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Le teorie e le caratteristiche delle varie riserve di legge: profili critici

  1. La ratio garantistica nella riserva di legge

Preliminarmente occorre distinguere fra coloro che ritengono che a base della riserva o meglio delle varie riserve presenti nella costituzione[1] vi sia una ratio unica, e coloro che, rinunciando a una visione unitaria del fenomeno, lo automatizzano rinvenendo a fondamento dei vari rinvii che la costituzione fa alla legge ragioni profondamente diverse, peculiari, storicamente e dommaticamente, alle singole materie oggetto di riserva.

Ed invero, in relazione al primo orientamento va sottolineato come coloro che appoggiano una formulazione più rigida di riserva di legge  si muovono in varie direzioni ovvero accanto a chi ripropone tout court la vecchia teoria della legge come garanzia dei diritti[2] vi è anche chi mette piuttosto l’accento sull’uguaglianza formale che verrebbe assicurata dall’intevento legislativo  altri invece pur attribuendo alla riserva una funzione di tutela di particolari posizioni giuridiche fondamentali del cittadino, dubita che la si possa considerare una garanzia costituzionale o ritiene che tale garanzia si realizzi solo quando della riserva si faccia un uso marginale in profili non essenziali di alcune situazioni[3] un aggiornamento[4] .

  1. La riserva di legge e le implicazioni della rigidità costituzionale sull’assetto delle fonti

Negli ordinamenti a costituzione rigida che ricevono per l’appunto concretezza ed effettività n seguito alla previsione di un sindacato sulla legittimità della legge, il concetto di legge come atto primario tende ad attenuarsi notevolmente nel senso che la primarietà si riduce alla subordinazione immediata di essa alla costituzione, e quindi solo questa può porsi come limite e condizione di validità della legge.

Ma tale tesi non  è stata accolta unanimemente da parte della dottrina  che sostiene invece la programmaticità delle disposizioni costituzionali . Tale orientamento trova la sua origine nei problemi sorti in merito alla sopravvenienza o meno o meglio ai limiti ed alle condizioni della sopravvenienza dell’ordinamento anteriore alla costituzione.

Il problema da risolvere si concentrava dunque all’alternativa tra una concezione che vedeva nella costituzione un corpo di regole direttamente operanti nell’ordinamento giuridico dello Stato, e quella che l’intendeva come complesso di principi, collocati i quali sarebbero stati utilizzati soltanto quando il legislatore ordinario avrebbe creduto di darvi attuazione.

Ed invero, nella prima ipotesi si sarebbe riconosciuta alla costituzione immediata efficacia abrogativa delle precedenti disposizioni contrastanti con essa; nella seconda quell’efficacia si sarebbe ritenuta sospesa fintanto che il legislatore non avesse attuato i principi in essa contenuti.

Nel periodo compreso tra il ’48-’56, la giurisprudenza in contrasto con quanto affermato da pare della dottrina[5] distinse le disposizioni costituzionali in “precettive” e “programmatiche”, negando alle seconde efficacia abrogativa del diritto vigente incompatibile, all’interno di questa distinzione si elaboravano poi la sottocategoria delle disposizione precettive ad efficacia differita e quella delle disposizioni di principio, che stabilivano appunto non un programma da attuare ma un principio cui il diritto oggettivo sarebbe dovuto risultare ispirato.

Tuttavia queste disposizioni furono contestate da parte della dottrina più autorevole[6], per il quale il concetto di programmaticità non poteva coincidere con quello di non precettività cioè con la negazione del carattere normativa di alcune disposizioni costituzionali: la distinzione andava invece compiuta con riferimento all’oggetto di tali ovvero con riferimento al destinatario di esse. Indubbiamente, la precettività di norme come gli artt. 113 o 36 Cost. è diversa da quella di norme come l’art. 4 o il 2° comma dell’art. 3, ma soltanto nel senso che le prime sono indirizzate alla generalità dei soggetti, condizionandone immedia­tamente l’attività e le posizioni giuridiche, mentre le seconde delineano con altrettanta obbligatorietà un programma per il legislatore, stabilen­do nei suoi confronti un obbligo positivo di normazione. Questa ricostruzione, che apriva peraltro il problema della possibilità teorica di obblighi positivi per il legislatore e della loro effettiva sanzionabilità, non riusciva d’altra parte ad affermare l’efficacia abrogativa delle norme-programma rispetto alla legislazione anteriore, dato che questa e quelle risultavano avere contenuti non immediata­mente e puntualmente incompatibili.

La tesi del Crisafulli è poi risultata prevalente: fin dalla sua prima sentenza la corte affermava la propria competenza a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi anteriori alla costituzione, per contrasto anche con le norme “programmatiche”, risolvendo così in termini di illegittimità costituzionale un problema che sino allora era stato, per la mancanza del giudice costituzionale, impostato in termini di abrogazione.

Inoltre lo schema logico delle disposizioni pro grammatiche, se è da respingere per la parte in cui nega a queste ogni carattere normativo, può viceversa essere utilizzato nella problematica della riserva di legge. Occorre infatti osservare che, intendendo in senso rigoroso quest’istituto, come esclusione dalla disciplina della materia di qualsiasi fonte diversa dalla legge, esso comporta la necessità dell’intermediazione del legislatore  tra la prescrizione costituzionale ed il provvedimento che ne dà concreta attuazione. Questa necessità non è senza rilievo, per quanto riguarda i limiti dell’intervento della corte costituzionale volto a supplire, attraverso sentenze “additive”, alle omissioni del legislatore ordinario nell’attua­zione delle norme costituzionali[7]. Poiché tale intervento, infatti (non avendo carattere autonomamente “creativo”), non può che svolgersi attraverso l’enucleazione dei principi costituzionali che regolano la materia, esso rischia di far saltare, nel processo di concretizzazione di quei principi, il momento legislativo, riconoscendo così all’organo preposto alla loro applicazione una discrezionalità incompatibile con la riserva di legge.

Vi è poi una seconda e più rilevante implicazione della rigidità costituzionale: essa consiste nel particolare assetto del sistema delle fonti derivante dal fatto che la costituzione, in quanto sopraordinata rispetto alla legislazione ordinaria, può stabilire per le fonti primarie limiti di validità sostantivi e procedimentali diversificati a seconda delle materie sulle quali esse debbono incidere.

Tale fenomeno produce, secondo l’impostazione più diffusa, un duplice ordine di conseguenze: in corrispondenza dei limiti procedimen­tali dà vita a fonti in parte diverse rispetto alla legge formale; in corrispondenza dei limiti sostantivi dà vita ad una diversificazione (in relazione ad atti sottoposti a limiti diversi) della forza di legge intesa come capacità innovativa tipica della legge formale. Varianti procedi­mentali del primo tipo possono ritenersi quelle che caratterizzano la legge costituzionale richiamata dall’art. 132 comma l cost., le leggi ordinarie di cui agli artt. 132 comma 2 e 133 comma l, nonché la legge regionale di cui all’art. 133 comma 2; si hanno in questi casi fonti, formalmente differenziate rispetto alla legge ordinaria, cui è attribuita una particolare sfera di competenza normativa (c.d. leggi rinforzate).

Nella seconda ipotesi: vi rientrano i casi in cui la costituzione impone che le leggi regolanti una certa materia siano generali[8]; i casi in cui si dispone che le norme disciplinanti una certa materia siano conformi, oltre che alla costituzione, ad altre norme anche non di diritto interno, appositamente richiamate[9]; e ancora i casi in cui la legge deve essere meramente formale[10].

Dalla presenza dei limiti speciali ora detti, inerenti a talune leggi ordinarie, parte della dottrina[11] ha elaborato, agli inizi degli anni sessanta, la teoria delle fonti atipiche. Sulla base dell’osservazione che la forza di legge non è uguale per tutte le leggi, è stata individuata una categoria di fonti, la cui forza formale ­nel lato attivo, in quello passivo o in entrambi sarebbe diversa rispetto al tipo di fonte cui esse formalmente appartengono. In certi casi (c.d. fonti atipiche intermedie) si avrebbe una sorta di “ibridazio­ne” della forza formale di queste fonti, che, dal lato attivo corrispon­derebbe a quella della legge ordinaria e, dal lato passivo, a quella della legge di revisione costituzionale[12]. In al­tre ipotesi il risultato sarebbe in una certa misura opposto per le leggi cui la costituzione, in considerazione della materia interessata, impone limiti particolari[13].

Tuttavia, tutta questa teoria non sembra correttamente impostata.

È vero infatti che, la legge che regola i rapporti con le confessioni acattoliche non è modificabile se non da una legge emanata previe intese: ma ciò non dipende dal fatto che tale legge abbia una forza passiva superiore a quella delle leggi ordinarie, ma più semplicemente dal fatto che la costituzione stabilisce, per le leggi ordinarie che inter­vengono ih quella materia, un limite particolare, consistente nelle previe intese e nella conformità ad esse.

È dunque conseguenza di quel limite il fatto che la legge che vi si attiene non possa essere abrogata da una legge che non lo rispetta (cioè non adottata previe intese e conformemente a queste). Il fenomeno si chiarisce con la teoria del Lavagna delle norme interposte, secondo la quale i casi innanzi descritti sono riconducibili ad ipotesi in cui la costituzione, anziché stabilire essa stessa un limite alle leggi ordinarie, rinvia a norme prodotte da fonti diverse, interposte tra la costituzione e la legge, come ulteriore condizione di legittimità di questa (nel caso dell’art. 8, in particolare, le condizioni di legittimità della legge regolatrice dei rapporti tra lo Stato e le confessioni acattoliche sono, stabilite in parte dalla costituzione e in parte dalle intese). La legge ordinaria emanata senza il rispetto della norma interposta, dunque, non potrà abrogare quella emanata in conformità di questa, non perché abbia forza attiva minore (o perché la seconda abbia forza passiva maggiore), ma perché in violazione del limite specifico previsto dalla costituzione per le leggi che disciplinano la materia[14].

La conferma di quanto si sostiene è data dalla considerazione che la costituzione non impedisce, che la legge che regola i rapporti con le confessioni acattoliche sia modificata da una successiva legge ordinaria, la quale, pur non essendo preceduta da una specifica intesa, sia, tuttavia, a sua volta, conforme alla precedente intesa: è ben possibile, in altri termini, che l’intesa stessa sia suscettibile di diverse attuazioni legislative, tutte ad essa conformi, e che quelle successive abroghino le precedenti senza con ciò violare l’art. 8 della costituzione.

Semmai, una distinzione potrà farsi tra le leggi tenute al rispetto di una norma interposta (c.d. fonti atipiche intermedie, secondo la teoria qui criticata) e quelle per cui sia disposto un aggravamento procedurale (c.d. leggi rinforzate): infatti, mentre nel primo caso la disciplina della materia potrà essere legittimamente modificata da una qualsiasi legge ordinaria conforme alla norma interposta, nel secondo caso avremo senz’altro una fonte diversa dalla legge, che esclude la legge ordinaria non per una maggiore forza passiva, ma perché la costituzione le attribuisce una competenza esclusiva, riservandole la disciplina di certi oggetti.

Nondimeno considerato quanto sin’ora affermato va detto che i limiti procedimentali e sostantivi speciali che la costituzione impone alle singole fonti legislative cui compete la disciplina di determinate materie, l’instaurazione di un regime di accentuato pluralismo delle fonti primarie che si affiancano alla legge ordinaria, fanno venir meno il carattere unitario della legge e del concetto di forza formale tipica che vi si riconnette.

Se si considera, accanto alle ipotesi di fonti particolari ora prese in esame, la categoria delle c.d. leggi costituzionali declassate[15] e delle leggi ordinarie (formate con particolari aggravanti procedurali) autorizzate ad abrogarle, quella delle leggi ordinarie sottratte a referendum abrogativo (art. 75, 2° c.) e quella derivante dall’individua­zione, fatta dall’art. 72, u.c., delle leggi di assemblea, si vede quanto sia articolato il panorama delle fonti primarie e come il concetto di forza di legge, inteso come capacità innovativa e di resistenza tipiche, mal si adatti a spiegare il vigente sistema delle fonti.

Da questa considerazione derivano poi notevoli difficoltà nell’in­dividuazione degli atti che, in base all’art. 134 cost., sono sottoposti al controllo della corte costituzionale,  e dunque è per questo che alcuni Autori[16] abbiano tentato di separare il momento dell’efficacia formale della fonte (capacità innovativa e di resistenza), che varia da caso a caso, dal momento del regime giuridico dell’atto[17], che è comune ad una pluralità di fonti diverse, ma tutte sottoposte allo stesso trattamento (sindacato della corte costituzionale).

  1. Tipologie di riserva di legge

Sono individuabili varie tipologie di riserva di legge. Occorre tuttavia precisare che, nel nostro ordinamento, non esistono solo riserve in favore della legge, ma anche riserve in favore di atti diversi; anche se si tratta di ipotesi rare[18].

Esse si riducono essenzialmente alla riserva in favore dei regolamenti parlamentari ed alla riserva di legge costituzionale.

Per quanto riguarda quest’ultima, la Costituzione prevede, all’art. 138, un procedimento particolare per l’approvazione delle leggi costituzionali alle quali è riservata la disciplina di alcune materie, come ad esempio l’approvazione degli Statuti regionali speciali, o le garanzie di indipendenza dei giudici.

Nel caso invece di riserva di legge, bisogna innanzitutto distinguere tra riserva di legge formale e riserva di legge materiale.

Si ha la prima quando la Costituzione impone che una determinata materia debba essere disciplinata unicamente dalla legge ordinaria, quella cioè approvata attraverso il procedimento parlamentare.

Sono soggette a riserva formale tutte quelle leggi attraverso cui il Parlamento controlla l’operato del Governo. Esempi di questo tipo si riscontrano nel caso di leggi di conversione dei decreti dell’Esecutivo,o di leggi di approvazione del bilancio[19].

La riserva di legge materiale si ha invece quando la disciplina di una materia è riservata alla legge ordinaria, o agli atti equiparati ad essa (decreti legge e decreti legislativi).

Tutte le libertà fondamentali sono oggetto di riserva di legge assoluta,proprio per assicurarne la garanzia contro il “potere” detenuto dall’Esecutivo.

Oltre alla riserva di legge c.d. assoluta, con la quale dunque la Costituzione indica i campi in cui l’intervento del legislatore deve essere totale, l’ordinamento riconosce l’esistenza della riserva rinforzata, mediante la quale non solo in alcune materie è prevista la disciplina esclusiva della legge, ma vengono posti dei limiti alla discrezionalità del legislatore stesso, nel senso che la Costituzione determina contenuto e fini della legge.

Le riserve rinforzate sono espresse, secondo la ricostruzione prevalente, dalle disposizioni costitu­zionali che, rimettendo alla legge la disciplina di certi oggetti, contengono anche indicazioni sostantive sul modo con cui tale disciplina dev’essere dettata. Così, riserva rinforzata sarebbe quella prevista dall’art. 16, l. c. cost., per il quale la legge può stabilire limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno solo per motivi di sanità e di sicurezza; quella dell’art. 97 il quale, nel prevedere che i pubblici uffici siano organizzati secondo disposizioni di legge, stabilisce che tali disposizioni debbano assicurare il buon andamento e l’imparzia­lità dell’amministrazione; ancora, quella prevista dall’art. 43, che subordina alle condizioni ivi indicate la riserva originaria o la nazionaliz­zazione (per legge) di certe imprese; e via dicendo. Al contrario, sarebbero semplici le riserve previste da norme che, come l’art. 23 o l’art. 25 o altre, si limitino a rinviare alla regge la disciplina di certi oggetti[20].

Peraltro anche nelle ipotesi di riserve c.d. semplici, nelle quali sembra che il costituente abbia affidato al legislatore un’illimitata potestà di disciplina della materia, la legge incontra, tanto limiti generali (come ad es. il principio di eguaglianza), quanto limiti specifici che, si ricavano in via d’interpretazione da altre disposizioni o dall’insieme dei valori protetti dalla costituzione. Così, ad es., mentre dal testo dell’art. 13, Cost. sembra discendere un ampio potere del legislatore ordinario di prevedere casi e modi di limitazione della libertà personale, questo potere risulta in concreto largamente circoscritto da altre disposizioni: ed invero anche sulla base della nota tesi dottrinale (Elia) secondo cui soltanto nelle ipotesi previste da altre disposizioni costituzionali (ad es. per motivi di ordine penale, sanitario o familiare) la legge potrebbe prevedere “casi” di limitazione della libertà personale, è certo che, quanto ai “modi”, occorre tener presente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (art. 27, comma 3°, cost.) e che, nell’ipotesi di trattamenti sanitari, “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (art. 32, comma 2).. Così, ancora, benchè l’art. 23, in tema di prestazioni personali o patrimoniali imposte, non attribuisca alla legge che le prevede alcun limite sostanziale[21], limiti di tal fatta discendono, per le prestazioni patrimoniali, dagli artt. 53 e 41, e per quelle personali dagli artt. 13 sgg. della costituzione.

In conclusione, solo postulando che la legge in materia di riserva semplice non incontri alcun limite sostanziale potrebbe riconoscersi una certa consistenza alla categoria delle riserve rinforzate altrimenti esse si risolvono in una combinazione tra riserve di legge e limiti materiali alle leggi stesse, senza che la struttura della riserva ne venga minimamente modificata

Già diffusamente è stata poi messa in evidenza cosa si intenda per riserva di legge assoluta e relativa.

A tal proposito occorre però aggiungere che la distinzione tra riserva di legge assoluta e riserva di legge relativa è netta in teoria, ma lo è meno nella pratica[22].

L’interprete, per poter distinguere queste due ipotesi, può avvalersi di alcuni criteri[23].

Innanzitutto è utile considerare le espressioni utilizzate dalla Costituzione per sancire una riserva di legge: se ricorrono locuzioni del tipo “nei soli casi previsti dalla legge”, si deve propendere per il carattere assoluto della riserva. Allo stesso modo una riserva di legge dovrà considerarsi assoluta qualora la Costituzione preveda ulteriori meccanismi (ad es. la riserva di giurisdizione) per assicurare che sia solo una fonte primaria a disciplinare la materia.

Anche la valutazione dei precedenti storici può essere utile per stabilire il carattere assoluto o relativo della riserva: se la Costituzione ha introdotto una riserva di legge su una materia precedentemente disciplinata da provvedimenti governativi, essa dovrà considerarsi relativa, poiché il vincolo introdotto sarà sicuramente il più tenue e non il più intenso[24].

Un dato è certo la corte costituzionale in oltre vent’anni di consolidata giurisprudenza ha dato una diversa portata alle varie riserve contenute nella costituzione, principalmente sulla base della distinzione tra riserve assolute e relative.

Non è condivisibile quindi l’atteggia­mento di chi pretendesse, sulla base di mere argomentazioni esegeti­co-lessicali, contestare uno sviluppo giurisprudenziale ormai inveratosi nell’ordinamento; molto più proficuo sarà invece individuare i fonda­menti positivi e la logica interna ad esso.

Da questo punto di vista potrà  avere un’importanza secondaria il fatto che si accolga o meno una dicotomica distinzione tra riserve assolute e relative: quello che conta è che va osservato che non tutte le riserve vengono intese dalla corte nella stessa maniera e se ne individuino i motivi.

Una parte della dottrina ha avvertito, un certa difficoltà nei confronti della distinzione che la corte veniva elaborando e dei criteri ch’essa utilizzava.

In particolare, se non si poteva contestare il buon fondamento di certe decisioni soprattut­to nel campo di applicazione dell’art. 23, suscitava dubbi la semplicità con la quale la corte, sulla base del mero criterio lessicale, “relativizzava” alcune delle riserve previste dalla costituzione.

Così, pur mantenendo un’impostazione teorica unitaria della riserva di legge, la dottrina cercava di reperire o in principi generali della costituzione o in diverse disposizioni costituzionali il fondamento di quella distinzione.

Ad esempio, pur sostenendo l’idea che tutte le riserve sono in via di principio assolute, si è cercato da parte dell’Amato[25] d’individua­re nella garanzia costituzionale delle autonomie locali (art. 128) la ragione della relatività della riserva di legge in campo tributario, nel principio dell’adeguamento della pena alla personalità del reo (dedotto dell’art. 27) un limite all’assolutezza della riserva in campo penale. Secondo questa concezione, infatti, la riserva di legge, salvi i casi in cui inequivocabilmente la costituzione escluda l’intervento di fonti secon­darie nella materia riservata (ad es. negli artt. 13 e 21), concernerebbe le sole scelte caratterizzanti di una certa disciplina: l’intervento di fonti diverse dalla legge nella materia sarebbe quindi ammesso soltanto nei limiti in cui non si incida su quelle scelte, a meno che non sia la stessa costituzione a rimettere parte della materia riservata (cioè alcune delle scelte caratterizzanti) ad autorità diverse dal legislatore[26].

Tuttavia, la teoria ora esposta non si allontana dall’impostazione della corte: i casi d’inequivocabile riserva assoluta sono anche per l’Amato quelli in cui tale carattere si ricava da un’interpretazione lessicale della costituzione; rimettere al legislatore le scelte caratterizzanti la disciplina non è poi cosa diversa dal riservargli i principi e criteri direttivi della materia e quindi dal trasformare tutte le riserve, delle quali non sia inequivoco, per ragioni lessicali, il carattere assoluto, in riserve relative; infine, che certe riserve debbano essere interpretate tenendo conto delle diverse norme che ne circoscrivono la portata può risultare corretto, ma questa considera­zione, come dimostrato dalla giurisprudenza, non è di per se sola sufficiente a coprire tutto l’arco delle riserve che la corte ha inteso come relative[27].

Partendo da una concezione unitaria della riserva di legge, secondo la quale ogni riserva sarebbe, come tale, assoluta, tra l’altro il Tosato[28] mette in luce come la distinzione da fare tra le diverse riserve non debba esser fondata tanto sulla loro natura, quanto sul loro contenuto.

In termini più specifici, oggetto della riserva non sarebbe necessariamente una materia, ma più precisamente una porzione di materia o comunque una serie limitata di rapporti, di modo che sarebbe da distinguere tra le varie riserve a seconda che esse coprano oppure no l’intera materia.

A tale stregua l’art. 23 della costituzione, disponendo che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, prescriverebbe bensì una riserva assoluta, ma limitata nel suo oggetto ai fondamenti della disciplina impositiva, cioè, come ha precisato la corte nella sua giurisprudenza, alla determinazione dei criteri in base ai quali una certa prestazione può essere legittimamente imposta.

Questa tesi, da un lato, consente di spiegare il diverso atteggiarsi delle varie riserve previste in costituzione, dall’altro di dare una base testuale alla giurisprudenza della corte sulle riserve relative.

Orbene, l’impostazione suggerita dal Tosato rappresenta uno strumento concettuale valido per una prima definizione della riserva di legge, sia perchè tiene conto del carattere unitario che, conformemente alla sua tradizione, quest’istituto riveste, sia perchè mette in luce senza preconcetti teorici il diverso atteggiarsi che esso ha nel testo della costituzione, sia infine perchè, pur discostandosi dalla discutibile distinzione accreditata dalla corte tra riserve assolute e relative, consente d’inquadrare in una visione  logicamente coerente l’interpretazione da questa fornita delle diverse disposizioni costituzionali che prevedono riserve di legge.

Indubbiamente quest’impostazione dovrà fare i conti con l’esegesi delle diverse norme costituzionali che stabiliscono riserve di legge.

Ed ancora la materia penale costituisce sicuramente oggetto di riserva di legge,secondo quanto prescritto dall’art. 25 comma 2 Cost[29].

La riserva attiene alle norme che definiscono i presupposti della

punibilità (dolo, colpa, nesso di causalità); non rientrano invece

nell’ambito della riserva di legge le norme che prevedono delle cause di giustificazione.

Esse sono norme con finalità proprie, non sono esclusivamente penali, ma appartengono ad altre branche del diritto; pertanto non sono sottoposte alla disciplina sulla produzione delle norme penali.

E’ necessario stabilire, a fronte delle diverse tipologie esistenti, quali siano i connotati della riserva di legge in materia penale. Occorre a tal proposito chiedersi se si tratti di una riserva formale o materiale e se essa debba considerarsi assoluta o relativa.

Tali interrogativi possono trovare una risposta soltanto attraverso un’analisi del sistema delle fonti del nostro ordinamento, la quale non potrà a sua volta prescindere dal percorso storico che ha portato all’affermazione del principio di riserva di legge nella sua attuale formulazione[30].

Ancora interessante è, la categoria della riserva di legge costituzionale. Infatti gli artt. 116, 11 7, l° c., 132, 1° c. e 137, l° c. riservano la disciplina di certi oggetti a leggi costituzionali: la struttura della riserva è in questi casi in buona parte identica a quella della riserva di legge ordinaria: si tratta infatti di un’attribuzione di competenza normativa ad una specifica fonte, che esclude la competen­za delle fonti ordinarie nella stessa materia. Peraltro la circostanza che la riserva operi a favore della legge costituzionale comporta due conseguenze che incidono profondamente sulla struttura della riserva stessa.

La prima è che la disponibilità della. disciplina viene sottratta al potere legislativo ordinario, cioè alla normale maggioranza parlamenta­re, richiedendosi per le leggi costituzionali procedimenti più complessi.

Ciò potrebbe comportare una diversa valutazione della ratio sottostante  alla riserva di legge costituzionale.

La seconda è che, trattandosi di fonte – benchè in principio subordinata – suscettibile di derogare alla stessa costituzione, non può escludersi[31] che l’aspetto positivo della riserva di legge risulti in parte attenuato, per la possibilità non contestata della legge costituzionale di rimettere una parte della disciplina riservata alla legge ordinaria, ovvero di stabilirei la modificabilità di alcune sue disposizioni ad opera della stessa legge ordinaria. Sotto questo secondo aspetto occorre quindi sottolineare che la maggiore capacità innovativa della legge costituzionale rispetto alla legge ordina­ria consente alla prima e non alla seconda di derogare al divieto, implicito in ogni riserva, di attribuire competenza normativa a fonti diverse.

  1. La riserva di legge e leggi meramente formali

Un altro aspetto interessante su cui sembra doveroso soffermarsi attiene ai rapporti tra la riserva di legge e l’eterogenea categoria delle leggi-provvedimento, comprendente tutti gli atti legislativi che abbiano contenuto di provvedimento amministrativo particolare e concreto, alcuni dei quali sono previsti dalla stessa costituzione (artt. 43, 80,81 e 123).

La dottrina ha tentato di reagire al fenomeno delle leggi-provve­dimento, in crescente espansione nella nostra legislazione, sostenendone con vari argomenti l’illegittimità costituzionale.

Un primo argomento è stato tratto da un’interpretazione “sostan­zialistica” dell’art. 70, 10 c. cost., sulla base del quale spetterebbe alle camere la funzione legislativa intesa come potestà di porre norme generali ed astratte, restandone esclusa, quindi, la facoltà di rivestire della forma legislativa provvedimenti concreti.

A tale argomento, sviluppato in particolar modo dal Crisafulli[32], è stato però opposto che l’art. 70 nulla dice in ordine alla natura della funzione legislativa, ben potendosi questa esercitare, anzichè mediante l’emanazione di “nor­me”, attraverso l’adozione di “provvedimenti”, dotati, in virtù della forma legislativa, della specifica efficacia della legge.

L’art. 70, secondo quest’orientamento, si limiterebbe ad attribuire al solo parlamento la titolarità del potere di fare le leggi, sottolineando il distacco con il precedente ordinamento nel quale il capo dello Stato, attraverso la sanzione, partecipava alla formazione di tali atti.

Inoltre secondo l’Esposito[33], le leggi-provvedimento, in quanto leggi individuali, violerebbero l’art. 3 della costituzione, che vieta ogni differenziazione compiuta in base a “condizioni personali”. Ma questa, tesi, la quale presuppone che al divieto in parola venga riconosciuto carattere assoluto, salve le deroghe disposte da altre norme costituziona­li, è stata superata dalla giurisprudenza della corte, la quale ha ritenuto di ravvisare la violazione del principio di eguaglianza non già in qualsiasi distinzione basata su condizioni personali, ma soltanto in quelle che fossero, in relazione alle situazioni di fatto di volta in volta disciplinate, irragionevoli o arbitrarie.

A questa stregua la legge singolare non viola di per sè il principio di eguaglianza, ma si pone in contrasto con esso soltanto se concreta un irragionevole privilegio (favorevole o odioso), mentre, se risulta espressione o attuazione di un principio o di una legge generale, si sottrae al vizio d’incostituzionalità .

Indubbiamente, però, la legge-provvedimento costituisce un mo­mento di disarmonia nel sistema, e può talora prestarsi a limitazioni dei diritti del cittadino. Infatti, di fronte alla garanzia che gli artt. 24 e 113 cost. offrono contro gli atti della pubblica amministrazione lesivi di diritti e d’interessi legittimi, occorre domandarsi se la sostituzione del provvedimento amministrativo con la legge non escluda o diminuisca in modo rilevante quella tutela.          ,

E’ stato però fatto notare, soprattutto dal Mortati[34], che la diminuzione di garanzia giurisdizionale che ne deriva, per essere la legge-provvedimento sottratta al normale controllo della giustizia amministrativa (giudice ordinario o amministrativo, a seconda dei casi), risulta adeguatamente compensata da quella offerta dalla corte costitu­zionale, davanti alla quale sarebbe possibile far valere nei confronti della legge-provvedimento tutti i vizi di legittimità, compreso l’eccesso di potere nelle sue diverse forme. Manca, è vero, nel giudizio dinnanzi alla corte, la possibilità di ottenere la sospensione dell’efficacia della legge impugnata[35] ; peraltro il difetto di tale rimedio, che non è imposto da alcuna norma costituzionale, non sembra che renda di per se incostituzionali le leggi-provvedimento.

Collegato a questo problema è quello relativo alle norme volte ad attuare il principio di eguaglianza sostanziale ex art. 3, 2° c. cost.: sembra infatti che l’attuazione di tale principio possa ed in alcuni casi debba avvenire attraverso leggi-provvedimento o leggi speciali che in deroga a prescrizioni di carattere generale superino quelle diseguaglianze di fatto cui non sarebbe possibile ovviare con prescrizioni generali ed astratte.

  1. La riserva di legge e il principio di legalità

Parte della dottrina nega una differente ampiezza del principio di legalità rispetto alla riserva di legge, nel senso che  il principio di legalità avrebbe portata costituzionale solo nelle ipotesi coperte da riserva di legge, ovvero solo laddove si incida negativamente sulle posizioni giuridiche soggettive

Tuttavia l’art. 97 adotta una prospettiva più ampia, in cui il principio di legalità assume rilievo anche come principio organizzativo

Ma si osservi che il rinvio all’art. 97, può risultare soddisfacente a condizione che esso sia riferito alla parte della disposizione in cui è consacrata la regola in forza della quale spetta alla legge, nel momento in cui provvede ad organizzare i “pubblici uffici” stabilire altresì le rispettive “sfere di competenza” ed  “attribuzioni”.

Molto meno condivisibile sarebbe invece il rinvio stesso, qualora esso riguardasse il canone dell’imparzialità dell’azione amministrativa[36], che in effetti appare neutrale rispetto alla problematica ora in discussione: il principio di imparzialità, anzitutto, se può implicare la necessità che esista una previa norma capace di circoscrivere l’ambito di valutazione discrezionale demandato all’amministrazione, non sembra però di per sé esigere che essa sia sempre e necessariamente di rango legislativo formale; la regola dell’imparzialità, peraltro, sembra più propriamente concernere non tanto la questione della sussistenza di un determinato potere amministrativo, quanto piuttosto solo quello delle modalità del suo esercizio[37].

Peraltro l’esigenza di uniformare lo spettro dell’azione restrittiva della pubblica amministrazione alle esigenze sottese al principio di legalità ed a quello di tipicità[38] dei provvedimenti risulta particolarmente pregnante ove si tratti di incidere su di un diritto costituzionalmente garantito.

La valenza costituzionale ed autonoma del principio di legalità deriva altresì dal principio dell’azionabilità delle situazioni giuridiche soggettive nei confronti della p.a. (artt. 24 e 113 Cost.)

Solo se c’è un parametro legislativo è possibile sindacare la legittimità dell’azione amministrativa.

Molto numerose sono le disposizioni costituzionali cui potrebbe essere ancorato il principio di legalità (basti pensare, a titolo di esempio, all’art. 23, il cui significato appare allo stesso tempo ben più ampio e ben più preciso di quello deducibile dallo stesso art. 97): ed anzi è probabilmente proprio la somma dei settori che nel nostro sistema risultano garantiti da una riserva di legge che, anche per chi ritiene che il principio di legalità operi pienamente solo al loro interno, dovrebbe convincere dell’inesistenza di spazi ordinamentali in cui all’amministrazione sia consentito di comprimere la posizione di autonomia degli amministrati in assenza di un’idonea e precisa base legale[39].

A prescindere comunque dalla questione del fondamento del principio di legalità, va inoltre evidenziato che il principio stesso impedisce di riconoscere come esistenti in capo all’amministrazione poteri (o, meglio, segmenti di poteri autoritativi) diversi ed ulteriori rispetto a quelli esplicitamente contemplati dalla legge di conferimento: una determinata misura implicante una restrizione della sfera giuridica del destinatario, dunque, può essere adottata dall’amministrazione (quand’anche appartenente alla categoria delle authorities) solo ove essa sia riconducibile ad un’apposita norma di legge che la legittimi.

Un potere amministrativo può essere considerato implicito nella misura in cui la sua giuridica configurabilità deriva non da una esplicita previsione operata da una norma a ciò abilitata dal sistema complessivo di appartenenza, bensì dalla sua astratta idoneità a consentire il soddisfacimento degli scopi stabiliti dall’ordinamento per il perseguimento dei quali l’autorità pubblica è stata istituita[40].

La teoria dei poteri impliciti, per quanto elaborata soprattutto con riferimento alla ripartizione dei poteri normativi in strutture statuali di tipo federale[41] o all’estensione delle competenze di organismi internazionali istituiti mediante trattati[42], può trovare terreno di applicazione anche in relazione alle potestà amministrative di autorità amministrative, come dimostrano taluni orientamenti giurisprudenziali tanto della Corte Suprema statunitense quanto della Corte di Giustizia comunitaria[43], nonché alcuni ricostruzioni dottrinali, anche italiane[44].

Alla base della dottrina in discussione vi è l’idea che sia la vocazione funzionale della pubblica amministrazione, quale stabilita in via preventiva dalla legge, a segnare i confini della sua capacità imperativa, mentre le enumerazioni dei poteri contenute nella normativa finiscono in sostanza per essere considerate meramente esemplificative e non esaustive. Tale idea, a sua volta, rinviene la sua logica premessa nel convincimento di fondo che le esigenze funzionali pubblicistiche siano in grado di prevalere sulle contrapposte esigenze di garanzia delle posizioni giuridiche soggettive incise dall’esercizio del potere[45].

  1. Il principio di legalità in materia penale

La riserva di legge costituisce, assieme alla tassatività, all’irretroattività, al divieto di analogia e alla precisione, uno dei sottoprincipi in cui si articola il più ampio principio di legalità.

Quest’ultimo consiste nell’attribuzione al potere legislativo del monopolio delle scelte riguardanti i fatti da qualificare come reati e le sanzioni da applicare[46].  Il principio di legalità è sancito dall’art. 25 comma 2 della Costituzione secondo il quale “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”[47].

Prevedendo il principio di legalità, la Costituzione ha recepito quanto precedentemente disposto dall’art. 1 del Codice penale, il quale afferma che “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.”

Secondo quanto risulta dalla Costituzione e dal codice penale, è

dunque la legge e solo la legge, fra tutte le fonti del diritto, l’unica ad avere cittadinanza nel diritto penale, quanto meno per ciò che riguarda il suo settore principale, cioè la previsione dei reati e delle rispettive pene.

Il motivo di questa scelta dipende dall’itinerario storico che ha portato all’affermazione di tale principio.

Il principio di legalità viene comunemente espresso attraverso il

broccardo latino “nullum crimen, nulla poena sine lege scripta, stricta, certa et previa”; tuttavia ciò non deve indurre a credere che esso tragga origine dal diritto romano, il quale ammetteva l’applicazione analogica della legge penale, consentendo al giudice di punire “ad exemplum legis”[48]. Tale celebre formula latina che, sintetizza il principio di legalità, fu invece enunciata nell’ ‘800 dal famoso penalista Anselm vonFeuerbach.

Comunemente si fa riferimento alla Magna Charta libertatum, che re Giovanni Senza Terra concesse nel 1215 agli inglesi, come

all’avvenimento storico cui si collega l’origine del principio di legalità.

Il principio di legalità nasce invece nel periodo illuministico. Durante il Settecento infatti si sviluppa l’esigenza di eliminare gli arbitrii e i soprusi dello Stato Assoluto e di vincolare l’operato del giudice alla legge che, per definizione, veniva considerata giusta.

Attraverso il divieto per il potere esecutivo di emanare norme penali e per il potere giudiziario di ricorrere, per le proprie decisioni, a fonti extra-legali, si garantiva al cittadino la libertà contro ogni possibile limitazione.

L’idea della necessaria garanzia della libertà del cittadino venne

affermata con forza in riferimento al diritto penale.

Il suo sviluppo si deve soprattutto a due famosi filosofi illuministi: Montesquieu e Beccaria. Il primo, nella sua opera più celebre: “Lo spirito delle leggi”, affermò la sua altrettanto celebre teoria della separazione dei poteri: secondo Montesquieu, se il fine dello Stato è quello di assicurare la libertà, è necessario che i poteri pubblici siano tre e siano tra loro distinti, poiché, se fossero concentrati in capo al medesimo soggetto, si aprirebbe la strada all’arbitrio: “Quando il potere di legiferare e quello di dare esecuzione alle leggi sono riuniti nella stessa persona o nello stesso organo dello Stato, non esisterebbe libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso Senato creino leggi tiranniche per tirannicamente eseguirle”[49].

La necessità della separazione del potere legislativo sia dal potere esecutivo, che da quello giudiziario è appunto avvertita dal filosofo illuminista soprattutto in riferimento alla libertà del cittadino in campo penale: “Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche e quello di giudicare i crimini”[50].

Il principio di legalità, che è dunque in Montesquieu il portato di una nuova visione costituzionale dello Stato, culminante nella teoria della separazione dei poteri, è invece in Beccaria il risultato di un’osservazione immediata e diretta del sistema penale.

Il tema dominante che emerge dalla sua opera “Dei delitti e delle

pene”, è rappresentato dall’esigenza di una assoluta e inderogabile legalità nel diritto penale: “le sole leggi possono decretar le pene su i delitti”[51].

Inoltre il monopolio del legislatore deve, secondo l’autore, spaziare dappertutto: non solo nessun reato e nessuna pena possono essere sanciti al di fuori della legge, ma è alla legge che spetta il compito di disciplinare i casi che giustifichino la carcerazione preventiva e gli indizi che possono assumere il valore di prova[52].

La legge è, per Beccaria, lo strumento più idoneo a disciplinare il diritto penale in quanto è espressione della volontà popolare: “il diritto di punire non può risiedere che presso il legislatore che rappresenta tutta la società unita per contratto sociale”[53].

Le idee illuministiche, portate avanti da Montesquieu e Beccaria,

furono per la prima volta riconosciute nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 la quale all’art. 7 afferma che “Nessun uomo potrà essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge e secondo le forme da essa prescritte”.

Adeguare la normazione penale al principio di legalità così interpretato rappresenta, una prima fondamentale indicazione ricavabile dalla Carta costituzionale per il diritto penale del terzo millennio, dal cui accoglimento deriverebbe un significativo potenziamento delle garanzie individuali di fronte alla potestà punitiva dello Stato.

È vero per la legge formale, e soltanto per la  legge formale, che ogni limitazione delle libertà individuali stabilita dalla legge si traduce “in una sorta di autolimitazione indirettamente consentita dai diretti interessati a mezzo dei loro rappresentanti”[54].  Per cui appare dubbio il principio di legalità sia stato sino ad oggi mutilato, nel nostro ordinamento,  di questa sua essenziale componente; e ciò con l’avallo della maggioranza della dottrina[55] e della stessa Corte costituzionale, che non ha tratto dall’affermazione di principio sopra citata le conseguenze doverose: sì che la proposta interpretativa che qui si avanza può suonare radicale, se non eversiva.
Quanto al decreto-legge, occorre poi sottolineare che in caso di mancata conversione da parte del Parlamento non tutti gli effetti di un decreto-legge che preveda una nuova incriminazione o che inasprisca il trattamento sanzionatorio di un reato preesistente si prestano ad essere travolti fin dall’inizio, secondo il disposto dell’art. 77 comma 3 Cost.: sono irreversibili, infatti, gli effetti prodotti sulla libertà personale[56], allorché, prima della decadenza del decreto, ad esempio, sia stata adottata una misura cautelare restrittiva della libertà personale o si sia proceduto all’arresto in  flagranza dell’autore del reato. Scelte punitive operate dal Governo, e mai fatte proprie dal Parlamento, possono dunque produrre effetti indelebili sui diritti fondamentali del cittadino[57].

Tuttavia la Corte Costituzionale con la sentenza del 1996 ha fortemente incentivato il ricorso, anche in materia penale, allo strumento della legge-delega, con la conseguenza che il potere esecutivo conserva tuttora un ruolo centrale nella produzione delle norme penali. In luogo del decreto-legge, domina oggi tra le fonti delle norme penali non la legge formale, bensì il decreto legislativo.

Orbene,  una delega legislativa improntata a “rigore, analiticità e chiarezza” varrebbe a far salve le esigenze sostanziali sottese alla riserva di legge in materia penale.

Tuttavia contro questa tesi parla innanzitutto la costante prassi delle deleghe legislative[58]: emblematiche le deleghe al Governo per l’attuazione di direttive comunitarie[59], spesso relative a materie del tutto eterogenee, nelle quali si rimette costantemente al Governo il compito di vagliare se sia o meno necessario il ricorso alla sanzione penale, nulla si dice circa i fatti da sanzionare penalmente, si fornisce soltanto qualche indicazione circa i beni che possono formare oggetto di tutela, solo eccezionalmente si enunciano vaghi criteri-guida per la scelta del tipo delle sanzioni, lasciando comunque alla libera discrezionalità del Governo la fissazione del loro ammontare.
D’altra parte, si tratta, di ostacoli insuperabili connaturati alla delega in materia penale: anche un testo di legge-delega redatto con grande scrupolo di analiticità e precisione – come lo “Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale”, presentato nel 1992[60] – non ha potuto fare a meno di attribuire al Governo fondamentali scelte politico-criminali[61], in relazione sia alla `parte generale (ad esempio in tema di dolo, di colpa, di causalità, di concorso di persone, etc.), sia alla parte speciale, dove le singole figure di reato sono spesso designate con il solo nomen iuris, mentre è del tutto eccezionale che si precisi il tipo  di pena che dovrà essere comminato.
Si aggiunga che sempre più spesso le leggi-delega conferiscono al Governo il potere di  emanare disposizioni integrative e correttive della disciplina inizialmente dettata[62], nel solo rispetto dei principi e criteri direttivi fissati nella delega.

Questa facoltà, talora protratta per diversi anni attraverso proroghe successive, accentua lo squilibrio tra i poteri dello Stato: realizza un’espropriazione permanente della funzione legislativa a favore del Governo, in radicale contrasto, nella materia penale con l’art. 25 comma 2 Cost.

Come affermato dalla dottrina maggioritaria prendere sul serio il principio di legalità, nei futuri sviluppi della nostra legislazione penale, dovrebbe significare dunque, fra l’altro, rinunciare sia al decreto-legge, sia al decreto legislativo quali fonti di norme incriminatrici.

Solo a questa condizione potrà dirsi davvero rispettato, a garanzia delle libertà individuali, il monopolio del legislatore nelle scelte politico-criminali.

Un altro punto non meno importante sempre in tema di riserva di legge in materia penale concerne il fatto che il senso più pregnante della garanzia apprestata dalla riserva di legge nei confronti del c.d. “potere punitivo” non è solo quello della libertà che all’individuo viene dalla possibilità di regolare il proprio comportamento su una previa regola generale e astratta, ma è anche soprattutto quello derivante dalla democraticità che appunto nella legge si incarna come migliore sistema possibile delle decisioni politiche.  La “crisi” della riserva di legge consegue ad una crescente incapacità della legge di dispiegare oggi il suo ruolo di garanzia su entrambi i piani.  Ci si muove qui sul piano della c.d. “qualità” della legge e della legislazione, così pregiudicata dalla produzione quantitativamente inflazionistica e qualitativamente confusa da rendere nulla più che una finzione appunto la possibilità per il cittadino di “regolare” il proprio comportamento sulla conoscenza previa di una norma sufficientemente chiara.

Dunque individuata la ratio ed accertate le tipologie di atti normativi idonei a soddisfare il carattere assoluto della riserva di legge, è il momento di tracciare i limiti dell’oggetto della disciplina riservata alla potestà normativa del legislatore. Si ritiene che la legge debba specificare oltre alla fattispecie criminosa anche ogni specie di conseguenza sanzionatoria che dia concretezza alla punizione e cioè le pene principali, quelle accessorie, gli altri effetti penali della condanna, le condizioni obiettive di punibilità, le cause di esclusione della punibilità, le cause di estinzione del reato e della pena e la determinazione del tipo e dei limiti edittali della pena.

Secondo una parte della dottrina non sarebbero “coperte” dalla riserva di legge le norme che prevedono le cause di giustificazione che escludono la contrarietà della condotta altrimenti penalmente rilevante, considerando tali scriminanti dei “fatti giuridici autonomi” previsti da norme di liceità dell’intero ordinamento, non strettamente penali e dunque estranee alla relativa disciplina costituzionale. Il regime della riserva assoluta si estende anche alle regole che hanno funzione modificativa o estintiva dell’illecito o dei suoi effetti giuridici[63]. Stabilito che la legge debba individuare tanto la fattispecie criminale quanto ogni tipo di conseguenza sanzionatoria ad essa ricollegabile, ci si chiede se il legislatore possa, ed in caso affermativo in quali ipotesi, rinviare ad un atto normativo secondario per l’integrazione della norma penale. Ci si domanda insomma se la riserva di cui all’art. 25 Cost. debba essere necessariamente intesa in modo “rigidamente assoluto”, ovvero se sia configurabile come una riserva “tendenzialmente assoluta” o addirittura relativa, tesi, quest’ultima, che in passato è stata largamente sostenuta dalla dottrina ed anche della giurisprudenza costituzionale e che ancora oggi pone spunti di riflessione.

Con sensibilità principalmente volta all’esigenza pratica di conservare quei settori dell’ordinamento penale costituiti, precedentemente all’entrata in vigore della Costituzione, da fattispecie integrate da fonti normative secondarie e pertanto a rischio di illegittimità costituzionale a fronte di una riserva assoluta di legge, la dottrina e la Corte costituzionale hanno sostenuto, soprattutto in passato, diverse teorie favorevoli al carattere relativo della riserva.

La giurisprudenza costituzionale, dopo aver, in un primo momento adottato il criterio della “presupposizione” secondo il quale la norma secondaria cui la legge rinvia non rileverebbe quale fonte integratrice del precetto penale, bensì come mero presupposto di fatto per la sua applicabilità si è andata consolidando con il ricorso alla teoria della sufficiente predeterminazione della fattispecie di fonte legale.

Secondo tale criterio la riserva sarebbe rispettata quando sia una legge, anche se extrapenale, a indicare, in ordine al momento precettivo della norma, con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la sanzione, che a sua volta, dovrà necessariamente essere stabilita da una legge[64].

Strutturalmente connessa al tema dei rapporti intercorrenti tra legge penale e fonti normative secondarie, è la questione delle così dette norme penali in bianco.

La dottrina maggioritaria ritiene che norme penali in bianco siano quelle disposizioni il cui precetto, al contrario della sanzione che viene specificata, è formulato genericamente e deve essere completato da altre fonti sublegislative ovvero è del tutto assente e contenuto in altre norme di grado pari o inferiore.
Ora, se il precetto, o la specificazione dello stesso, è contenuto in regole già entrate in vigore al momento in cui è prodotta la disposizione penale in bianco che ricollega la sanzione in essa contenuta alla violazione di quelle regole, il principio della riserva di legge è rispettato. In questo caso, infatti, il legislatore, quando predispone il rinvio, conosce già le norme che ne costituiscono l’oggetto; la scelta del comportamento criminale, dunque, rimane sostanzialmente nelle mani legislatore.
Sorgono, invece, fondati dubbi di legittimità costituzionale della norma penale in bianco che operi un rinvio a regolamenti o provvedimenti dell’autorità amministrativa futuri. In questa ipotesi sarebbe l’atto normativo di fonte sublegislativa ad individuare in concreto la condotta criminale della norma, violando così il precetto costituzionale contenuto nell’art. 25 II cost.
Si ritiene peraltro che non si possa parlare di norma penale in bianco quando essa rinvii a singole prescrizioni concrete ed individuali, di volta in volta emanate dall’autorità competente perchè esse, non avendo carattere generale ed astratto, non svolgerebbero alcun ruolo precettivo nella descrizione dell’illecito[65].


[1] Sul punto cfr. G. Zanobini, La potestà regolamentare e le norme della costituzione, in Scritti vari di diritto pubblico, Milano 1955, p. 415; P. Gasparri, Il sistema costituzionale delle fonti normative e i provvedimenti dei comitati prezzi, in Giur. cost., 1958, p. 1958, p. 388, ma tale ipotesi secondo l’espressione del A. Berliri, Appunti sul fondamento e sul contenuto dell’art. 23 della Costituzione, in Studi per A. D. Giannini, Milano 1961, p. 179, esula dalla nozione tecnica di riserva: in questo senso, fra l’altro si è pronunciata anche la corte costituzionali con la sentenza n. 134 del 1963 p. 1492, e in dottrina, da ultimo, F. Modugno, L’invalidità della legge, Milano 1970, p. 166.

[2] V. per esempio, C. Mortati, La costituzione di Weimar, Firenze 1946, p. 51, C. Amorth La costituzione italiana, Milano 1948, p. 57; D. Motzo e Piras, Espropriazione e pubblica utilità, in Giur. cost. 1959, p. 160, M. Mazziotti, Studi sulla potestà legislativa delle regioni, Milano 1961, p. 149, M. Gallo, La legge penale (appunti delle lezioni, anno accademico 1962-1963) Torino 1963, p. 21-23, A. Miccio, Lavoro e utilità sociale nella costituzione italiana, Milano 1967, p. 52, I. Faso, La libertà di domicilio, Milano 1968, p. 13, G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano 1967, p. 370.

[3] A. Berliri, Il soggetto privato, cit., pag. 231. Alla stregua di tale pre­messa sembrerebbe che questo autore, di cui alle note 17 e 19 si riportano più recenti opinioni, avrebbe dovuto dare un giudizio sostanzialmente nega­tivo, dal punto di vista della garanzia, della riserva di legge nel nostro ordi­namento, dato il largo uso che ne ha fatto il costituente: ma ciò non accade, perchè egli, stranamente, afferma che la nostra costituzione fa un parco uso della riserva nella materia delle libertà civili (op. cit., pag. 232).

[4] V., al riguardo, le osservazioni di M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano 1966, pag. 159.

[5] Pet P. Virga Diritto costituzionale, Milano 1975 era compito del solo legislatore l’attuazione e la traduzione dei principi costituzionali nell’ordinamento giuridico dello Stato, salve le eccezioni di “positivizzazione” della norma costituziona­le, in cui la stessa particolarità della disciplina da questa dettata manifestava la presenza di norme immediatamente applicabili; ad es.: art. 13.

[6] V. Crisafulli,  Appunti di diritto costituzionale : la Corte costituzionale, Roma 1967.

[7] V. Crisafulli,  Appunti di diritto costituzionale, p. 81.

[8] Cfr. artt. 16 comma 1, 21 comma 5, 33 comma 2, 128: la generalità costituisce qui uno specifico vincolo contenutistico.

[9] In genere, con rinvio non ricettizio: cfr. ad es. l’art. 10 comma 2.

[10] Legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali: art. 80; legge di approvazione del bilancio: art. 81 commi 1-3; legge di approvazione degli statuti regionali ordinari: art. 123 cost.

[11] V. Crisafulli, Le fonti normative, Padova 1976; E. Spagna Musso, Studi di diritto costituzionale,  Napoli 1966

[12] Ad es. le leggi ex art. 8 comma 3: que­ste sono leggi ordinarie come tutte le altre, nel senso che possono abro­gare le leggi anteriori incompatibili, ma non la costituzione; d’altra par­te non possono essere abrogate da leggi successive ordinarie che non sia­no conformi alle intese: soltanto una legge di revisione costituzionale potrebbe modificare le leggi aventi le particolarità dell’art. 8 comma 3. Lo stesso discorso si può fare in relazione alle norme che regolano la condizione giuridica dello straniero in base all’art. 10 comma 2.

[13] Cfr., ad es., le leggi necessariamente generali, la cui for­za attiva sarebbe inferiore a quella delle leggi ordinarie, essendo loro precluso di innovare l’ordinamento con la statuizione di prescrizioni speciali; mentre al tempo stesso la loro forza passiva sarebbe potenziata, per il fatto stesso che le leggi successive ordinarie non generali non potrebbero intervenire in quella materia.

[14] E. Spagna Musso,  Diritto costituzionale, Padova, 1992.

[15] V. artt. 54, 4° c. st. Sard.; 50, 3° c. st. V. d’A.; 104 st. T.A.A.; 63, :2° c. st. F.V.G.

[16] A.M. Sandulli, Diritto costituzionale, Napoli 1990; C. Esposito, Diritto costituzionale repubblicano, Napoli 1999.

[17] Denominato dal Sandulli valore e dall’Esposito forza di legge.

[18] R. Bin pitruzzella,  Diritto costituzionale, Torino 2006 pag. 315.

[19] L. Paladin, Diritto costituzionale, Cedam, 2000, pag. 412.

[20] Ma, ad un più attento esame, la stessa categoria delle riserve rinforzate si rivela scientificamente inattendibile. Se pur è vero, infatti, che numerose riserve di legge sono accompagnate, nel testo costituzio­nale, da prescrizioni circa il contenuto della disciplina da adottare  questa circostanza non appare in grado di modificare la struttura della riserva di legge. In realtà, se si considera che la legge è normalmente sottoposta a molteplici limiti di carattere sostantivo, anche là dove la costituzione sembra affidarle la piena disciplina della materia, la semplice circostanza che tali limiti siano indicati direttamente nella stessa disposizione che prevede la riserva ovvero in altra disposizione costituzionale non può assumere rilievo decisivo.

[21] Ed invero, la dottrina si è soffermata ad analizzare il meccanismo che consentirebbe l’ingresso ad una fonte di diritto secondaria, laddove, chiaramente, la Costituzione ponga una riserva di legge. Secondo alcuni i regolamenti in materia tributaria, previamente “autorizzati” dal legislatore, dovrebbero limitarsi a dare semplice attuazione alla disciplina posta dalla legge.  Cfr A. Berliri Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione in Studi per A.P. Giannini, Milano, 1961, 171 ss., C. Amato, Rapporti, op. cit. 127 e segg. Secondo parte prevalente della dottrina, invece, la natura relativa della riserva di legge comporterebbe la possibilità di integrare, con delle fonti di grado inferiore, la disciplina legislativa. Benché, comunque, nella pratica trovino applicazione tanto i regolamenti delegati (o autorizzati) quanto quelli posti ad integrazione di una disciplina legislativa, è stato rilevato come la distinzione, posta a livello teorico, si scontri, di fatto, con le difficoltà insite nel voler delineare a tutti i costi i contorni di due concetti tanto effimeri quanto quelli di “integrazione” ed “attuazione”. A. Meloncelli, La “delegificazione” ex art. 17, comma 2, L. n. 400/1988 in Atti del convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo”, tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio 1994, a cura di Preziosi, Roma – Milano, 1996. Richiamando l’orientamento dottrinale prevalente si deve peraltro precisare che, sebbene i regolamenti abbiano la possibilità di integrare la legislazione tributaria, essi, comunque, rimangono legati a questa da un vincolo di subordinazione. Si deve ricordare, inoltre, come un punto saliente della possibilità di integrare la disciplina legislativa in materia tributaria sia costituito dal rispetto del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Questo, infatti, rappresenta un aspetto fondamentale, che deve essere tenuto in considerazione in primo luogo dal legislatore chiamato a stabilire i criteri per realizzare un’equa ripartizione delle spese pubbliche, e poi, successivamente, anche in fase di attuazione o integrazione della norma tributaria.

[22]  Mentre la giurisprudenza della corte si è avvalsa normalmente di un criterio lessicale, distinguendo le diverse riserve in base all’espressione con la quale nel testo costituziona­le veniva operato il rinvio alla legge  la dottrina, salvo alcune eccezioni, non è generalmente andata più in là di una passiva accettazione delle conclusioni della giurisprudenza della corte o di una genèrica critica dell’empirismo sotteso alla distinzione tra riserve assolute e relative, e dei criteri adoperati.

Tuttavia, è probabilmente la stessa distinzione che, solleva dubbi circa il suo fondamento.

[23] R. Bin-pitruzzella,  Diritto costituzionale, cit. pag. 317.

[24] R. Bin-pitruzzella,  Diritto costituzionale, cit. pag. 319.

[25] A. Amato-Barbera, Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, 1997.

[26] Come deriverebbe, dagli artt. 128 e 27 nei confronti delle riserve previste, rispettivamente, dagli artt. 23 e 25, 2° c., cost.: la garanzia delle autonomie locali, nel primo caso, la necessità dell’adeguamento della pena alla personalità del reo, nel secondo, consentirebbero al legislatore di devolvere una parte delle scelte caratterizzanti l’imposizione tributaria e l’irrogazione delle sanzioni penali, rispettivamente, agli enti locali ed al giudice.

[27] Infatti, non è solo in capo agli enti locali territoriali di cui all’rt. 128 che la potestà impositiva ex art. 23 risulta dotata di un elevato margine di discrezionalità; nè è solo l’adeguamento delle pene, da parte del giudice, alla personalità del reo l’unica ragione di attenuazione della riserva ex art. 25, 2° c.).

[28] E. Tosato, Liberta e autonomie nella Costituzione, Milano, 1982.

[29] La migliore dottrina afferma che la ratio dell’attribuzione in via esclusiva al legislatore ordinario della potestà normativa in materia penale vada ricercata nella peculiare struttura del procedimento legislativo e nel particolare regime dell’atto legislativo.
Nell’attuale momento politico–costituzionale il procedimento legislativo, seppur con le sue inevitabili imperfezioni, appare lo strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale, bene primario dell’individuo, di cui “si dispone” nel diritto penale. Attraverso il procedimento legislativo si consente, tra l’altro, di tutelare i diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione che partecipano alla formazione della legge e sono poste in condizione di sindacare le scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza. L’obiettivo è quello di garantire, attraverso questa dialettica, la regolamentazione più equilibrata possibile dei diritti fondamentali dei singoli. Vi sono dei casi, tuttavia, in cui il procedimento legislativo non riesce ad assicurare la dialettica parlamentare auspicata (basti pensare all’ipotesi di una maggioranza parlamentare schiacciante). In queste ipotesi l’atto legislativo, grazie al suo particolare regime, è in grado comunque di garantire i cittadini dai possibili arbitrii del potere legislativo – che nel caso sopra prospettato altri non è che la maggioranza – attraverso il controllo da parte della Corte Costituzionale della conformità della legge ai valori ed ai beni costituzionalmente garantiti, ed il controllo di merito ad opera del referendum popolare abrogativo (art. 75 Cost.). Cfr. A. Pizzorusso, Sui limiti della potestà normativa della Corte costituzionale, anno 1982, A. Pagliaro: Legge penale, principi generali, Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, 1973, G. Zagrebelsky, Diritto costituzionale- Il sistema delle fonti, Torino, 1987.

[30] C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, Milano 1998.

[31] Cfr. gli statuti regionali speciali e la l. costituzionale n. 1 del 1953 in relazione alla L n. 87 del 195 3 ed all’art. 137, lo comma, cost.

[32] V. Crisafulli, Le fonti normative, Padova 1976.

[33] G. Amato, La costituente italiana : aspetti del sistema costituzionale, Milano 1984.

[34] C. Mortati, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana: raccolta di scritti, Milano 1950.

[35] Contra, A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, Padova 2002.

[36] Sul principio di imparzialità è obbligatorio il riferimento al sempre attuale B. Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Milano 1965.

[37] L’assimilazione fra imparzialità e legalità, oltre ad essere frequente in dottrina (si vedano in proposito gli Autori citati alla nota 3), trova spazio a volte anche in giurisprudenza (come dimostrano Cons. St., sez. VI, 6 giugno 1984 n. 365, in questa Rivista, 1984, 1218; Cons. St., ad. gen., 22 luglio 1993 n. 59, in Cons. St., 1994, I, 640; Cons. St., sez. V, 26 settembre 1995 n. 1366, in questa Rivista, 1995, 1906).

[38] La questione dei rapporti fra il principio di legalità e quello di tipicità (se di inclusione del secondo nel primo o viceversa, ovvero se di reciproca complementarità) meriterebbe una disanima dettagliata che tuttavia non è possibile in questa sede: per un approfondimento del tema di rinvia ancora a N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001, p.  249 ss. e 384 ss.

[39] Un tentativo di dimostrazione in tale senso è stato operato in N. Bassi, Principio di legalità, cit., 114 ss..

[40] N. Bassi, Principio di legalità, cit., 101 ss..

[41] Esemplare in questo senso è stata l’esperienza statunitense (per maggiori riferimenti: N. Bassi, Principio di legalità, cit., 35 ss.).

[42] Riferimenti in proposito sono forniti, in tempi recenti, da B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli 2006, 103 ss.

[43] Per una disamina più dettagliata delle quali si veda N. Bassi, Principio di legalità, cit., rispettivamente 85 ss. e 49 ss..

[44] Il riferimento è soprattutto a F. Satta, Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, Padova 1969, p. 274 ss., ove si osserva che “salvo espresso divieto della legge, la pubblica amministrazione può sempre adottare gli strumenti più idonei per conseguire i fini ad essa imposti dalla legge”: e non sembra un caso che si tratti di un Autore che (come anticipato nella nota 3) tende a fornire una lettura riduttiva del principio di legalità.

[45] N. Bassi, Principio di legalità, cit., 419 ss..

[46] G. Fiandaca-musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2007 pag. 47.

[47] La riserva di cui all’art. 25 II° comma Cost., riconosce, la legge come unica fonte del diritto penale nel nostro ordinamento. La legge è l’atto normativo che più di ogni altro garantisce la tutela dei i beni fondamentali dei cittadini, anche dai possibili arbitrii del legislatore, attraverso dapprima il vaglio parlamentare – delle minoranze – e successivamente attraverso il sindacato di legittimità della Corte Costituzionale e di merito ad opera del referendum abrogativo. Se quella appena individuata è la ratio del precetto costituzionale contenuto nell’art. 25 II° comma, e se i beni protetti dalla riserva sono i beni fondamentali della persona, si deve necessariamente concludere in favore del carattere assoluto della riserva di legge. In concreto, dunque, il legislatore non potrebbe, in alcun caso, rinviare ad atti diversi dalla legge l’integrazione delle fattispecie penalmente rilevanti.
Occorre, a questo punto, individuare quali siano gli atti normativi idonei a soddisfare il carattere assoluto della riserva.

[48] F. Antolisei,  Manuale di diritto penale, Milano 2003, p. 66.

[49] A. Montesquieu, De l’Esprit de Lois, Paris 1748.

[50] A. Montesquieu, De l’Esprit de Lois, 1748.

[51] Beccaria, Dei delitti e delle pene, Parigi 1766.

[52] A. Delitalia, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. ital. dir. proc. penale, 1964, pag. 967.

[53] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1766.

[54] Così Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 61

[55] Cfr., fra le voci più autorevoli, A. Vassalli, voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. pen., vol. VII, 1994, p. 310, B. Marini: voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, 1973. nonché, nella manualistica, G. Contento, Corso di diritto penale, vol. I, 2006, p. 36 s.; C. Fiore, Diritto penale, pt. gen., vol. I, Napoli 1993, p. 64 s.; F. Mantovani, Diritto penale, pt. gen.,Padova 2007 ed., 1992, p. 90 s.; Padovani, Diritto penale, pt. gen., 4ª ed., 1998, p. 20 ss.; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, pt. gen., 6ª ed., 1998, p. 42 s.

[56] Cfr. A. Palazzo, voce Legge penale, in Dig. pen., vol. VII, 1993.

[57] E’ pacifico, inoltre, che anche i decreti legislativi (ex art.. 76 Cost e 77 I comma) e i decreti legge (ex art. 77 commi 2 e 3 Cost) siano ammissibili come fonti del diritto penale.
Entrambi, infatti, oltre ad avere forza e valore legge sono soggetti al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale ed all’eventuale referendum abrogativo, soddisfacendo evidentemente a pieno la ratio della riserva di legge. Inoltre tanto i decreti legislativi, quanto i decreti legge sono sottoposti al vaglio, rispettivamente preventivo e successivo, del plenum dell’Assemblea parlamentare. Per quanto riguarda i decreti legislativi, infatti, è lo stesso Parlamento che determina i principi ed i criteri direttivi che il governo dovrà rispettare nella redazione del decreto. I decreti legge invece, che possono essere adottati solo in casi straordinari di necessità e di urgenza, devono essere convertiti in legge ordinaria entro 60 gg dalla loro pubblicazione ed in caso di mancata conversione perdono efficacia sin dall’inizio. La dottrina è unanime, inoltre, nel negare la legittimazione delle regioni a statuire in materia penale. Gli argomenti maggiormente probanti, a sostegno di tale opinione, sono quello delle inderogabili condizioni di uguaglianza in tema di libertà personale (art. 3 Cost), nonché il divieto posto alle regioni dall’art. 120 2° e 3° comma Cost di adottare provvedimenti che ostacolino o limitino l’esercizio, da parte dei cittadini, di diritti fondamentali.

[58] Cfr. Marinucci, Gestione di impresa e pubblica amministrazione: nuovi e vecchi profili penalistici, in questa Riv. pen e proc. pen, 1988, p. 430, nt. 11

[59] A proposito della l. 19 febbraio 1982, n. 142, con la quale il Parlamento delegava al Governo l’attuazione di ben 97 direttive comunitarie, cfr. A. Mucciarelli, La normativa sullo smaltimento dei rifiuti, dei policlorodifenili e dei rifiuti tossici e nocivi e i suoi rapporti con la normativa sull’inquinamento idrico, in LP, 1983, p. 577 ss

[60] Il testo del Progetto è pubblicato in Indice pen., 1992, p. 579 ss

[61] Per una critica al Progetto in questa prospettiva, cfr. F. Angioni, Le norme definitorie e il Progetto di legge delega per un nuovo codice penale, in A. Canestrari (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, 1998, p. 192 ss

[62] Per un’analisi critica di questa tendenza delle deleghe legislative a partire dagli anni settanta, cfr. per tutti C. Cartabia, I decreti legislativi “integrativi e correttivi”: il paradosso dell’effettività, in Rass. parlam., 1997, p. 45 ss

[63] Non potrebbe essere diversamente: se i fatti costitutivi di illeciti penali e le relative conseguenze devono essere previsti da regole ordinarie, qualsiasi effetto modificativo o estintivo, del fatto o della sanzione, non può essere stabilito a mezzo di regola secondaria .Se così fosse si verrebbe ad ammettere che ciò che la legge dispone ed è garantito dalla riserva sarebbe derogabile o modificabile da norme di grado inferiore; conclusione questa inammissibile tanto in considerazione della ratio della riserva, quanto in base al principio della gerarchia delle fonti.

[64] Nel rispetto di tale principio il legislatore penale può, dunque, delegare ad una fonte normativa secondaria l’integrazione o la specificazione di elementi di fattispecie già esaurientemente espressi dalle scelte valutative contenute nella legge (il legislatore sfrutta spesso la possibilità di operare rinvii ai regolamenti dell’esecutivo in materie particolarmente tecniche o che richiedano continui aggiornamenti). Viceversa, le leggi “non possono rimettere ad altre autorità di determinare in via normativa, a propria scelta, se sanzionare o no certe infrazioni e se sanzionarle in una misura o con certe modalità piuttosto che diversamente” (Corte Cost. sentenza 26/1966).

[65] Secondo alcuni autori la norma penale in bianco non violerebbe il principio di riserva di legge perché gli atti sublegislativi ai quali si richiama non costituirebbero una fonte integratrice del precetto. Il precetto, infatti, sarebbe contenuto interamente nella disposizione penale non rappresentando altro che l’ordine di obbedire all’atto sublegislativo richiamato (teoria della c.d. disobbedienza come tale). Sta di fatto che ove si volesse attribuire alla riserva di legge in materia penale carattere assoluto non si potrebbe non ravvisare l’incostituzionalità delle norme penali in bianco.

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