di lavoro autonomo sia in caso si trovi a produrre beni e servizi non più utili sia in caso non abbia più fiducia nelle capacità professionali di colui che compie l’opera[30]. La legge 604 del 1966 permette all’imprenditore di recedere con queste modalità dalla collaborazione con un dirigente, ove ciò non sia in contrasto con il contratto da questi sottoscritto, poiché si ritiene che ciò sia possibile in un rapporto fiduciario che deve rinnovarsi momento per momento il cui venir meno comporta automaticamente la fine del rapporto stesso[31].

In situazioni come queste colui che recede dal contratto provoca unilateralmente effetti nell’altrui sfera giuridica e sii trova in una posizione detta di potestà o diritto potestativo, colui invece che subisce il recesso deve subire questi mutamenti senza avere strumenti per intervenire e si trova quindi in una posizione di mera soggezione[32]. Tuttavia anche nel caso in cui sia possibile recedere liberamente da un contratto alcuni ritengono che sia comunque possibile un controllo giudiziale per verificare se il comportamento tenuto sia stato corretto e in buona fede[33].

L’altra forma di recesso la cui diffusione si sta con il passare del tempo estendendo sempre maggiormente vede l’attribuzione del diritto di recedere a una o più parti solo al sopravvenire di una determinata circostanza rendendo così la potestà di colui che può recedere dal contratto meno arbitraria essendo sottoposta alla condizione del verificarsi di un certo evento il cui realizzarsi o meno può essere verificato dall’altra parte e in ultima istanza dal giudice[34]. Questo tipo di recesso è detto anche straordinario, considerando ordinario quello acausale in considerazione di un generale principio di libertà che attenua la forza del vincolo negoziale.

Con il passare del tempo si può sostenere che diminuiscono le ipotesi di recesso ordinario mentre aumentano quelle di recesso straordinario. L’esempio più importante di questo fenomeno lo si può evidenziare all’interno del rapporto di lavoro dove il lavoratore subordinato ha un interesse al mantenimento di un rapporto di lavoro stabile che trova una tutela anche a livello costituzionale negli articoli 4 e 36 e che quindi limita la possibilità di recedere del datore di lavoro ex art. 2118 c.c. In tempi recenti si è riaperto il dibattito sull’opportunità di assecondare o frenare tale tendenza legislativa a seguito dell’iniziativa delle organizzazioni degli imprenditori di ridurre l’area interessata dal recesso causale ampliando di conseguenza quella del recesso acausale trasformando in obbligatoria la tutela reale del rapporto di lavoro; così facendo si invertirebbe la tendenza legislativa precedentemente individuata[35]

Un altro esempio di questa tendenza può essere individuato nella legislazione sulle locazioni urbane in cui si limita la possibilità per il locatore di recedere dal contratto di locazione in considerazione delle esigenze dei cittadini di godere di un abitazione anch’esse garantite a livello costituzionale.

In alcuni casi la libertà di recedere in qualsiasi momento viene limitata dalla possibilità di individuare un termine finale del rapporto che anche se non viene espressamente previsto può essere desunto dal contenuto oggettivo del contratto. Il potere di scelta di colui che vuole recedere è differente anche in base al fatto che le cause che rendono possibile il recesso siano espressamente indicate dal legislatore, come è più raro, oppure siano indicate con formule generali come giusta causa o gravi motivi. In questo secondo caso le possibilità di scelta di colui che vuol recedere sono più ampie[36] ma comunque non arbitrarie in quanto sempre legate a disposizioni normative.

A volte le formule utilizzate non chiariscono in modo evidente quali siano di fatto i presupposti del recesso: non sono infatti di facile interpretazione norme che subordinano il recesso del committente a variazioni di prezzi di appalto “di notevole entità”, quello degli eredi dell’appaltatore al non affidamento nella “buona esecuzione” dell’opera e quello del comodante all’”urgente e impreveduto bisogno” della cosa, o che escludono la continuazione di un rapporto assicurativo per variazioni del “rischio” assicurato; anche in questo tuttavia caso non può essere esclusa la legittimità di un controllo sul recesso che resta così sempre distinto da quello acausale. In questi casi colui che subisce l’atto di recesso non si trova in una posizione di mera soggezione poiché spetta a colui che recede mostrare i fatti che a ciò lo autorizzano e al giudice verificare se questo potere è stato utilizzato nei limiti previsti della legge e per perseguire il fine cui è stato preposto.

 

2.1 La nozione di giusta causa

Generalmente la legge non provvede ad indicare gli eventi precisi al cui verificarsi si può ricorrere al recesso[37] e tende a far ricorso a clausole generiche come quella di giusta causa. All’interno del concetto di giusta causa possono essere fatte rientrare tutti quegli eventi successivi alla stipulazione del contratto che rendono particolarmente gravoso continuare nel rapporto. La principale causa di un’interruzione anticipata di un rapporto contrattuale è l’inadempimento e si è a lungo dibattuto se in tali ipotesi possa essere invocarsi la giusta causa. Secondo alcuni la nozione di giusta causa dovrebbe essere riferita a circostanze diverse dall’inadempimento e limitata solo a quei fatti che fanno venir meno il rapporto fiduciario fra le parti e impediscono quindi una prosecuzione seppur parziale del rapporto[38] non comportando però un giudizio negativo sui comportamenti di una parte che invece prevederebbe l’inadempimento.

Sulla base di questa interpretazione non c’è coincidenza tra giusta causa e inadempimento poiché se all’interno del concetto di giusta causa dovesse essere ricompresso anche l’inadempimento si causerebbe una duplicazione di mezzi eguali quando la si facesse valere in giudizio e una concorrenza di mezzi diversi destinati allo stesso fine quando operasse con un atto negoziale; si sostiene allora che il ricorso alla giusta causa ha il fine di ottenere lo scioglimento del contratto in presenza di circostanze diverse da quelle prese in considerazione da altre norme[39]. In questi casi le motivazioni che spingono a ricorrere al recesso differiscono non solo dall’inadempimento ma anche dall’eccessiva onerosità e dall’impossibilità sopravvenuta dovendosi invece riferire a condizioni personali di una delle parti o alla situazione dell’oggetto su cui si è costituito il rapporto contrattuale. Il contratto determina un assetto degli interessi delle parti che viene messo in crisi dal sopravvenire di alcuni fatti che non determinano però uno squilibrio delle prestazioni tra le parti.

Questa tesi non è generalmente accettata poiché si ritiene che con formule generiche come giusta causa non si è voluto escludere la principale causa di scioglimento del vincolo contrattuale ma ne ha voluto ampliare le possibilità. Va inoltre considerato che dal punto di vista pratico il recesso è un mezzo più rapido per ottenere il risultato voluto rispetto agli ordinari mezzi di risoluzione. Queste considerazioni fanno ritenere che l’inadempimento deve essere ricompresso all’interno della nozione di giusta causa poiché è proprio l’inadempimento la causa principale del venir dell’elemento fiduciario all’interno del rapporto contrattuale[40]. All’interno del generale concetto di giusta causa va quindi ricompresa anche la eccessiva onerosità sopravvenuta[41].

2.2 I gravi motivi

Altra clausola generale utilizzata dalle disposizioni legislative è quella dei gravi motivi. Il recesso può rappresentare anche il mezzo previsto dall’ordinamento tramite il quale una parte reagisce a una modifica unilaterale del rapporto contrattuale.

Questa situazione può essere ad esempio individuata nel recesso consentito dall’art. 2437 c.c. al socio che dissente da una deliberazione dell’assemblea della società che abbia modificato l’oggetto o il tipo della stessa così come nel caso ne abbia deciso il trasferimento all’estero della sede sociale.

Altro caso rilevante della fattispecie descritta è quello della possibilità offerta dall’art. 2237 c.c. al prestatore d’opera intellettuale di recedere: questa previsione trova la sua giustificazione nella volontà di tutelare la libertà di pensiero, e in senso lato morale, dello stesso professionista dato che un committente non affidabile, oltre che causare dei rischi sul pagamento del corrispettivo, potrebbe risultare nocivo per l’immagine del professionista; è difficile stabilire a priori quali siano i motivi che possano giustificare il recesso del professionista e in definitiva questi vanno valutati caso per caso; a venire in rilievo possono essere anche dei motivi che influiscono sulla convinzione del professionista di essere in grado di porre in essere la prestazione richiesta dalla controparte  cioè eventi tali da non permettere al professionista di portare a compimento i suoi impegni utilizzando l’obiettività e le conoscenze richieste dalla natura della prestazione: esempi di queste fattispecie possono essere individuati nei comportamenti o nella situazione del committente come il rifiuto di questi di collaborare allorché questa collaborazione condizioni la prestazione, il mancato anticipo delle spese oppure la sua condanna per reati considerati infamanti dalla coscienza popolare in collegamento con la natura della prestazione richiesta.

  1. Le posizioni della dottrina in merito alla presenza di vizi originari e sopravvenuti

Il recesso è anche un mezzo di impugnazione del contratto, consente cioè alle parti di sciogliere o modificare il rapporto contrattuale in presenza di vizi originari o sopravvenuti.

Le varie norme che prevedono un “potere di reagire, con il recesso, a un vizio, originario o sopravvenuto, del regolamento contrattuale” devono ritenersi eccezionali.

Infatti “l’attribuzione del potere di recesso pur se in concreto connessa ad una causa rilevante anche secondo la disciplina comune dei contratti, comporta in ogni modo una deroga a tale disciplina, quanto meno sul piano procedimentale, giacché consente di conseguire la rimozione del vincolo per una via più spedita e, per ciò stesso, con minori garanzie per l’altra parte, che la subisce”[42].

Ipotesi di recesso di tipo impugnatorio e di fonte legale parrebbe siano previste, nella parte del codice dedicata al tipo in esame, dagli artt. 1537 e 1538 c.c., rispettivamente per la vendita immobiliare a misura ed a corpo.

Ulteriore ipotesi, certamente di natura impugnatoria, è quella del recesso legale di cui all’art. 1385 c.c[43]. La giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, ammette che la dazione di una caparra confirmatori[44]a sia compatibile con la conclusione di una vendita definitiva[45]: a fronte di ciò, in caso di inadempimento[46], la parte non inadempiente è titolare di un diritto di recesso di fonte legale che pare essere, quanto alla funzione, proprio il paradigma di quelli definiti come impugnatori.

Pur considerando che la maggior parte delle fattispecie in cui è prevista la possibilità di recedere dal contratto riguarda la presenza di vizi sopravvenuti ci sono casi in cui si può ricorrere al recesso come reazione a dei vizi originari. Uno di questi casi è quello della vendita immobiliare sancito dagli articoli 1537 e 1538 c.c. Secondo queste disposizioni nel caso in cui nel contratto è stata indicata una misura dell’immobile venduto, anche se il prezzo è stato fissato a corpo, e la misura reale supera di un ventesimo la misura indicata il compratore può scegliere di recedere dal contratto invece di pagare un prezzo aumentato proporzionalmente. Secondo alcuni la motivazione di questa scelta dovrebbe essere fatta risalire a un errore sulla quantità e quindi a un vizio del consenso per cui il compratore acquisterebbe qualcosa di diverso da ciò che aveva pattuito[47]; secondo altri si tratterebbe solo di un rimedio simile all’azione redibitoria per vizi della cosa basato sull’oggettiva discrepanza quantitativa[48]. Per comprendere appieno la questione bisogna distinguere tra il diritto alla rettifica, assegnato a uno o all’altro contraente, e quello al recesso che invece spetta al solo compratore nel caso il diritto alla rettifica del prezzo spetti alla controparte. Il diritto alla rettifica può quindi essere classificato all’interno della fattispecie dell’errore, il recesso è un diritto attivabile dal compratore solo nel caso la controparte possa e voglia utilizzare il suo diritto alla rettifica per ottenere un supplemento di prezzo[49]. Il compratore non può quindi recedere solo perché viene a scoprire un’eccedenza della misura reale rispetto a quella dichiarata nel contratto poiché la norma pone un’alternativa tra recesso e necessità di pagare un supplemento di prezzo. Il diritto di recesso trova il suo fondamento quindi nel fatto che colui che vende il bene voglia usufruire del suo diritto di rettifica e non nella divergenza tra misura dichiarata e misura reale. Anche in questo caso il recesso si affianca e non sostituisce l’ordinaria azione di annullamento che potrebbe essere esercitata dal compratore per ottenere l’effetto di una retroattività parzialmente opponibile anche ai terzi[50].

Altro caso in cui il recesso serve a reagire contro un vizio originario del contratto è quello relativo alle assicurazioni sancito dall’art. 1893 c.c. In base a questa norma l’assicuratore può recedere dal contratto nel caso in cui l’assicurato, senza dolo né colpa grave, abbia taciuto o descritto in modo non veritiero situazioni che possono incidere sul rischio assicurativo. Anche in questo caso non c’è accordo nella dottrina sulle motivazioni che giustificano questo rimedio: alcuni si rifanno a un vizio del consenso dell’assicuratore, altri all’inosservanza di un obbligo o di un onere di informazione che dovrebbe ricadere sull’assicurato nella fase precontrattuale[51]. Gli effetti tra le parti conseguenti all’esercizio del recesso da parte dell’assicuratore sono determinati dallo stesso art 1893 c.c. e sono caratterizzati da una potenziale retroattività dato che il recesso permette anche di diminuire il valore degli indennizzi dovuti a causa di sinistri avvenuti prima del ricorso ad esso. Si è discusso anche in questo caso se questa specifica previsione di recesso escluda la possibilità di ricorrere all’ordinaria azione di annullamento nel caso vi siano gli ulteriori requisiti richiesti dalla ordinaria disciplina dei contratti. La disciplina particolare delle assicurazioni prevede la possibilità per l’assicuratore di servirsi dell’azione di annullamento nel caso il comportamento dell’assicurato lo abbia indotto in errore su circostanze riguardanti l’entità del rischio assicurativo, ma in questo caso è necessario che la controparte abbia agito con dolo o colpa grave. In mancanza di questo elemento soggettivo la disciplina delle assicurazioni non prevede altro che la possibilità di ricorrere al recesso che come rimedio risulta però non soddisfacente nel caso in cui l’assicuratore non avrebbe mai concluso il contratto se fosse stato a conoscenza di determinate circostanza che gli sono state taciute[52]. In questo caso sembra giustificabile il ricorso all’ordinaria azione di annullamento che, in caso di suo accoglimento, permetterebbe all’assicuratore di non dover pagare indennizzi, diversamente che in caso di recesso, pur se gli imporrebbe di restituire parte dei premi riscossi[53]. In presenza quindi dei presupposti sia per ricorrere all’annullamento ordinario sia al recesso spetterà all’assicuratore decidere di quale strumento servirsi anche in considerazione degli effetti diversi raggiungibili.

Le norme che permettono di servirsi dello strumento del recesso per reagire alla presenza di vizi originari o sopravvenuti sono numerose ma da ciò non è possibile ipotizzare che questo particolare strumento sia utilizzabile anche in situazioni diverse da quelle espressamente previste in considerazione del fatto che provoca una importante deroga alla disciplina generale dei contratti poiché consente di ottenere la rimozione del vincolo contrattuale in modo più rapido e meno garantito per la parte che subisce il recesso rispetto agli ordinari mezzi di risoluzione del contratto; va inoltre considerato che a volte grazie al recesso si può reagire in casi in cui il ricorso ai mezzi ordinari di risoluzione non sarebbe ammissibile. Le norme che prevedono la possibilità di ricorrere al recesso non consentono quindi un’applicazione analogica.

Malgrado queste considerazioni è stato ritenuto ammissibile il ricorso al recesso per giusta causa all’interno di contratti di durata sebbene la loro specifica disciplina non lo prevedesse: tale orientamento è generalmente accettato anche dalla giurisprudenza con riguardo alle associazioni di diritto comune ma viene ritenuto ammissibile anche rispetto alla somministrazione[54], l’agenzia[55] e l’associazione in partecipazione[56]. La negazione della possibilità di ricorrere al recesso ove ciò non sia espressamente previsto può trovare un’eccezione nel recesso del contraente che dovrebbe ricevere una prestazione ad esecuzione continuata nel caso in cui la giusta causa per ricorrervi sia rappresentata da un inadempimento non irrilevante della controparte; in questo caso il ricorso al recesso rappresenta un adattamento del potere generale di risoluzione attraverso un atto stragiudiziale riconosciuto dall’ordinamento: questo potere necessita dell’assegnazione alla controparte di un termine di tempo congruo per poter adempiere ma in un rapporto in cui risulta fondamentale il momento in cui viene eseguita la prestazione una volta che si sia verificato l’inadempimento questa non può più essere utilmente eseguita, proprio per ovviare a questa problematica viene ritenuto ammissibile ricorrere allo strumento del recesso.

All’interno dei contratti di durata a tempo indeterminato il recesso risolutorio viene da alcuni ritenuto privo di utilità poiché in questi casi sarebbe sempre possibile il ricorso ad nutum che non risulterebbe neanche vincolato alla presenza di specifiche cause di giustificazione[57]. Il recesso risolutorio risulterebbe quindi utile solo nel caso in cui per ricorrere al recesso ad nutum fosse necessario assegnare un termine di preavviso cui ci si potrebbe sottrarre affidando si al recesso risolutorio. Ad assegnare al recesso risolutorio una funzione autonoma al di là della non necessità di assegnare un termine di preavviso è il fatto che anche all’interno di rapporti di durata esso produce degli effetti retroattivi tra le parti. In termini generali si può affermare che la presenza di circostanze che giustifichino lo scioglimento del vincolo contrattuale implica la non necessità di accordare un termine di preavviso per recedere; eccezione a questa regola è quella che riguarda il licenziamento e che si giustifica con il favore con cui è generalmente considerato dall’ordinamento il lavoratore subordinato: il datore di lavoro non può considerarsi esentato dal dovere di dare un preavviso al proprio dipendente anche in presenza di un inadempimento di questo e di conseguenza tale inadempimento, anche se protratto all’indietro nel tempo, non giustifica un licenziamento con effetti retroattivi.

All’interno di un contratto le parti possono inserire delle clausole che permettono l’esercizio del recesso al verificarsi di determinate circostanze così come delle condizioni risolutive. Questo tipo di clausola deve essere considerata all’interno del potere di recesso come ius se poenitendi che verrà analizzato in seguito, può invece essere ricompresa nel recesso come mezzo di impugnazione del contratto nel caso in cui le circostanze considerate sufficienti a permettere di recedere siano le stesse che permettono normalmente di impugnare il contratto con mezzi diversi dal recesso che è un atto non giudiziale che causa l’immediato scioglimento del vincolo contrattuale; l’inserimento di tali clausole risponde ad esigenze di tipo procedimentale cioè di sostituire alle possibilità di impugnazione ordinarie attivabili solo in giudizio uno strumento come il recesso che consente una più rapida reazione e sulla base di queste motivazioni non sembra esservi motivo per impedire alle parti di perseguire tali obiettivi[58].

Il necessario passaggio attraverso una via giudiziale per ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale tramite gli strumenti di impugnazione ordinari è stato previsto per tutelare la parte che viene a subire le conseguenze dell’impugnazione anche contro la propria volontà e che è interessata a ottenere un giudizio imparziale sulla circostanza in base alla quale deve subire una modificazione anche importante della propria sfera giuridica e patrimoniale; a tale garanzia la parte può comunque rinunciare poiché così facendo non va a pregiudicare gli interessi di terzi in quanto di un recesso messo in atto sulla base di una circostanza poi verificatasi inesistente si potrà sempre far valere la nullità da parte di chi ne abbia interesse. Concludendo si può affermare che va considerata valida una clausola che permette a una parte, o a tutte, di recedere in caso di una eccessiva onerosità sopravvenuta da un contratto a esecuzione continuata, periodica o differita; egualmente valida è una clausola che consente al compratore di recedere nel caso scopra a posteriori la presenza di vizi che vanno ad incidere in modo consistente sul valore del bene acquistato.

Specularmene con la possibilità per le parti di accordarsi sull’esercitabilità dell’impugnazione attraverso lo strumento del recesso queste possono anche accordarsi per escludere il ricorso a determinate circostanze previste dalla legge come capaci di dar vita ad un’azione di recesso; tali previsioni hanno la funzione di attribuire una maggiore stabilità e vincolatività al rapporto contrattuale e perseguono quindi un intento certamente lecito sempre che non vada a scontrarsi con norme imperative[59]. In mancanza di un divieto specificamente espresso le parti possono quindi escludere la rilevanza di determinati fatti al fine di permettere il ricorso al recesso.

  1. L’inadempimento e i contratti tipici in presenza di fatti sopravvenuti

Nel caso in cui una delle parti si renda inadempiente è discussa la possibilità che la controparte si possa servire del recesso per reagire a tale inadempimento oltre che degli ordinari mezzi di impugnazioni previsti dall’ordinamento anche nel caso che ciò non sia previsto da specifiche disposizioni di legge né dal contratto.

In presenza di un’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. una parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione prevista a suo carico di fronte all’inadempimento della controparte ma, contrariamente all’ipotesi in cui fosse ricorso allo strumento del recesso, non scioglie il vincolo contrattuale, infatti nel caso in cui la controparte diventi poi adempiente colui che aveva presentato l’eccezione deve infine eseguire la prestazione prevista.

La giurisprudenza ha accettato la tesi di una recedibilità per inadempimento[60] affermando che la responsabilità del recedente è esclusa dalla dichiarazione di voler servirsi dello strumento del recesso ritenendosi quindi sciolto dal vincolo contrattuale in presenza dell’inadempimento della controparte. Questa decisione si basa su una tendenza dottrinale che vede attenuarsi l’efficacia vincolante del contratto e che considera il recesso un adattamento del potere di risoluzione extragiudiziale che si realizza tramite la diffida ad adempiere cui consegue un’applicazione analogica dell’art. 1454 c.c.[61] Lo scioglimento del rapporto di lavoro autonomo a causa dell’inadempimento di colui che fornisce l’opera ex art. 2224 c.c. può essere avvicinato alla diffida ad adempiere malgrado la disposizione citata si riferisca a un recesso del committente. Altri casi di recesso per inadempimento sono riscontrabili all’interno della disciplina del licenziamento per giusta causa del lavoratore subordinato nell’ipotesi in cui questa causa consista in una mancato o non esatta esecuzione della prestazione richiestagli; altro caso ipotizzabile è quello previsto nel versamento della caparra ex art. 1385[62].

La possibilità di risolvere un contratto è attribuita a una delle parti solo in caso di inadempimento di importanza non irrilevante della controparte e eccessiva onerosità della propria prestazione verificatasi dopo la conclusione del contratto e dovuta ad eventi straordinari ed imprevedibili; si ritiene in genere che una impossibilità totale sopravvenuta non imputabile a propria colpa determini una risoluzione automatica anche in mancanza di azione di colui che è interessato a farla valere.[63]

Tutti i contratti tipici che prevedono il recesso come mezzo per reagire alla sopravvenienza di fatti considerano l’inadempimento di non poca importanza come una causa che permetta di ricorrervi: in alcuni casi si fa esplicitamente riferimento a una inadempienza grave[64] in altri il riferimento è invece implicito nella formulazione della norma che si rifà a concetti generali come giusta causa[65] o gravi motivi[66]. La sopravvenuta eccessiva onerosità non viene mai indicata da una norma come causa possibile di recesso ma può essere ricompressa all’interno di concetti giuridici generali come quelli precedentemente esposti.

  1. L’impossibilità di una delle prestazioni

Il dibattito sull’impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni previste in un rapporto contrattuale e che si è concentrato sulle caratteristiche che devono essere presenti all’interno dell’evento che sopravviene al fine di liberare totalmente o parzialmente il debitore ha visto delinearsi in sostanza due grandi linee di tendenza: una che ha cercato di analizzare questa impossibilità sulla base di parametri oggettivi, l’altra che invece ha preferito concentrarsi sul fattore soggettivo della colpa di colui che non ha eseguito la prestazione risultata impossibile.

L’interpretazione oggettiva dell’impossibilità si concentra sulla prestazione da effettuare considerata in se stessa che risulta quindi non eseguibile da nessuno e non solo da un particolare debitore[67]; questa impossibilità viene considerata assoluta quando viene considerata non superabile dalle forze umane[68]. Questi requisiti particolarmente stringenti sono stati nel tempo allentati dalla dottrina e dalla giurisprudenza per evitare che colui che è obbligato ad eseguire una prestazione sia costretto a superare difficoltà molto grandi.

L’interpretazione soggettiva dell’impossibilità sopravvenuta identifica questa con un impedimento non superabile con la diligenza ordinaria prevista dall’art. 1176 c.c.[69] Sulla base della prima interpretazione la valutazione della diligenza avviene solo quando è stata stabilita l’impossibilità della prestazione che non è esigibile secondo buona fede e quindi ha la funzione di permettere di valutarne l’imputabilità al debitore escludendone o affermandone la responsabilità[70].

All’interno della giurisprudenza non sono individuabili le stesse divisioni tra interpretazione oggettiva e soggettiva dell’impossibilità sopravvenuta che tendono ad integrarsi reciprocamente[71]; in altri casi la decisione si basa sulla possibilità del debitore di evitare o di prevedere gli ostacoli che si frappongono ad un adempimento esatto della prestazione stabilendo su queste basi le sue eventuali responsabilità.

Si ritiene generalmente che una sopravvenuta impossibilità totale della prestazione prevista nel contratto operi in modo automatico a prescindere dall’azione della parte che ha interesse a farla valere[72].

Una delle cause più importanti che permettono a una parte di accedere al recesso risolutorio è la sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione della controparte ex art. 1464. In questo caso il ricorso al recesso non è utile solo alla risoluzione di singole situazioni ma rappresenta uno strumento applicabile a tutti i contratti che prevedono prestazioni corrispettive. Poiché la norma predetta non fa riferimento alla possibilità di ottenere la risoluzione del contratto mediante domanda giudiziale come invece previsto in caso di inadempimento o sopravvenuta eccessiva onerosità si può ritenere che in questo caso il recesso risulti essere l’unico strumento attivabile per perseguire tale fine. Sulla base di queste considerazioni molti hanno sostenuto che in caso di non accordo delle parti sui presupposti della risoluzione l’effetto di questa sarebbe riconducibile solo alla sentenza che assumerebbe quindi un carattere costitutivo e non invece all’atto stragiudiziale[73].

Questa interpretazione difforme dal senso letterale della norma trasforma ope iudicis il recesso in risoluzione e non è condivisa da altri che la ritengono eccessivamente volta a salvaguardare il vincolo contrattuale[74].

Secondo un orientamento giurisprudenziale di fronte a una parziale impossibilità di una delle prestazioni dovrebbe spettare alla parte creditrice di tale prestazione scegliere se ritiene più opportuno sciogliere il vincolo o ricevere la prestazione seppur decurtata. La dottrina prevalente ritiene che la non esistenza all’interesse di ricevere un adempimento parziale può essere valutato dal giudice in base a criteri oggettive e non rimessa alla volontà della parte che di questa prestazione è creditrice e quindi la valutazione del giudice condiziona l’effetto risolutivo anche nel caso in cui ci si richiami a una mancanza di utilità della parte di prestazione che non sia divenuta impossibile[75].

Si può conclusivamente considerare che non c’è stata un scelta precisa tra il concedere un diritto potestativo che dovesse edere attivato solamente in via giudiziale e l’attribuire un diritto di recesso che risulta più incisivo essendo esercitabile attraverso un atto privato seppur sottoponibile a un successivo controllo giudiziario dei presupposti su cui si è basato[76].

  1. I casi di recesso in funzione risolutiva non ricollegabili all’inadempimento o alla sopravvenienza di cause

La possibilità di recedere da un contratto può avere anche la funzione di permettere a una delle parti di liberarsi dal rapporto contrattuale poiché non è più interessato alla sua messa in atto o alla sua continuazione; queste ipotesi risultano eccezionali poiché in contrasto col generale principio della vincolatività dei contratti e sono riconosciute dalla legge in presenza di specifiche motivazioni.

Nel caso dei contratti di durata a lungo termine o addirittura perpetui che non sono generalmente ben visti dall’ordinamento giuridico si è preferito ricorrere allo strumento del recesso piuttosto che inserire di imperio un termine finale inderogabile alla durata del contratto. In tali casi la possibilità di recedere può essere attribuita a una sola delle parti o a entrambe; il diritto di recesso è inderogabile sia dove sia espressamente previsto, sia dove non lo sia come nel caso del diritto di affrancamento dell’enfiteuta ex art. 971 c.c.[77] È quindi lecito prevedere la necessità di un preavviso nelle ipotesi di recesso solo ove sia espressamente previsto da una norma, e ciò è egualmente vero per quel che riguarda l’eventuale previsione di un tempo più lungo di preavviso rispetto a quello fissato legalmente.

L’esercizio del recesso nei contratti di locatio operis[78] non provoca un vero e proprio scioglimento del rapporto, ne modifica invece il contenuto poiché a colui che fornisce l’opera è riconosciuto un corrispettivo per il lavoro già eseguito oltre al guadagno che avrebbe dovuto ottenere secondo l’accordo originario. Questi effetti risultano evidenti riguardo agli appalti e al lavoro autonomo laddove l’appaltatore e il prestatore d’opera dopo il recesso ottengono l’intero corrispettivo promesso con la sola sottrazione delle spese che avrebbe dovuto sostenere per portare a termine la prestazione; lo stesso discorso può valere per il mandato oneroso. Anche per ciò che attiene il recesso nei contratti di spedizione e di commissione valgono i medesimi principi pur in presenza di disposizioni dal tenore apparentemente più favorevoli al committente[79].

In questo tipo di regolamentazione non rientra il recesso del committente nei contratti di prestazione d’opera professionale in cui è necessario pagare solamente il corrispettivo dell’opera svolta e non risarcire tutto il mancato guadagno; ciò avviene poiché la prestazione del committente è considerata più che come un corrispettivo come un vero e proprio onorario e quindi il recesso in questo caso non può essere assimilato con altre fattispecie. All’interno di un contratto di prestazione d’opera professionale il committente può sciogliere il vincolo senza dover corrispondere alcun indennizzo. Queste considerazioni hanno portato a sostenere che questo tipo di accordo non sia un vero e proprio contratto poiché deroga al principio della vincolatività fra le parti del rapporto contrattuale [80]. Il recesso del committente non permette alle parti di ripetere le prestazioni già eseguite o il valore equivalente in denaro di esse[81]. Il ricorso a questo tipo di recesso non causa un’estinzione del vincolo poiché operando ex nunc non influisce sul diritto di chi ha fornito l’opera di ottenere una controprestazione.

A fondamento di questa scelta legislativa sul recesso sta la necessità di andare oltre gli interessi dei singoli evitando che vengano realizzate opere che colui stesso che le ha commissionate non crede più possano essere utili, permettendo così di limitare uno spreco di risorse; questo interesse alla non dispersione di risorse viene fatto prevalere sul generale principio della vincolatività dei contratti pur mettendo a carico del committente che ha errato nello scegliere l’opera da eseguire un onere economico verso colui cui l’opera è stata commissionata. Il committente può rinunciare in via preventiva a questa possibilità che la normativa in materia gli concede assumendosi così pienamente il rischio di un eventuale errore nella scelta dell’opera commissionata[82].

All’interno del rapporto creato da un contratto di mandato sia il mandante che il mandatario possono ricorrere al recesso con la differenza che il primo è tenuto al risarcimento del danno solo nel caso si tratti di un rapporto oneroso mentre il secondo vi è tenuto in ogni caso. All’interno del rapporto di mandato si sviluppa un rapporto fiduciario tra le parti e questo giustifica la possibilità per il mandatario di ricorrere allo strumento del recesso[83]. Si è posto il quesito di quale sia la differenza tra il recesso del mandatario e l’inadempimento poiché in entrambi i casi è prevista la conseguenza del risarcimento del danno ma in caso di recesso del mandatario è previsto il risarcimento del danno provocato ma non lo è, come nel caso dell’inadempimento, anche il risarcimento dei danni che il mandante avrebbe potuto evitare o ridurre nel caso fosse stato a conoscenza dell’intenzione del mandatario di non eseguire più l’incarico affidatogli[84].

Per ciò che riguarda la disciplina dei contratti di vendita a domicilio di valori mobiliari la legge n. 77 del 23 marzo 1983 ha previsto una particolare forma di tutela a favore degli acquirenti, questi possono infatti recedere dal contratto entro cinque giorni dalla data in cui è stato concluso. A seguito di queste previsioni l’efficacia del contratto risulta sospesa fino a che non sia passato il periodo di tempo previsto per poter effettuare il recesso; gli effetti del contratto sono quindi differiti e ciò è stato giustificato o sulla base di una condizione giuridica sospensiva o su quella di un termine iniziale di efficacia: a seconda di quale di queste due ipotesi venga scelta ci sono importanti differenze riguardo al trasferimento del rischio cosa che fa generalmente propendere per la prima interpretazione che consente una più piena ed efficace protezione dell’acquirente risultando così più congruente con la ratio dell’intera disciplina introdotta proprio per tutelare questa figura[85]. Da ciò consegue che in questo caso ci si trova di fronte ad un’opzione a favore dell’acquirente che risulta esercitata anche di fronte alla non azione di questo per un determinato periodo previsto piuttosto che come un contratto già concluso ma sottoponibile al recesso da parte dell’acquirente. Si è di fronte a una formazione progressiva del contratto assimilabile al caso della vendita con riserva di godimento che si perfeziona, nel caso la cosa venduta si trovi presso il compratore, dopo il passaggio di un lasso di tempo in cui questo non si pronuncia.

L’art. 1373 c.c. prevede espressamente la possibilità di recedere in caso di un mutamento di valutazione sulla convenienza di un determinato accordo; la previsione normativa risente dello scarso favore dell’ordinamento verso accordi che danno vita a rapporti precari permettendo di ricorrere al recesso solo nel caso in cui il contratto non abbia avuto ancora esecuzione pur non vietando un accordo in senso contrario[86]. Questa deroga porta a interrogarsi sull’esistenza di un limite temporale al di là del quale il recesso non possa essere consentito cui si può rispondere che non esiste un limite salvo quello della non ammissibilità di un recesso che possa essere esercitato in perpetuo poiché in tale situazione si rimetterebbe ad una sola parte la possibilità di decidere sulla effettiva vincolatività del contratto.

Restano dei dubbi sulla retroattività o meno degli effetti di questo tipo di recesso. Alcuni hanno sostenuto l’opportunità di valutare le intenzioni dei contraenti accertando quindi se questi volessero solo estinguere il rapporto contrattuale oppure farlo venir meno retroattivamente[87]; nel caso in cui non sia possibile risalire alle intenzioni delle parti sulla base di un’interpretazione oggettiva dell’art. 1369 c.c. si è ritenuto di assegnare un effetto retroattivo anche poiché solo sulla base della retroattività degli effetti del recesso è possibile soddisfare pienamente le esigenze di colui in favore del quale è previsto il diritto di recedere; questa interpretazione non è tuttavia univoca dato che una parte considerevole della dottrina opta per una soluzione di tipo opposto[88].

Una volta optato per la retroattività degli effetti del recesso è necessario valutare se a questo si applica la normativa riguardante la condizione risolutiva meramente potestativa con particolare riguardo all’opponibilità verso i terzi degli effetti retroattivi del recesso[89]. Sulla base dei principi di autonomia negoziale non sembra possibile riconoscere l’opponibilità a terzi degli effetti del recesso malgrado il fatto che il potere di recesso del venditore possa esercitarsi ex artt. 1504 e 1505 anche in pregiudizio degli interessi dei terzi subacquirenti. Il recesso ha una retroattività solo obbligatoria e ciò può essere valutato in paragone con la disciplina delle opzioni di acquisto cui non viene ritenuta applicabile la retroattività tipica delle condizioni sospensive. La giustificazione di questa diversità di disciplina è dovuta al fatto che l’ordinamento riconosce l’opponibilità ai terzi solo nel caso in cui il venir meno del vincolo sia dovuto a fatti oggettivi indipendenti dalla volontà delle parti e non alla decisione di una delle parti di non avere più convenienza al mantenimento del rapporto contrattuale. Le regole che disciplinano la condizione sono invece applicabili alla regolamentazione dei rapporti tra le parti all’interno del vincolo contrattuale[90].

Dei limiti alla possibilità di stabilire convenzionalmente il potere di recesso a favore di una delle parti debbono essere trovati all’interno della disciplina dei vari tipi di rapporto contrattuale. La possibilità di introdurre un potere di recesso a favore del locatore era ad esempio vietato nell’ambito dei contratti di locazione di immobili urbani e di affitto di fondi rustici poiché a favore del conduttore era prevista una durata minima del contratto.[91]

All’interno degli statuti delle società di capitali non è ritenuto ammissibile inserire casi di recesso diversi da quelli previsti dall’art. 2437 c.c.; questa posizione viene giustificata sulla base dell’intangibilità del capitale sociale stabilito dall’art. 2445 c.c.[92]

In alcuni casi l’introduzione del potere di recesso è considerata ammissibile ma sotto la condizione della presenza di certi presupposti o con dei limiti nel contenuto. Ad esempio per ciò che attiene il patto di riscatto ex artt. 1500 e 1501 c.c. sono previsti limiti precisi alla possibilità di recedere[93]. Casi di recesso subordinato all’esistenza di determinati presupposti sono quelli che si possono individuare nelle norme che regolano l’atto costitutivo di società di persone, cooperative e consorzi e le possibilità dell’associato di recedere[94]. Tali disposizioni hanno la funzione di tutelare l’integrità del capitale delle società e quindi di fornire garanzie ai terzi, infatti allorquando un socio si serve dello strumento del recesso non causa lo scioglimento della società ma libera se stesso dal vincolo associativo causando però una riduzione del capitale sociale in considerazione della parte di esso necessaria per rimborsare la quota del recedente[95].

Il patto di recesso può prevedere il pagamento da parte del soggetto cui è attribuito il potere di recedere ed è quindi oneroso, tale corrispettivo è chiamato multa o penale. Tale multa è differente dalla clausola penale introdotta per i casi di inadempimento. Nel secondo caso il contraente a favore del quale è pattuita una clausola penale può sempre scegliere di ottenere l’adempimento coattivo mentre nel primo caso a decidere sulla continuazione o meno del rapporto è la parte che non ha intenzione di attuare la propria prestazione.

Nel caso in cui tale corrispettivo venga versato in anticipo, cioè al momento della conclusione del contratto, viene denominato caparra penitenziale, istituto che trova specifica disciplina nell’art. 1386 c.c.; nel caso il corrispettivo non venga anticipato il suo pagamento da parte del recedente è condizione di efficacia del recesso[96]. Ciò vale anche per la eventuale presenza di ulteriori obblighi di tipo restitutorio che potrebbero gravare sul recedente poiché tali adempimenti risultano ancora più importanti per la controparte.

Il ricorso al recesso può essere condizionato, come già detto, al verificarsi di eventi futuri ed incerti, questa tipologia di recesso è assimilabile alle condizioni unilaterali il cui realizzarsi operi risolutivamente, specificando che queste producono i loro effetti non al solo verificarsi dell’evento previsto ma a seguito di una susseguente dichiarazione della parte che ha intenzione di giovarsene[97]. Tuttavia un patto di recesso condizionato e una condizione risolutiva unilaterale presentano delle differenziazioni: una volta verificatasi la condizione prevista gli effetti del contratto possono decadere salvo una dichiarazione in senso contrario dell’interessato oppure possono permanere salvo una dichiarazione risolutiva dello stesso interessato; solo nella seconda ipotesi è possibile parlare di un patto di recesso condizionato cui è applicabile la relativa disciplina, diversa da quella della condizione risolutiva.


[1] La tesi fu originariamente esposta da Carnelutti F., Del licenziamento nella locazione d’opere a tempo indeterminato,  in Riv. dir. comm., 1911, I, p. 389 ss. e poi da  Ferri G., Vendita con esclusiva, in Dir. prat. Comm., 1933, I, p. 437; essa è accolta da  Devoto A., L’obbligazione a esecuzione continuata, Padova, 1943, p. 187 ss. e Luminoso A., Il mutuo dissenso, Milano, 1980, p. 60 ss.; particolarmente diffusa tra gli studiosi del rapporto di lavoro subordinato, per i quali vedi, fra gli altri, Simi F., L’estinzione del rapporto di lavoro, Milano, 1948, p. 13; Assanti C., Il termine finale nel contratto di lavoro, Milano, 1958, p. 48 ss. Vedi inoltre Oppo G., I contratti di durata, in Riv. dir. comm., 1943, I, p. 169 ss.

[2] Nega la natura negoziale dell’atto di recesso Rescigno P., Incapacità naturale e adempimento, Napoli, 1950, p. 113 ss.

[3] Il carattere negoziale degli atti di esercizio dei diritti potestativi è stato più di recente ribadito da  Cesaro R., Il contratto e l’opzione, Napoli, 1969, p. 249 ss.; Carpino O., L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977, p. 153 ss.

[4] Cfr. Gabrielli – Padovini A., Recesso ( dir. privato ), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 28

[5] Cass. Civ. 14 novembre 2000, nei contratti formali , tra cui il preliminare di vendita di beni immobili ai sensi del combinato disposto degli art. 1350 e 1351 c.c. le cause modificative o estintive del rapporto  debbono risultare da fattori prestabiliti dalle parti nello stesso contratto e debbono essere comunque espresse nella forma espressa per il contratto al quale si riferiscono con la conseguenza che tanto l’accordo solutorio che la dichiarazione di recesso debbono rivestire la stesa forma scritta richiesta per la stipulazione del contratto preliminare.

[6] Cfr. Minervini E., Il mandato, Torino, 1957., p.227

[7] V. ancora Gabrielli G., op. cit., p.742 ss. Già prima, del resto, la dottrina aveva segnalato, e sia pure con riferimento al solo caso di certi tipi di somministrazione, che talune prestazioni a esecuzione continuata non presentano più alcun interesse, se com­piute in ritardo: v. Auletta G., La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, p. 192 e Mosco L., La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950, p. 172.

[8] La tesi della recedibilità per inadempimento è stata seguita da Cass. 14 dicembre 1985, n. 6347 , secondo cui la dichiarazione della volontà di ritenersi sciolto dal vincolo contrattuale esclude la responsabilità del dichiarante se risulti giustificata dall’inadempimento della controparte. La sentenza non indica la base normativa dell’affermazione e si ispira evidentemente alla tendenza attenuativa dell’efficacia vincolante del contratto, di cui s’è detto nel § 6. A questo orientamento aderisce una dottrina secondo cui in questi casi il recesso altro non è se non un adattamento, giustificato dai caratteri obiettivi del rapporto, del potere di risoluzione extragiudiziale che si attua con la diffida ad adempiere, con la conseguente possibilità di applicazione analogica dell’art. 1454 c.c.

[9] Gabrielli G., op. cit., p.740, nt. 24. La dottrina più recente in tema di ripetizione delle prestazioni di fare non dovute ( v. soprattutto Moscati, Pagamento dell’indebito, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoia A. e Branca G., Bologna, 1981, sub art. 2033-40, p. 166 ss., anche per ulteriori riferimenti) inclina a distinguere, secondo che l’accipiens sia stato in buona o mala fede; a quest’ultimo – e tale è, ovviamente, l’accipiens che risulti inadempiente – incombe l’obbligo di restituire il valore di mercato della prestazione di fare eseguita da controparte (o, addirittura, di versare il corrispettivo contrattualmente fissato, quand’esso sia superiore al valore di mercato, per impedire che egli tragga vantaggi dalla circostanza di avere dato causa al vizio del apporto; ma, alme­no quando il vizio consista nell’inadempimento, l’inconveniente si evita già in forza del risarcimento del danno, che spetta alla controparte in aggiunta alla restituzione).

[10] Vedi., per tutti, Sangiorgi A., voce Giusta causa, in Enc.dir., XIX, pp. 545 e 547 ss.

[11] Ancorché ciò sia espressamente richiamato solo nella norma dell’art. 1463 c.c., relativa alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta: e v. in proposi­to, anche per i riferimenti giurisprudenziali, Moscati E., Pagamento dell’indebito, Bologna, 1980, sub artt. 2033-40, pp. 134 e 144 ss.; onde viene meno, nel vigente ordinamento, ogni ragione per distinguere fra condictio indebiti e condictio ob causam finitam. Diversa impostazio­ne in Mancini G.F., op. cit., I, p.28 ss., secondo il quale non soltanto il recesso, ma gli stessi strumenti ordinari di risoluzione opererebbero con retroattività meramente obbli­gatoria (e cioè solo apparente), come dimostrerebbe la circostanza che essi, a differenza delle impugnative fondate su vizi originari, non inciderebbero, nei contratti di durata. sulle prestazioni già eseguite; ma quest’ultima circostanza non risponde al vero (v. inoltre Luminoso A., Il mutuo dissenso, Milano, 1980, specie p. 243 s., nt. 286). Va, piuttosto, sottolineato che la retroattività del mezzo d’impugnazione può ben essere reale, anche quando sia relativa (e cioè non pregiudichi determinati acquisti di terzi): v. ancora, anche per ulteriori riferimenti dottrinali, Luminoso A., op. cit., p. 149 ss.

[12] Mirabelli A., Dei contratti in generale, Torino, 1980.; Distaso C.., I contratti in generale , Torino, 1980

[13] In materia di mandato, “l’irretroattività della revoca è un principio general­mente ammesso dagli interpreti”: Bavetta A., voce Mandato (dir. priv.) , cit., p.376. Ma non si vede perché, sopraggiunto un fatto che rende inutile o dannosa la prosecuzione dell’attività da parte del mandatario, il mandante che ad esso reagisce debba essere trattato alla stessa stregua di quello che recede, invece, immotivatamente; l’esonero dall’obbligo di risarcire il danno, che la norma prevede espressamente, non è idoneo, da solo, a differen­ziare adeguatamente il trattamento delle due ipotesi. Nello stesso ordine di idee qui soste­nuto, sebbene non faccia specifico riferimento al caso del mandato, è Di Majo Giaquinto A., Recesso unilaterale  e principio di esecuzione, cit., p. 125.

[14] Quindi, in contrasto con le conclusioni di autorevole dottrina, non sembra che l’indennizzo trovi necessariamente un limite massimo nell’arricchimento derivato all’appal­tante dai lavori già eseguiti (Rubino A., L’appalto , con note di Moscati E., in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli F., Torino, 1980, p. 462 ss.): l’appaltatore avrà diritto di essere rimborsato sulla base del valore oggettivo del facere prestato ovvero su quella del corri­spettivo contrattualmente fissato, qualora fosse più basso del valore medesimo, in confor­mità dei principi che regolano la ripetizione contro un acci­piens di mala fede. Né la tesi qui proposta sembra contraddetta dalla circostanza che, secondo la formazione letterale della norma, possono verificarsi casi in cui l’appaltatore non ha diritto a ricevere alcunché, quando sia stato proprio lui a recedere (Rubino A., op. cit.): anche se si applicano solo le regole in materia di ripetizione, senza introdurre il limite dell’ arricchimento, può ben darsi che nessuna restituzione l’appaltante debba operare, in quanto nessun risultato, utile o inutile, dell’opera di controparte resti, dopo il recesso, acquisito al suo patrimonio. L’unica deviazione della disciplina in esame, rispetto alle conseguenze. che discenderebbero secondo i principi da una risoluzione ex tunc, sem­bra costituita dalla circostanza che, ove a recedere sia l’appaltante, un certo indennizzo alla controparte compete in ogni caso, anche se nessun risultato, utile o inutile, dell’opera prestata resti acquisito allo stesso appaltante. Questa peculiarità, d’altra parte, può spie­garsi con l’intendimento di scoraggiare il recesso dell’appaltante che a differenza di quello dell’appaltatore, destinato di regola ad essere sostituito da altri comporta l’inter­ruzione definitiva di un’opera il cui compimento avrebbe dato luogo a un obiettivo incre­mento di ricchezza.

[15]V., sul punto, Gabrielli G., Recesso e risoluzione per inadempimento, cit., p. 734 s. e, ivi, nt. 17 e 18 per i necessari riferimenti dottrinali; più recentemente, Trimarchi P., Istituzioni di diritto privato, Milano, 1981, p. 370; Luminoso A., op. cit., pp. 233, nt. 270 e 244 ss., nt. 286).

[16]  Sul punto v., con ampio riferimento alle oscillazioni giurisprudenziali, Mirabelli A., op. cit., sub artt. 1467-1469, p.659 ss.; Sacco R., op. cit., p. 1000 ss.; Tartaglia C. Onerosità eccessiva, in Enc. dir., XXX, p. 170.

[17] Cfr.GABRIELLI, op. ult. cit., 40.

[18] Altri argomenti a favore della retroatrività del recesso sono colti nell’art. 1385 c.c. e nell’accostamento dell’istituto a quello della risoluzione, per la quale la retroattività inter partes è disposta dall’art. 1458 (e 1467) c.c.: cfr. GABRIELLI, op. ult. cit.,41 e 47.

[19] De Nova G., Il recesso, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, X, Torino, 1995, p. 641

[20] Franzoni M., Degli effetti del contratto, in Commentario del codice civile, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1998, p. 312,

[21] Cfr., sul punto, LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, p. 43 (sub b), inoltre 143 ss.; CAPOZZI, Mutuo dissenso, in Vita Not., 1973, 607 ss.

[22] Cfr. Giampiccolo C., La dichiarazione recettizia, Milano, 1959, p. 80 ss.; Cass. 19 maggio 1979, n. 2873.

[23] Per ciò che riguarda le cooperative la dichiarazione va inviata, secondo l’art. 1526 c.c., alla società; per le associazioni, in base all’art. 24 c.c., agli amministratori; per le società di persone e quelle di capitali nulla è previsto: per le prime si ritiene che l’atto vada comunicato singolarmente a tutti i soci dato che generalmente la modificazione dell’atto costitutivo deve essere approvato con l’accordo di tutti, per le seconde è considerata destinataria la società stessa, dato che spetta al suo organo assembleare provvedere alle modifiche dell’atto costitutivo.

[24] In particolare  va sottolineato che per le lettere raccomandate la consegna a soggetti diversi dal destinatario è ammessa in casi più limitati che per le notificazioni come ha rilevato Giampiccolo C., op. cit., p. 360 ss.

[25] Cfr. Franzoni M., Degli effetti del contratto, in Commentario del codice civile diretto da Schlesinger P., Milano, 1998, p. 316; Cass. 20 novembre 1990, n. 11179; Cass. 28 settembre 1995, n. 10252.

[26] Cfr. Brida S., Dimissioni del lavoratore e violenza morale, in Dir. lav., 1996, I, p.222; Cimmino A., Il recesso unilaterale dal contratto, Padova, 2000, p. 62.

[27] Cassazione civile Sentenza, Sez. II, 16/12/2004, n. 23455 Agenzia – Contestazione immediata delle ragioni poste a base del recesso per giusta causa  Il principio della necessità della contestazione immediata, sia pure sommaria, delle ragioni poste a base del recesso per giusta causa, con la conseguente preclusione di dedurre successivamente fatti diversi da quelli contestati, opera sia per il rapporto di lavoro subordinato che per quello di agenzia – data l’analogia dei due rapporti – ma in relazione solo al recesso del datore di lavoro o del preponente, mentre il recesso per giusta causa (con conseguente diritto all’indennità per mancato preavviso) del lavoratore o dell’agente non è invece condizionato ad alcuna formalità di comunicazione delle relative ragioni, sicchè, a tal fine, può tenersi conto anche di comportamenti (del datore di lavoro o del preponente) ulteriori rispetto a quelli lamentati nell’atto di recesso (del lavoratore o dell’agente).

[28] Una decisione della Corte di Cassazione (Cass. sez. lav. 2 maggio 2000, n.5467, in Disc. comm., 2000, 1078, con nota di F. Di Ciommo, Diritto alle provvigioni e recesso dell’agente per giusta causa) offre lo spunto per effettuare una verifica sull’applicabilità dell’art.2119 c.c. al contratto di agenzia, ritenuto da parte di alcuni solo riferibile all’area del lavoro dipendente. Tale pronuncia riconosce l’applicabilità della norma nel caso in cui il preponente abbia esercitato il potere contrattualmente previstogli di riduzione dell’ambito territoriale dell’agente in maniera contraria alla buona fede ed alla correttezza. ’indirizzo pare confermato dalla recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 5 novembre 1997, n.10852, in Rep. Foro. It., 1997, voce Agenzia, n.25; Cass. 15 novembre 1997, n.11376, ibid., n.24; Cass.14 gennaio 1999, n.368, Rep. Foro. it., 1999, voce cit., n.8; Cass.1° febbraio 1999, n.845, ibid., n.12; Cass. 20 aprile 1999, n.3898, ibid., n.15; in senso non del tutto conforme Cass. 18 marzo 1993, n.3221, in Mass. giur. lav., 1993, 570, con nota di Rossi) e di merito (Trib. Firenze, 9 settembre 1996, in Toscana giur., 1997, 195; App. Perugia, 9 luglio 1994, Rass. Giur. umbra, 1994, 605, con nota di Gatti; Trib. Torino, 25 febbraio 1995, in Giur. piemontese, 1995, 38). a giurisprudenza, in particolare, ha ritenuto che, in  assenza  di  un’espressa  previsione relativa alla possibilità di recedere senza preavviso dal rapporto di agenzia, per lo stesso trova applicazione in via analogica l’istituto del recesso per giusta causa di  cui  all’art.  2119  c.c.,  a  cui  il  soggetto  legittimato può ricorrere   anche   dopo   che   la   controparte   abbia  provveduto all’intimazione  del recesso con preavviso, ferma restando l’esigenza di rispettare la regola dell’immediatezza del recesso senza preavviso rispetto alla sua causa giustificatrice (immediatezza da intendere in senso  relativo,  con  riguardo,  cioè  ai tempi necessari secondo le circostanze   per  gli  opportuni  accertamenti  e  l’adozione  delle conseguenti  decisioni).  Il  riferimento all’istituto dell’art. 2119 c.c. comporta  anche  il  riconoscimento  del  diritto  dell’agente recedente  all’indennità  sostitutiva  del  preavviso.

[29] Tale recesso è detto ad nutum cioè praticabile con un solo gesto, senza necessità di fornire motivazioni.

[30] Toffoletto F., Il recesso nel contratto d’opera e nel contratto di lavoro autonomo di durata, in AA.VV., Recesso e risoluzione, Milano, 1994, p.973; Burragato F., Riflessioni in tema di recesso nel contratto d’opera intellettuale e rapporti di durata, ibidem, pp. 1007-1011. Vedi anche Corte cost., sent. n. 209/1974, in Foro it., 1974, I, c.597

[31] Cass. 29 aprile 1993, n. 4507, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 434, con nota di S. Cecconi, Recesso dal contratto a tempo indeterminato e modificazione unilaterale, secondo la quale il recesso dell’imprenditore dal contratto collettivo a tempo indeterminato può cancellare gli obblighi che da questo derivano ma non toglie efficacia ai contratti individuali in corso (salvo nuovi accordi, collettivi o individuali), che rimangono assoggettati al loro proprio regime temporale; in Riv. giur. lav., 1994, II, p. 59; Cass. 9 giugno 1993, n. 6408, in Orient. giur. lav., 1994, p. 6, con nota di M. Tiraboschi; Cass. 20 settembre 1996, n. 8360; 25 febbraio 1997, n. 1694, in Dir. lav., 1997, II, p. 526, con nota di L. Fantini, Ultrattività della contrattazione collettiva e recesso dal contratto collettivo senza predeterminazione di durata. Ancorché il contratto di lavoro individuale sia stato stipulato a tempo indeterminato, gli obblighi assunti dal datore verso il prestatore sono tuttavia a tempo limitato, poiché sono destinati ad estinguersi comunque con la morte del secondo (dies certus an etiam incertus quando). Perciò l’imprenditore, mentre può recedere dal contratto collettivo stipulato sine die, non può recedere unilateralmente dal contratto individuale (Cass. 7 marzo 2002, n. 3296).

[32] D’Avanzo W., op.cit., p.1027; Roselli F., Potestà ( dir. civ ), in Enc. giur., XXIII, Roma, 1991, n.6 ed ivi richiami

[33] Franzoni M., op.cit., p.322. Cass. 29 giugno 1981 n.4241, in Giust.civ. 1981, I, 2931, afferma che, anche in caso di recedibilità ad nutum, il recesso non è valido se determinatola unico e illecito motivo. Nel contratto di comodato, caratterizzato dalla temporaneità d’uso, la mancanza di un termine finale direttamente previsto dalle parti non autorizza il comodante a richiedere ad nutum la restituzione della cosa, quando sia possibile ravvisare una indiretta determinazione di durata attraverso la delimitazione dell’uso consentito della cosa, desumibile dalla natura di essa, dalla professione del comodatario, dall’esame degli interessi e delle utilità perseguite dai contraenti ( Cass. 8 marzo 1995, n. 2719, in Giust.civ., 1996, I, p.1773, con nota di De Tilla M. )

[34] Betti E., Negozio giuridico, Torino, 1964, p.180

[35] Cfr. Pera G., La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980

[36] Cfr. Roselli F., Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1989; Id, Clausole generali: l’uso giudiziario, in Politica del diritto, 1988, p. 667; Id, Clausola generale di giusta causa di licenziamento e sindacato di legittimità, in Giur. it., 2000, p. 263

[37] Un’eccezione si può rinvenire nella disciplina dei rapporti bancari secondo cui valido motivo di recesso è una variazione sfavorevole al cliente dei tassi di interesse.

[38] La Corte di Cassazione con sentenza n. 3337 del 14 maggio 1983 ha affermato che per accertare l’esistenza di una giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c. a rilevare, più della dimensione del danno subito dal datore di lavoro a causa del comportamento del dipendente, è il danno inflitto da questo comportamento al rapporto di fiducia necessario tra le due parti.

[39] Cfr. Sangiorgi A.,  voce Giusta causa, in Enciclopedia del diritto, 1970

[40] Cfr. Gabrielli, G. Recesso e risoluzione per inadempimento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1974

[41] Ciò viene generalmente sostenuto malgrado una sentenza estremamente remota si sia espressa in senso contrario, infatti il Tribunale di Palermo con una sentenza del 31 ottobre 1947 aveva affermato che in caso di contratto a esecuzione differita, la sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione di una parte a causa della svalutazione monetaria non permette il recesso unilaterale dal contratto ma consente solo di chiederne la risoluzione che nel caso sarebbe stata pronunciata dal giudice.

[42] GABRIELLI, op. ult. cit., 56.

[43] La disposizione di cui al comma 2 dell’art. 1385 c.c. (relativa alla facoltà della parte non inadempiente di recedere dal contratto ritenendo la caparra ricevuta o esigendone il doppio rispetto a quella versata) non è applicabile tutte le volte in cui la detta parte, anziché recedere dal contratto, si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, perdendo, in tale ipotesi la caparra la sua funzione di liquidazione convenzionale anticipata del danno, così che la sua restituzione è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione (Cass. 3 luglio 2000, n. 8881; Cass. 17 luglio 2000, n. 9407; 29 agosto 1998, n. 8630).

[44] La parte adempiente, che abbia agito per l’esecuzione o risoluzione del contratto e per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1453 c.c., può, in sostituzione di dette pretese, chiedere anche in appello il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385, comma 2, c.c., non costituendo tale richiesta una domanda nuova, bensì configurando, rispetto alla domanda di risoluzione (o di adempimento), l’esercizio di una perdurante facoltà e solo un’istanza ridotta con riguardo alla proposta risoluzione, nello stesso ambito risarcitorio, in relazione all’inadempimento dell’altra parte (Cass. 6 settembre 2000, n. 11760; 11 gennaio 1999, n. 186; 15 febbraio 1996, n. 1160).

[45] La questione per lungo tempo è stata impostata in termini di discriminazione tra il contratto preliminare ed il definitivo di compravendita, pretendendosi di ravvisare nella dazione di caparra un sicuro indice di non definitività del contratto. La giurisprudenza più recente ha sconfessato tale pregiudizio, affermando che “il versamento di una somma “a titolo di caparra”, da parte di uno dei contraenti non è necessariamente incompatibile con la natura definitiva del contratto, in genere, e della compravendita, in specie. Questa Corte, in passato, ha ritenuto diversamente (v. sent. n. 934 del 25 marzo 1972) ma più approfondite considerazioni impongono di non confermare quella giurisprudenza”: così testualmente Cass. 4023/1978, in Riv. Not., 1979, II, 132, ed in Giust. civ., 1979, I, 312. Il nuovo orientamento è confermato da Cass. 6040 /1979, in Riv. Not., 1980, II, 1556. In dottrina, in tal senso, cfr. MARICONDA, Delle obbligazioni, cit., 370.

[46] Che, si deve sottolineare, non è riferito dalla norma ad una obbligazione, al contrario di quanto è detto nell’art. 1453 c.c.

[47] Vedi da ultimo Bianca C.M., La vendita e la permuta, Torino, 1993, p.243 ss.

[48] Cfr. Mancini G.F., Il recesso unilaterale, Milano, 1962, p.88 ss.

[49] Uno spunto in tal senso prospetta Di Majo G., Recesso unilaterale e principio di esecuzione, cit, p.119

[50] Cfr.  Rubino A., La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1952, p. 106 ss.; Pietrobon C., L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1953., p. 430 ss.

[51] Per un quadro compiuto vedi Visentini V., La reticenza nei contratti di assicurazione, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 448 ss.

[52] La lacuna della disciplina speciale che regola, dopo aver impostato due coppie di distinzioni operanti su piani diversi, secondo che l’inesattezza o reticenza sia frutto o no di dolo o colpa grave e secondo che essa abbia determinato la conclusione stessa del contratto oppure abbia influito semplicemente sulle sue condizioni, solo tre delle quattro ipotesi che ne risultano, è avvertita dagli interpreti. L’opinione prevalente finisce per ricollegare al recesso, nel caso non regolato, la stessa disciplina dell’annullamento ex art. 1892 c.c. ( Donati A. Trattato di diritto delle assicurazioni private, II, Milano, 1954, p. 318; Salandra S., Dell’assicurazione, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1966, p. 242 ); risultato sconcertante poiché in questo modo si consente all’assicuratore, e proprio nel caso in cui meno c’è da rimproverare alla controparte, di raggiungere lo stesso risultato dell’annullamento ex art. 1892 con il più sbrigativo metodo stragiudiziale. Altri ritengono invece che il legislatore abbia presunto una coincidenza tra la mancanza nell’assicurato di dolo o colpa grave e l’errore solo incidentale dell’assicuratore ( Visentini V., op. cit., p. 439 ); ma non chiarisce espressamente come debba regolarsi il caso, quando, in concreto, la presunzione possa essere vinta.

[53] Giustamente si rileva che una ritenzione parziale dei premi da parte dell’assicuratore sarebbe fondata, anche se si applicassero senza deviazioni le regole generali, in considerazione delle spese di acquisizione ed amministrazione da lui sostenute ( Mancini G.F., op. cit., I, p. 99 ). Si perviene, così a suggerire una soluzione analoga a quella sancita nel progetto di codice di commercio del 1940, con norma poi inesplicabilmente scomparsa dal testo definitivo del vigente codice civile ( Salandra, op. cit. )

[54] Vedi per indicazioni Rudan, in Mangini e Rudan A., Il contratto di appalto – Il contartto di somministrazione, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale diretta da Bigiavi, 1972, p. 396

[55] Cfr. Ghezzi G., Del contratto di agenzia, cit., p. 202

[56] Cfr. Ferri G., Associazione in partecipazione, in Nss. D. I., I, p. 1438; ma in senso contrario De Ferra S., Dell’associazione in partecipazione, cit, p. 66

[57] Franzoni M, op. cit., p. 332. Cass. 29 giugno 1981 n. 4241, in Giust. civ. 1981, I, 2931, afferma che, anche in caso di recedibilità ad nutum, il recesso non è valido se determinato da unico e illecito motivo. Nel contratto di comodato, caratterizzato dalla temporaneità d’uso, la mancanza di un termine finale direttamente previsto dalle parti non autorizza il comodante a richiedere ad nutum la restituzione della cosa, quando sia possibile ravvisare una indiretta determinazione di durata attraverso la delimitazione dell’uso consentito della cosa, desumibile dalla natura di essa, dalla professione del comodatario, dall’esame degli interessi e delle utilità perseguite dai contraenti (Cass. 8 marzo 1995, n. 2719, in Giust. civ., 1996, I, p. 1773, con nota di De Tilla M.).

[58] Del resto, in materia di inadempimento, la legge stessa prevede, contemplando la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., il cui significato sta, anzitutto, nel consentire la risoluzione non solo in via stragiudiziale, ma anche con effetto immediato, senza bisogno di accordare alla parte inadempiente un congruo termine. La competenza dei privati a disporre con negozio bilaterale gli effetti della risoluzione, o rescissione, o annullamento, è stata oggetto del resto di un’analisi dottrinale che giunge a riconoscerla senz’altro: vedi Luminoso A., Il mutuo dissenso, cit., p. 349 ss.

[59] Vi sono norme che non consentono alle parti di reagire a certi fatti mediante il recesso sulla base di una particolare protezione attribuita a una delle parti: sarebbe ad esempio nulla una clausola che impedisse al conduttore di un immobile urbano di recedere prima della scadenza del contratto, facoltà che la legge gli assegna in presenza di gravi motivi; parimenti nulla sarebbe una clausola che vietasse di recedere da una società di capitali in presenza di deliberazioni che modifichino sostanzialmente l’atto costitutivo della società stessa.

[60] Cass. 14 dicembre 1985, n. 6347

[61] Cfr. Gabrielli, G. Vincolo contrattuale, cit., p. 41

[62]   I rimedi risarcitori di cui al secondo e al terzo comma dell’articolo 1385 Codice civile non sono cumulabili tra loro e pertanto il giudice, adito dalla parte che ha corrisposto la caparra per ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte ed il risarcimento dei danni (articolo 1385, terzo comma, Codice civile) non può pronunciare la risoluzione del contratto e al contempo condannare la parte inadempiente a pagare pur in assenza di prova dei danni, il doppio della caparra ricevuta, ancorché la parte adempiente abbia in tal senso ampliato la domanda originaria, perché se la parte adempiente chiede la risoluzione del contratto, significa che intende realizzare gli effetti propri dell’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’articolo 1453 Codice civile, e non esercitare il recesso di cui al secondo comma dell’articolo 1385 Codice civile.  (Cassazione civile Sentenza, Sez. III, 20/09/2004, n. 18850 )

[63] V., per tutti, Mirabelli, C., Dei contratti in generale 3, cit., sub artt. 1463-1466, p. 645. Ma, per la prospettazione di un dubbio nei confronti di questo diffuso orientamen­to, v. Gabrielli G., Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974, p. 356 ss., dove si rileva che la tesi dominante sembra comportare la pratica inapplicabilità della norma di cui all’art. 1259 c.c., relativa al commodum surrogationis del creditore di prestazione divenuta impossibile. Se si ammettesse che anche nel caso di sopravvenuta impossibilità totale d’una delle presta­zioni è pur sempre rimesso all’arbitrio della controparte il provocare o no la risoluzione – potendo essa, in alternativa, preferire di eseguire egualmente la prestazione propria, pur di surrogarsi nei diritti che spettano, in dipendenza dell’impossibilità, al debitore della presta­zione impossibile – allora potrebbe ammettersi anche che, nei rapporti contrattuali da cui è consentito il recesso per giusta causa, rientri nell’àmbito di quest’ultima pure la sopravve­nuta impossibilità totale della prestazione di controparte: per esempio, il perimento del­l’immobile acquistato per conto del mandante dal mandatario privo di poteri rappresentati­vi non determinerebbe senz’altro l’estinzione del mandato, ma legittimerebbe il recesso per giusta causa del medesimo mandante (contra Minervini G., Il mandato, Torino, 1957., p.223 s.); re­cesso che egli potrà (e dovrà) non esercitare, qualora voglia subentrare nei diritti che il perimento ha fatto sorgere in capo al mandatario, il quale, al tempo dello stesso perimen­to, era ancora proprietario dell’immobile.

[64] Avviene, per esempio, in quella dell’art. 2286 c.c., relativo all’esclusione del socio.

[65] Per esempio, artt. 2119 c.c., quanto a rapporto di lavoro subordinato a termine; 2237, comma 2, c.c. quanto al recesso del professionista; 2285, comma 2, c.c., relativa mente al recesso del socio dal rapporto a tempo determinato

[66] Art. 24, comma 3, c.c., con riguardo all’esclusione dell’associato

[67] La teoria oggettiva della responsabilità contrattuale risale all’Osti. Si veda in particolare: Osti G., Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. Dir. Civ., 1918, p. 209 ss.; Id, voce Impossibilità sopravveniente, in Noviss. Dig. It., VIII, Torino, 1962, pp. 287-300. per una ricostruzione approfondita delle diverse opinioni dottrinali in merito all’impossibilità sopravvenuta si veda: Pisu C., sub art. 1463 Codice civile, in Impossibilità sopravvenuta, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, libro IV, Delle obbligazioni, Bologna-Roma, 2002, p. 44 ss.

[68] All’assolutezza così definita deve essere equiparato, secondo l’interpretazione di Osti, l’impedimento superabile solo con un’attività illecita  o mettendo in pericolo l’integrità personale o un altro attributo della personalità.

[69] Si veda in particolare Bianca C.M., Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, libro IV, Delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1979, p. 98 ss.

[70] Cfr. Pisu C., Spunti sul factum principis e la responsabilità del debitore, nota a App. Milano, 7 luglio 1970, in Foro pad., 1972, pp. 616-619. Tra i vantaggi di tale impostazione viene evidenziata la possibilità di risolvere in modo soddisfacente anche casi in cui l’impossibilità sopravvenuta non è riconducibile ad un comportamento del debitore, bensì ad un factum principis: in tali ipotesi, infatti, una valutazione del comportamento del debitore secondo il criterio della buona fede offre una soluzione più adeguata rispetto ad un’indagine condotta unicamente con riferimento alla diligenza.

[71] Si vedano ad esempio: Cass. 28 novembre 1998, n. 12093; Cass. 13 agosto 1990, n. 8249; Cass. 5 giugno 1976, n. 2046

[72] Vedi per tutti Mirabelli A., Dei contratti in generale, cit., p. 645. Ma per la prospettazione di un dubbio nei confronti di questo diffuso orientamento, vedi Gabrielli, G. Il rapporto giuridico preparatorio, cit., p. 356 ss., dove si rileva che la tesi dominante sembra comportare la pratica inapplicabilità della norma di cui all’art. 1259 c.c., relativa al commodum surrogazionis del creditore di prestazione divenuta impossibile. Se si ammettesse che anche nel caso di sopravvenuta impossibilità totale di una delle prestazioni è pur sempre rimesso all’arbitrio della controparte il provocare o no la risoluzione, potendo essa, in alternativa, preferire di eseguire egualmente la prestazione propria, pur di surrogarsi nei diritti che spettano, in dipendenza dell’impossibilità, al debitore della prestazione impossibile, allora potrebbe ammettersi anche che, nei rapporti contrattuali da cui è consentito il recesso per giusta causa, rientri nell’ambito di quest’ultima pure la sopravvenuta impossibilità totale della prestazione della controparte: per esempio, il perimento dell’immobile acquistato per conto del mandante dal mandatario privo di poteri rappresentativi non determinerebbe senz’altro l’estinzione del mandato, ma legittimerebbe il recesso per giusta causa del medesimo mandante ( in senso contrario Minervini A., Il mandato, cit., p. 223 ss. ); recesso che egli potrà e dovrà non esercitare, qualora voglia subentrare nei diritti che il perimento ha fatto sorgere in capo al mandatario, il quale, al tempo dello stesso perimento, era ancora proprietario dell’immobile.

[73] In questo senso Mirabelli A., Dei contratti in generale 3, cit., sub artt. 1463­1466, p. 647 s. e Distaso C.., I contratti in generale , Torino, 1980, III, p. 2218.

[74] Sacco R., Il contratto, Torino, 1975, p. 978 e, ivi, nt. 2.

[75] Mirabelli A., op. cit. Né, a ben vedere, si discostano da questo orienta­mento i risultati della diffusa analisi di Sgroi, G. L’impossibilità parziale della prestazione nei contratti sinallagmatici, in Giust. civ., 1953, p. 734 ss. (conforme anche Mancini G.F., Il recesso unilaterale, Milano, 1962, I, p. 76 s.): più che di respingere la necessità di una valutazione in termini obiettivi, l’autore si preoccupa di sottolineare che tale valutazione va compiuta in concreto, e non già in astratto (per analoga impostazione, in fatto di giudizio sull’essenzialità dell’errore, v. Pietrobon  V. , L’errore, Padova, 1963., p. 350 ss.).

[76] Sulla distinzione tra diritti potestativi secondo la modalità di esercizio vedi Falzea S., La separazione personale, Milano, 1942, p. 127 ss.; più di recente, anche per ulteriori riferimenti, Gabrielli G., Il rapporto giuridico preparatorio, cit., p. 177 ss. e Carpino C., L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977, p. 111 ss.

[77] Cfr. Iannelli F., La nuova enfiteusi, Napoli, 1975, p. 130 ss.

[78] Tra questi l’appalto ( art. 1671 c.c. ), il lavoro autonomo ( art. 2227 c.c. ), la prestazione d’opera professionale ( art. 2237 c.c. ), il mandato oneroso ( art. 1725 c.c. ), i sottotipi della commissione ( art. 1734 c.c. ) e della spedizione ( art. 1738 c.c. ).

[79] Cfr. Minervini G., Il mandato, cit, p. 179 ss.; Mancini G.F., op. cit., p. 63 ss.

[80] Cfr. Mancini G.F., op. cit., p. 63 ss.

[81] Cfr. Rubino A., L’appalto, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli F., VII, 1980, p. 544 ss.

[82] Cfr. Rubino A., op. cit., p. 827

[83] Cfr. Mancini A., op. cit, p. 229

[84] La norma dell’art. 1227 comma 2 c.c. non impone infatti al creditore l’onere di attivarsi in ogni caso. Cfr. Bianca C.M., Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Libro quarto, cit., p. 426 ss.

[85] Cfr. Roppo G., Offerta al pubblico di valori mobiliari e tecniche civilistiche di protezione dei risparmiatori-investitori, in Giur. it., 1983, IV, p. 208

[86] Cass., 4 dicembre 1980, n. 6318.

[87] Cfr. Scognamiglio C., Contratti in generale, in Trattato di diritto civile diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, Milano, 1972, p. 205; Capozzi G., Mutuo dissenso, in Vita not., 1973, p. 605 ss.; Luminoso A., Il mutuo dissenso, Milano, 1980

[88] In questo senso vedi: Rubino A., La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, cit., p. 1079 ss.; Chiomenti C., La revoca delle deliberazioni assembleari, Milano, 1969, p. 41 ss.

[89] Cfr. Villani S., Condizioni unilaterali e vincolo contrattuale, in Riv. dir. civ., 1975, I, p. 586 ss.; Stanzione S., Situazioni creditorie meramente potestative, Napoli, 1982, p. 109 ss.

[90] Ci si potrà così riferire all’art. 1359 c.c. in tema di avveramento fittizio o all’art. 1361 c.c. con riguardo ai frutti percepiti durante la pendenza.

[91] Tali disposizioni erano contenute nelle leggi n. 392 del 27 luglio 1978 ( artt. 1, 27 e 42 ) e n. 203 del 3 maggio 1982 ( artt. 1 e 22). Si è sostenuto basandosi sulla possibilità di inserire condizioni risolutive che una previsione di recesso sarebbe stata lecita nel caso il suo esercizio fosse condizionato al verificarsi di circostanze future ed incerte ma non sarebbe ammissibile neanche l’inserimento di una condizione risolutiva poiché la sua presenza finirebbe sempre per limitare la durata del contratto.

[92] Per una sintesi vedi Presti O., Questioni in tema di recesso nelle società di capitali, in Giur. comm., 1982, I, p. 100 ss.

[93] È nulla tra l’altro ogni clausola che assegni un corrispettivo alla parte che subisca il recesso anche se tale limite non dovrebbe esistere nel caso in cui il riscatto sia esercitabile e venga di fatto esercitato solo prima che la vendita abbia prodotto effetti traslativi. Cfr. Rubino A., La compravendita, cit., p. 1084 ss.; Bianca C.M., La vendita, cit., p. 573

[94] Per precisazioni al riguardo vedi: Siniscalchi S., Il diritto di recesso nelle cooperative, in Giust. civ., 1958, I, p. 1584

[95] Con approfondimenti vedi  Auletta A., Il diritto assoluto d’esclusione nelle società di persone, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, p. 676 ss.

[96] Cfr. Mirabelli A., Dei contratti, cit., p. 301; De Nova C., Il recesso, in Trattato di diretto privato diretto da Rescigno P., Obbligazioni e contratti, X, Torino, 1982, p. 555

[97] Cfr. Costantini A., Appunti sulla condizione unilaterale, in Dir. giur., 1970, p. 13 ss.; Villani C., op. cit., p. 557; Smiroldo C., Condizione unilaterale di vendita o di preliminare di vendita immobiliare collegata al rilascio della licenza edilizia, in Giur. it., 1976, I, p. 551 ss.

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