Dottrina

Distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa

In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato —come disciplinata ratione temporis- e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, occorre riaffermare (richiamando da ultimo Cass. 28-04-2017, n. 10583, resa in relazione a fattispecie analoga), che la causa del primo è ravvisabile nello scambio tra l’apporto dell’associato all’impresa dell’associante ed il vantaggio economico che quest’ultimo si impegna a corrispondere all’associato medesimo.

Non costituiscono elementi caratterizzanti del contratto, invece, sia la partecipazione alle perdite, atteso che l’associato che lavori in un’impresa con risultati negativi comunque è soggetto in senso lato ad un rischio economico, sia la mancanza dell’effettività di controllo da parte dell’associato sulla gestione dell’impresa, posto che diversamente si desume dall’art. 2552 c.c., comma 3, sia la circostanza che la partecipazione possa essere commisurata al ricavo dell’impresa anziché agli utili netti, in quanto l’art. 2553 c.c. consente alle parti di determinare la quantità della partecipazione dell’associato agli utili (Cass. 8/10/2008,n. 24871; Cass. 18/4/2007,n. 9264, seguite da Cass. 18/2/2009, n. 3894; Cass. 27/1/2011, n. 1954; Cass. del 29/01/2015, n. 1692).

Parte della giurisprudenza ha altresì affermato che la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti. Tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 24871/2008, cit.).

La labilità del confine tra rapporto di lavoro subordinato e associazione in partecipazione con apporto di prestazioni lavorative impone che l’accertamento sia condotto in modo rigoroso dovendosi rammentare che, con riguardo alle controversie la cui soluzione involge la questione dell’accertamento della natura subordinata o autonoma di un rapporto di lavoro, l’elemento decisivo che contraddistingue l’una dall’altra è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro ed il conseguente inserimento del lavoratore in modo stabile ed esclusivo nell’organizzazione aziendale.

Costituiscono poi indici sintomatici della subordinazione, valutabili dal giudice del merito sia singolarmente che complessivamente, l’assenza del rischio di impresa, la continuità della prestazione, l’obbligo di osservare un orario di lavoro, la cadenza e la forma della retribuzione, l’utilizzazione di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro (vedi tra le tante v. Cass. 17/4/2009, n. 9256; Cass. 9/3/2009, n. 5645; Cass. 28/9/2006, n. 21028; Cass. 24/2/2006, n. 4171; Cass. 25/10/2004, n. 20669). Si aggiunge, inoltre, che non si può comunque prescindere dalla volontà delle parti contraenti e sotto questo profilo va tenuto presente il nomen iuris utilizzato, il quale però non ha mai un rilievo assorbente, poiché deve tenersi conto, sul piano della interpretazione della volontà delle parti, del comportamento complessivo delle stesse, anche posteriore alla conclusione del contratto, con la conseguenza che in caso di contrasto tra dati formali e dati fattuali relativi alle modalità della prestazione, occorre dare prevalenza ai secondi (Cass. 21/10/2014, n. 22289; Cass. 27/7/2009, n. 17455; Cass. 23/7/2004, n. 13884).

Spetta dunque al giudice di merito accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento contrattuale si sia poi tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti, ovvero se quest’ultimo possa ragionevolmente indurre a ravvisare la formazione di una diversa volontà negoziale (Cass.18/4/2007, n. 9264).

La Corte d’appello (sentenza n. 923/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 19/11/2013), pur libera di scegliere le fonti del proprio convincimento, selezionando quelle ritenute più attendibili o maggiormente significative, non solo non ha affatto esaminato il contratto, a cui le parti hanno dato il nomen iuris di associazione in partecipazione, ma non ha neppure preso in esame le dichiarazioni testimoniali assunte nel giudizio di primo grado, in cui vi era la descrizione delle concrete modalità con cui si è svolto il rapporto.

La Corte d’Appello di Ancona ha così aderito acriticamente alla soluzione dell’attività di lavoro subordinato, apparendo del tutto inadeguato e insufficiente il ragionamento presuntivo adottato, desunto dalla natura dell’attività svolta (attività commerciale al minuto) in mancanza di un qualsivoglia accertamento in ordine alle modalità con le quali si è in concreto attuato il rapporto, nonché la valorizzazione di un unico elemento, la commisurazione (di parte) del compenso al prezzo complessivo delle vendite, anziché agli utili, elemento però non significativo, come sopra anticipato.

Né possono invocarsi i principi affermati in Cass. 6/09/2007, n. 18692, – secondo cui la prestazione di attività lavorativa onerosa all’interno dei locali dell’azienda (nella specie, commesso addetto alla vendita), comporta una presunzione di subordinazione, che è onere del datore di lavoro vincere, – giacché nella fattispecie esaminata era stato comunque accertato che il lavoro si era svolto con modalità tipologiche proprie di un lavoratore subordinato.

Accertamento che, invece, è del tutto mancato nel caso in esame.

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